Alfredo non ha fretta. Cammina, mani in tasca, tra i vicoli e le piazze, costeggia parchi, canali, s’intrufola tra la gente senza farsi notare, fantasma. A volte inciampa nella bellezza Alfredo e allora si ferma. Guarda con attenzione e i sensi sembrano risvegliarsi, il cuore battere.
“Ora” dice Alfredo a se stesso e chiude gli occhi. "Ora". Poi li riapre e riprende a camminare.
"La poesia è scritta da qualcuno che non è lo scrittore a qualcuno che non è il lettore" - Paul Valéry -
martedì, novembre 13, 2018
lunedì, novembre 12, 2018
estirpare
La mano cerca ancora un appiglio,
un appoggio per quest'anima.
Di sangue la roccia,
il cuore.
un appoggio per quest'anima.
Di sangue la roccia,
il cuore.
domenica, settembre 02, 2018
percorsi
Cieco
ancora un passo muovo,
poi un altro,
ma già non più attendo
le note di fondo
a farmi da guida, l’allegrezza
dell’occultarsi al mondo
ancora un passo muovo,
poi un altro,
ma già non più attendo
le note di fondo
a farmi da guida, l’allegrezza
dell’occultarsi al mondo
domenica, agosto 26, 2018
-il soldatino di napoleone- di Antonio Lillo
"Continuo a ripensare alle parole di un poeta che ho conosciuto pochi giorni fa. Lui scrive poesie di tipo filosofico-intimistico. E quando gli ho detto di essere maggiormente interessato a una poesia che va più sul sociale, mi ha fatto un sorrisino furbo e mi ha detto che quel tipo di poesia, secondo lui, così com’è fatta oggi, è noiosa. Gli ho chiesto perché. E lui mi fa l’esempio di un campo di battaglia napoleonico: la maggior parte della poesia civile, dice, la scrive gente che prende la posizione del soldatino, il quale viene sbattuto forzatamente in mezzo ai combattimenti e si lamenta delle sue sfortune, ma non capisce realmente cosa sta succedendo. L’unico che ha la visione reale e completa della situazione, che può capire e descrivere come vanno le cose non è il soldatino, ma Napoleone, che sta sulla collina al sicuro, controlla che succede col suo cannocchiale, interpreta la situazione e impartisce ordini. Quindi, gli dico io innervosito, mi stai dicendo che prendere le parti del soldatino è inutile? No, dico che per fare una poesia sociale interessante bisogna entrare nella testa di Napoleone, e non nel cuore del soldatino. Perché parlare del cuore del soldatino è facile, è un discorso abusato, ma è pensare come Napoleone che è difficile. È un discorso talmente classista e snob, che sulle prime mi ha dato un fastidio enorme, eppure continuo a ripensarci. C'è qualcosa che mi turba. Perché mi chiedo se in qualcosa non abbia ragione lui, se sono io che non capisco dove va il mondo e sto sbagliando qualcosa. Ma possibile, mi dico, che siamo arrivati a questo punto, che parlare del cuore del soldatino, prendere le sue parti, è considerato non solo inutile e noioso, ma insufficiente a capire come va il mondo? E se anche fosse così, se alla guerra togli il soldatino, se consideri soltanto la visione di Napoleone, a parte Napoleone, mi chiedo, che rimane? Per me rimane soltanto la guerra, come concetto astratto e freddo, non resta più nulla insomma. E tu poeta, che canti?"
Fonte: https://toniorasputin.blogspot.com/2018/08/il-soldatino-di-napoleone.html
domenica, agosto 12, 2018
Mario Benedetti - Che cos’è la solitudine -
Ho portato con me delle vecchie cose per guardare gli alberi:
un inverno, le poche foglie sui rami, una panchina vuota.
Ho freddo, ma come se non fossi io.
Ho portato un libro, mi dico di essermi pensato in un libro
come un uomo con un libro, ingenuamente.
Pareva un giorno lontano oggi, pensoso.
Mi pareva che tutti avessero visto il parco nei quadri,
il Natale nei racconti,
le stampe su questo parco come uno spessore.
Che cos’è la solitudine.La donna ha disteso la coperta sul pavimento per non sporcare,
si e distesa prendendo le forbici per colpirsi nel petto,
un martello perché non ne aveva la forza, un’oscenità grande.
L’ho letto in un foglio di giornale.
Scusatemi tutti.
Mario Benedetti, “Che cos’è la solitudine” (da “Umana gloria”, Mondadori, 2004)
giovedì, luglio 26, 2018
Giorgio Caproni - Ritorno
Sono tornato là
dove non ero mai stato.
Nulla, da come non fu, è mutato.
Sul tavolo (sull’incerato
a quadretti) ammezzato
ho ritrovato il bicchiere
mai riempito. Tutto
è ancora rimasto quale
mai l’avevo lasciato.
Giorgio Caproni, Ritorno da Il muro della terra
dove non ero mai stato.
Nulla, da come non fu, è mutato.
Sul tavolo (sull’incerato
a quadretti) ammezzato
ho ritrovato il bicchiere
mai riempito. Tutto
è ancora rimasto quale
mai l’avevo lasciato.
Giorgio Caproni, Ritorno da Il muro della terra
mercoledì, luglio 25, 2018
[Alfredo] Strade
C’è un passaggio verso la campagna, un sentiero, non lontano dall'abitazione di Alfredo che lui non ha mai finito di esplorare.
È stretto. Accarezza il retro di poche case basse, inizialmente. L’intonaco sbriciolato, rigonfio, di quelle ne segna i confini. Poi prati stabili ad affiancarlo, altre case, l’orizzonte.
Alfredo ne è stato sempre affascinato ed è pure successo che ne abbia percorso qualche piccolo tratto iniziale: una volta fin quasi ad arrivare alla pianura. La quasi totale assenza di alberi, di ombra dove rifugiarsi e sparire, lo aveva, però, sempre fatto desistere.
Il fatto è che Alfredo credeva che loro non fossero ancora pronti a quel passo.
Aveva sempre pensato che ogni cosa, tutto quanto esiste, deve poter essere libera di accogliere e di essere accolta, anche se, nello stesso tempo, aveva sempre sostenuto che per tutto ciò che ci è dato desiderare fosse anche possibile considerare una forzatura. Il provare, comunque, un contatto, un’unione.
Oggi Alfredo ha preso con se una bottiglia d’acqua, calzato un cappello di paglia un po’ sbrindellato e mosso i primi passi. Il sentiero, sentendolo arrivare così deciso, sembrava nascondersi timoroso tra le mura.
“Ormai è inutile, è passato il tempo” gli sussurrò quello, quasi accarezzandolo con la propria voce. E poi "Sei vecchio! Non riuscirai, non riusciremo. Ti prego" aggiunse, cambiando intonazione così rapidamente da renderne quasi indistinguibili le parole.
Alfredo continuò ad avanzare.
I passi erano lenti, ma non per la fatica. Aveva imparato con gli anni l’inutilità di ogni spreco, il gusto del tranquillo possesso, l’energia trasmessa da uno sguardo.
I primi campi lo accolsero sorridendo.
“Dove vai? Dove vai Alfredo? Non senti come inizia a diventare calda questa giornata? Non vedi quanto ancora ti manca?”
Alfredo si guardò attorno, pensò dapprima all’alto fusto di quell’erba viperina che sembrava essersi piegata al suo passaggio, ma poi si rese conto che non potevano essere che quelle birbe di pratoline.
“Avete anche cambiato il tono di voce per fermarmi?”
“Ma noi lo diciamo per te” rispose un gruppo.
“Lo sai che ti vogliamo bene” aggiunse un altro.
“Lo so, lo so” disse loro Alfredo, ma in realtà si fidava poco di quelle fanciulline sempre innamorate. Prese un sorso d’acqua e continuò a camminare.
Alle sue spalle le margheritine continuavano a chiamarlo, ma ormai, davanti ai suoi occhi, c’era solo una lunga e fitta distesa di bassi ciuffi d’erba.
Aveva già percorso un lungo tratto di strada, ma il sentiero continuava a tacere. Alfredo si fermò un attimo per guardare indietro.
“È una cosa che non si dovrebbe mai fare questa!” disse, bonariamente, a se stesso e subito gli tornarono in mente le storie ascoltate e lette da bambino, quelle che lo affascinavano perché a lui incomprensibili. Quelle ormai dimenticate.
Ricomparve, nei suoi occhi, Orfeo che portò con sé la sua Euridice, ma dietro di loro era la moglie di Lot, la statua di sale, a fissarlo.
Alfredo ripensò alla suora che dalla cattedra aveva raccontato al gruppo dei minuscoli discenti quella storia. Nessuna spiegazione, nessuna enfasi nelle parole di quel basso e già vecchio corvo nero. Solo la piatta lettura del passo della Bibbia. Del resto cosa, come, spiegare a dei bambini verità così peccaminose, impure.
Chissà, allora, perché la scelta di quel brano. Forse la donna pensava a se stessa, oppure quella volta le dita, sempre dolci tra la testa e il taglio della sua piccola Bibbia, le erano scivolate, nell’imprevedibilità di ogni cosa, proprio tra quelle pagine.
Alfredo aveva ripensato per giorni a quella donna e alla sua città. Quale era stata la colpa di quei luoghi? Perché proibire alla sfortunata quel gesto?
Poi il ricordo era andato via, sommerso da giochi e interrogazioni. Dalla vita di un fanciullo diventato uomo. Erano trascorsi decenni prima che riaffiorasse proprio lì, proprio in quel momento.
“Vedi come sia difficile evitare di voltarti, Alfredo?”
Finalmente il sentiero tornava a parlare.
“Vedi come è difficile, duro, il rimpianto?”
Alfredo si era fermato per ascoltare meglio, ma la voce prestò sparì per riapparire pochi attimi dopo, non appena l'uomo aveva ripreso il cammino.
“Capiterà anche a te, Alfredo. Capiterà anche a noi”
L’uomo sorrise come solo sanno fare i bimbi.
Era già passato parecchio tempo da quando era partito e il sole diventava sempre più alto.
Tutt'intorno solo erba, ma non molto lontano finalmente qualcosa sembrava esistere oltre quel soffice verde.
“Deve essere una quercia...” pensò “...nulla può essere qui così solenne”
Abbandonò, dunque, la strada e iniziò a dirigersi verso la grigia corteccia. L'albero lo accolse come se già sapesse.
“Ti aspettavo da tempo, riposati dunque” ordinò quasi al pellegrino, ma non era necessario insistere tanto Alfredo si accorse di essere stanco. Si sdraiò dunque sull'erba a guardare la luce passare tra la chioma, a immaginare il cielo.
“Hai mai rimpianti?”
“Rimpianti di cosa Alfredo? Delle cose avvenute? Di quelle non realizzate?”
“Rimpianti, insomma. Io non credo di averne, di averne veramente intendo. Forse in un solo caso, ecco ma quello credo sia diverso. E poi non ne voglio parlare. Credo sia una cosa personale. Ecco io penso ai rimpianti ordinari. Certo... quello che è successo, quello che sarebbe potuto succedere. A me capita di giustificarmi. No, non è questo che voglio dire. Insomma è come se mi rendessi conto di aver cercato ogni volta di… di tracciare la strada, ecco. Di aver tentato”
“Lo credi davvero?”
“Sì, si. Credo sia così. E tu?”
“Io sono qui. Vedo le cose passare. Non ho tempo per i rimpianti”
“E si può vivere senza? Sì lo so, prima ti ho detto di non averne veramente mai avuto la sensazione, di non averne provato la tristezza. E però credo siano necessari. Come vivere senza? Senza ricordo, senza immaginazione, senza paura che possa succedere di nuovo”
“Lo hai descritto. Il rimpianto è un vagare da un luogo all'altro. Capisci ora come e perché esso non mi appartenga? Riposati però ora, hai ancora tanta strada da fare”
Alfredo diede un cenno di assenso con il capo e riprese a fissare il cielo. L’erba era comoda e fresca. Ne strappo un filo e lo portò alle labbra. Era acidula, ma buona. Il sole lo accarezzava e gli ridava forza, ma aveva ancora voglia di chiedere.
“ E tu allora come fai?”
“Io accolgo il presente, Alfredo. Lo faccio mio e lo lascio andare. Nulla chiedo di ciò che è successo, nulla saprò di ciò che accadrà”
È stretto. Accarezza il retro di poche case basse, inizialmente. L’intonaco sbriciolato, rigonfio, di quelle ne segna i confini. Poi prati stabili ad affiancarlo, altre case, l’orizzonte.
Alfredo ne è stato sempre affascinato ed è pure successo che ne abbia percorso qualche piccolo tratto iniziale: una volta fin quasi ad arrivare alla pianura. La quasi totale assenza di alberi, di ombra dove rifugiarsi e sparire, lo aveva, però, sempre fatto desistere.
Il fatto è che Alfredo credeva che loro non fossero ancora pronti a quel passo.
Aveva sempre pensato che ogni cosa, tutto quanto esiste, deve poter essere libera di accogliere e di essere accolta, anche se, nello stesso tempo, aveva sempre sostenuto che per tutto ciò che ci è dato desiderare fosse anche possibile considerare una forzatura. Il provare, comunque, un contatto, un’unione.
Oggi Alfredo ha preso con se una bottiglia d’acqua, calzato un cappello di paglia un po’ sbrindellato e mosso i primi passi. Il sentiero, sentendolo arrivare così deciso, sembrava nascondersi timoroso tra le mura.
“Ormai è inutile, è passato il tempo” gli sussurrò quello, quasi accarezzandolo con la propria voce. E poi "Sei vecchio! Non riuscirai, non riusciremo. Ti prego" aggiunse, cambiando intonazione così rapidamente da renderne quasi indistinguibili le parole.
Alfredo continuò ad avanzare.
I passi erano lenti, ma non per la fatica. Aveva imparato con gli anni l’inutilità di ogni spreco, il gusto del tranquillo possesso, l’energia trasmessa da uno sguardo.
I primi campi lo accolsero sorridendo.
“Dove vai? Dove vai Alfredo? Non senti come inizia a diventare calda questa giornata? Non vedi quanto ancora ti manca?”
Alfredo si guardò attorno, pensò dapprima all’alto fusto di quell’erba viperina che sembrava essersi piegata al suo passaggio, ma poi si rese conto che non potevano essere che quelle birbe di pratoline.
“Avete anche cambiato il tono di voce per fermarmi?”
“Ma noi lo diciamo per te” rispose un gruppo.
“Lo sai che ti vogliamo bene” aggiunse un altro.
“Lo so, lo so” disse loro Alfredo, ma in realtà si fidava poco di quelle fanciulline sempre innamorate. Prese un sorso d’acqua e continuò a camminare.
Alle sue spalle le margheritine continuavano a chiamarlo, ma ormai, davanti ai suoi occhi, c’era solo una lunga e fitta distesa di bassi ciuffi d’erba.
Aveva già percorso un lungo tratto di strada, ma il sentiero continuava a tacere. Alfredo si fermò un attimo per guardare indietro.
“È una cosa che non si dovrebbe mai fare questa!” disse, bonariamente, a se stesso e subito gli tornarono in mente le storie ascoltate e lette da bambino, quelle che lo affascinavano perché a lui incomprensibili. Quelle ormai dimenticate.
Ricomparve, nei suoi occhi, Orfeo che portò con sé la sua Euridice, ma dietro di loro era la moglie di Lot, la statua di sale, a fissarlo.
Alfredo ripensò alla suora che dalla cattedra aveva raccontato al gruppo dei minuscoli discenti quella storia. Nessuna spiegazione, nessuna enfasi nelle parole di quel basso e già vecchio corvo nero. Solo la piatta lettura del passo della Bibbia. Del resto cosa, come, spiegare a dei bambini verità così peccaminose, impure.
Chissà, allora, perché la scelta di quel brano. Forse la donna pensava a se stessa, oppure quella volta le dita, sempre dolci tra la testa e il taglio della sua piccola Bibbia, le erano scivolate, nell’imprevedibilità di ogni cosa, proprio tra quelle pagine.
Alfredo aveva ripensato per giorni a quella donna e alla sua città. Quale era stata la colpa di quei luoghi? Perché proibire alla sfortunata quel gesto?
Poi il ricordo era andato via, sommerso da giochi e interrogazioni. Dalla vita di un fanciullo diventato uomo. Erano trascorsi decenni prima che riaffiorasse proprio lì, proprio in quel momento.
“Vedi come sia difficile evitare di voltarti, Alfredo?”
Finalmente il sentiero tornava a parlare.
“Vedi come è difficile, duro, il rimpianto?”
Alfredo si era fermato per ascoltare meglio, ma la voce prestò sparì per riapparire pochi attimi dopo, non appena l'uomo aveva ripreso il cammino.
“Capiterà anche a te, Alfredo. Capiterà anche a noi”
L’uomo sorrise come solo sanno fare i bimbi.
Era già passato parecchio tempo da quando era partito e il sole diventava sempre più alto.
Tutt'intorno solo erba, ma non molto lontano finalmente qualcosa sembrava esistere oltre quel soffice verde.
“Deve essere una quercia...” pensò “...nulla può essere qui così solenne”
Abbandonò, dunque, la strada e iniziò a dirigersi verso la grigia corteccia. L'albero lo accolse come se già sapesse.
“Ti aspettavo da tempo, riposati dunque” ordinò quasi al pellegrino, ma non era necessario insistere tanto Alfredo si accorse di essere stanco. Si sdraiò dunque sull'erba a guardare la luce passare tra la chioma, a immaginare il cielo.
“Hai mai rimpianti?”
“Rimpianti di cosa Alfredo? Delle cose avvenute? Di quelle non realizzate?”
“Rimpianti, insomma. Io non credo di averne, di averne veramente intendo. Forse in un solo caso, ecco ma quello credo sia diverso. E poi non ne voglio parlare. Credo sia una cosa personale. Ecco io penso ai rimpianti ordinari. Certo... quello che è successo, quello che sarebbe potuto succedere. A me capita di giustificarmi. No, non è questo che voglio dire. Insomma è come se mi rendessi conto di aver cercato ogni volta di… di tracciare la strada, ecco. Di aver tentato”
“Lo credi davvero?”
“Sì, si. Credo sia così. E tu?”
“Io sono qui. Vedo le cose passare. Non ho tempo per i rimpianti”
“E si può vivere senza? Sì lo so, prima ti ho detto di non averne veramente mai avuto la sensazione, di non averne provato la tristezza. E però credo siano necessari. Come vivere senza? Senza ricordo, senza immaginazione, senza paura che possa succedere di nuovo”
“Lo hai descritto. Il rimpianto è un vagare da un luogo all'altro. Capisci ora come e perché esso non mi appartenga? Riposati però ora, hai ancora tanta strada da fare”
Alfredo diede un cenno di assenso con il capo e riprese a fissare il cielo. L’erba era comoda e fresca. Ne strappo un filo e lo portò alle labbra. Era acidula, ma buona. Il sole lo accarezzava e gli ridava forza, ma aveva ancora voglia di chiedere.
“ E tu allora come fai?”
“Io accolgo il presente, Alfredo. Lo faccio mio e lo lascio andare. Nulla chiedo di ciò che è successo, nulla saprò di ciò che accadrà”
lunedì, luglio 16, 2018
[Alfredo] Pioggia
Piove. Alfredo ritira i panni stesi da poco e porta le piccole fioriere a saziarsi di acqua e vento. Piaceva anche a lui da ragazzo, come ora alle sue piante, quello che a quasi tutti gli altri pareva solo un fastidio estivo: la noia dei giochi a casa, l'addio al giorno a mare.
Ad Alfredo no. A lui piaceva quella sfuriata. Se poteva inforcava la bici e iniziava a scoprire il mondo, fin quasi all'altro capo della città, tra i dedali della casba e le colline della periferia. Tra il mare e la lava. Tra le luci e la notte.
Le strade, di certo più deserte di quel che succede oggi, erano allora quasi totalmente vuote sotto quell'acqua che nettava ogni cosa. Sotto quel vento che sollevava uccelli di carta, che sbatacchiava finestre mal chiuse, che urlava.
Alfredo gli correva incontro e sentiva la pioggia bagnargli il viso quasi ad impedirgli di vedere.
Tutto diventava confuso e magico. Tutto sembrava avere fine. Come avveniva in quasi tutti i film che vedeva allora: la conclusione affidata al lento sparire dell'immagine.
Era quella la morte di ogni cosa? Questo lento sfocarsi?
Ad Alfredo non interessava molto. Aveva la sua bici, la pioggia, il vento, dieci anni.
Ad Alfredo no. A lui piaceva quella sfuriata. Se poteva inforcava la bici e iniziava a scoprire il mondo, fin quasi all'altro capo della città, tra i dedali della casba e le colline della periferia. Tra il mare e la lava. Tra le luci e la notte.
Le strade, di certo più deserte di quel che succede oggi, erano allora quasi totalmente vuote sotto quell'acqua che nettava ogni cosa. Sotto quel vento che sollevava uccelli di carta, che sbatacchiava finestre mal chiuse, che urlava.
Alfredo gli correva incontro e sentiva la pioggia bagnargli il viso quasi ad impedirgli di vedere.
Tutto diventava confuso e magico. Tutto sembrava avere fine. Come avveniva in quasi tutti i film che vedeva allora: la conclusione affidata al lento sparire dell'immagine.
Era quella la morte di ogni cosa? Questo lento sfocarsi?
Ad Alfredo non interessava molto. Aveva la sua bici, la pioggia, il vento, dieci anni.
domenica, luglio 15, 2018
Michel Faber
Ecco come stanno le cose:
trascorreremo la notte separati.
Ho il tuo nuovo indirizzo
stampato su un bigliettino
ma non conosco la città abbastanza bene
da figurarmi il posto dove stai dormendo.
Inoltre, è tutto finito ormai.
Non sono più necessario ai tuoi bisogni.
Sei con altri della tua stessa razza
e io, alfine, sono assente dalla tua mente.
trascorreremo la notte separati.
Ho il tuo nuovo indirizzo
stampato su un bigliettino
ma non conosco la città abbastanza bene
da figurarmi il posto dove stai dormendo.
Inoltre, è tutto finito ormai.
Non sono più necessario ai tuoi bisogni.
Sei con altri della tua stessa razza
e io, alfine, sono assente dalla tua mente.
Ci sono così tante persone alle quali dovrei dire
che mi hai lasciato.
Una sfida per un altro giorno.
Che caldo c’è! Ormai è luglio.
Alzo gli occhi mentre cammino e in cielo
vedo la prima delle lune
che non condivideremo.
che mi hai lasciato.
Una sfida per un altro giorno.
Che caldo c’è! Ormai è luglio.
Alzo gli occhi mentre cammino e in cielo
vedo la prima delle lune
che non condivideremo.
Undying. Una storia d’amore (La nave di Teseo, 2017), trad. it. L. Manini
Grazie a: https://internopoesia.com/
[Alfredo] Mare
Tutte le volte che Alfredo decideva di morire si preparava con cura. Si svegliava al fresco della notte che stava per finire e metteva sul fuoco la moka per la sua tazza di caffè. In quelle occasioni non attendeva che il liquido colmasse il contenitore, ma preferiva riempire la tazza in modo che la scossa del calore e del profumo gli ricordasse la vita. Attendeva, nel frattempo, che il bagno si riempisse di vapore e lì, con cura, ripassava la vecchia lama sul volto quasi ingrigito. A togliere ombra. A ridare luce.
Indossava per queste occasioni Alfredo i vestiti più nuovi o poco utilizzati e con questi si osservava bene allo specchio in cerca di qualche piccola piega che falsasse il risultato, l’apparenza.
Dopo averlo fatto, usciva. Si dirigeva verso il porto a salutare il mare. Nel tragitto ripensava, il più delle volte, a quanto fosse buffo quello strano credere che vedeva nel viso, nei gesti, delle persone che incontrava. E rifletteva sul fatto che anche lui, un tempo…
Tutte le volte che Alfredo decideva di morire rientrava tardi, un po’ accaldato, verso casa.
Indossava per queste occasioni Alfredo i vestiti più nuovi o poco utilizzati e con questi si osservava bene allo specchio in cerca di qualche piccola piega che falsasse il risultato, l’apparenza.
Dopo averlo fatto, usciva. Si dirigeva verso il porto a salutare il mare. Nel tragitto ripensava, il più delle volte, a quanto fosse buffo quello strano credere che vedeva nel viso, nei gesti, delle persone che incontrava. E rifletteva sul fatto che anche lui, un tempo…
Tutte le volte che Alfredo decideva di morire rientrava tardi, un po’ accaldato, verso casa.
venerdì, luglio 13, 2018
Nembostrati
Piccole gocce di sole illuminano ancora il cielo,
ci si potrebbe riflettere l'anima,
scaldare il desiderio.
Le porto alle labbra,
secche.
scaldare il desiderio.
Le porto alle labbra,
secche.
Tutto intorno è sconosciuta tempesta.
sabato, maggio 05, 2018
Valerio Magrelli - Io sono ciò che manca
Io sono ciò che manca
dal mondo in cui vivo,
colui che tra tutti
non incontrerò mai.
Ruotando su me stesso ora coincido
con ciò che mi è sottratto.
Io sono la mia eclissi
la contumacia e la malinconia
l’oggetto geometrico
di cui sempre dovrò fare a meno.
Valerio Magrelli, da Ora serrata retinae (1980)
Grazie a: https://ipoetisonovivi.com
mercoledì, maggio 02, 2018
[Alfredo] Primo Maggio
Ancora non c'è quasi il sole quando esce di casa.
A volte Alfredo si sveglia e non riesce più a dormire, allora lo sa che è necessario alzarsi e andare fuori a fare un giro. Guardare le cose, il cielo.
Oggi dormono ancora tutti. E' festa. La festa di chi lavora.
Alfredo si ritrova, quasi senza rendersene conto, a fare il percorso che ha fatto per tanti anni. Quello che probabilmente faranno tra poche ore tante voci, tante bandiere. Ora però non c'è anima viva per le strade e lui può camminare tranquillo. Alzare gli occhi senza temere di urtare qualcuno o inciampare. Scoprire scritte e balconi, ombre, vecchi portoni.
Lì è dove una volta sono stati caricati con i suoi colleghi, quell'altra è la strada da cui è uscita quella ragazza che insisteva tanto per vendergli il giornale comunista, la stessa che poi gli ha offerto una birra alla fine dei comizi. Quello invece il muro che una volta ha visto macchiarsi di sangue e Alfredo allora risente di nuovo l'odore della polvere da sparo, il suono delle sirene. Manca poco all'arrivo alla piazza.
Alfredo cammina ed è ancora pieno di speranze anche se non lo ammetterebbe mai. E gli scappa anche un sorriso quando finalmente il sole buca le nuvole e lo bacia.
A volte Alfredo si sveglia e non riesce più a dormire, allora lo sa che è necessario alzarsi e andare fuori a fare un giro. Guardare le cose, il cielo.
Oggi dormono ancora tutti. E' festa. La festa di chi lavora.
Alfredo si ritrova, quasi senza rendersene conto, a fare il percorso che ha fatto per tanti anni. Quello che probabilmente faranno tra poche ore tante voci, tante bandiere. Ora però non c'è anima viva per le strade e lui può camminare tranquillo. Alzare gli occhi senza temere di urtare qualcuno o inciampare. Scoprire scritte e balconi, ombre, vecchi portoni.
Lì è dove una volta sono stati caricati con i suoi colleghi, quell'altra è la strada da cui è uscita quella ragazza che insisteva tanto per vendergli il giornale comunista, la stessa che poi gli ha offerto una birra alla fine dei comizi. Quello invece il muro che una volta ha visto macchiarsi di sangue e Alfredo allora risente di nuovo l'odore della polvere da sparo, il suono delle sirene. Manca poco all'arrivo alla piazza.
Alfredo cammina ed è ancora pieno di speranze anche se non lo ammetterebbe mai. E gli scappa anche un sorriso quando finalmente il sole buca le nuvole e lo bacia.
domenica, aprile 29, 2018
[Alfredo] Piante
Da parecchi giorni Alfredo esce poco di casa.
Non è malato o triste, neanche stanco, Alfredo, solo preferisce fare pochi passi, ascoltare il gracchiare della radio, soprattutto veder crescere le piante che ha seminato all'arrivo del primo tepore nei vasi sul balcone.
Tra queste ve ne è una che cura particolarmente. Alfredo non ne conosce il nome, ma di quella, al suo germogliare, gli sono piaciute le piccole foglie e quell'unico, prematuro, fiore bianco che si nascondeva tra esse.
Lo stelo sottile che ne forma il corpo si è, però, subito piegato a cercare qualcosa oltre il vaso. La luce, forse, o il terreno lontano giù in basso. Rischia di spezzarsi, di non fortificarsi.
Per aiutarla Alfredo ha usato degli spiedini di legno trovati in cucina. Ne ha avvicinato uno allo stelo, ma quello sembrava non fidarsi. Riusciva a divincolarsi, a fuggire. Allora ha preso una di quelle fascette in plastica con l'anima in ferro che chiudono le buste del pancarré (ne ha sempre qualcuna messa da parte in fondo a uno dei cassetti della cucina) e con quella ha delicatamente legato lo stelo allo stecco. Senza stringere troppo, non vuole far male, non vuole costringere.
Eppure Alfredo si è subito sentito in colpa per quel gesto, per quell'arbitrio.
Non è malato o triste, neanche stanco, Alfredo, solo preferisce fare pochi passi, ascoltare il gracchiare della radio, soprattutto veder crescere le piante che ha seminato all'arrivo del primo tepore nei vasi sul balcone.
Tra queste ve ne è una che cura particolarmente. Alfredo non ne conosce il nome, ma di quella, al suo germogliare, gli sono piaciute le piccole foglie e quell'unico, prematuro, fiore bianco che si nascondeva tra esse.
Lo stelo sottile che ne forma il corpo si è, però, subito piegato a cercare qualcosa oltre il vaso. La luce, forse, o il terreno lontano giù in basso. Rischia di spezzarsi, di non fortificarsi.
Per aiutarla Alfredo ha usato degli spiedini di legno trovati in cucina. Ne ha avvicinato uno allo stelo, ma quello sembrava non fidarsi. Riusciva a divincolarsi, a fuggire. Allora ha preso una di quelle fascette in plastica con l'anima in ferro che chiudono le buste del pancarré (ne ha sempre qualcuna messa da parte in fondo a uno dei cassetti della cucina) e con quella ha delicatamente legato lo stelo allo stecco. Senza stringere troppo, non vuole far male, non vuole costringere.
Eppure Alfredo si è subito sentito in colpa per quel gesto, per quell'arbitrio.
martedì, marzo 13, 2018
I Tomasello
Alla matina della domenica la famigghia Tomasello si susio prestissimo. Era giorno di votazione e allora cera la necessità di una pulizia generale che certo non si potevano presentare nella scuola come a tutti i giorni e poi cera anche che quellanno votavano tutti quelli della casa. Sei supra a sei.
A prima a iri a lavarisi fu a nanna.
Donna Nunzia faceva fatica a trasiri nella iaggia. Era accussì che chiamava il box della doccia. Certo tanto torto non ciaveva. Con letà le gambe reggevano male e la panza era crisciuta così assai che la donna faticava a passari dalle porte di scorrimento. Così ogni volta Nino il capofamigghia smuntava le due ante della doccia e Margherita sua moglie appena la vecchia era entrata ci mitteva una tenda di prastica tenuta da un bastone che accussì lacqua non finiva tutta supra al pavimento che poi si sciddicava.
Donna Nunzia entrò cantando. A lei ci piacevano quelle giornate. Ci ricordavano quando era carusa che sua marito era sempre il primo a presentarisi al seggio.
“Ti raccumannu Nunziatina! U sai dove devi mettere il segno?”
“E certo che lo so. Ogni vota è sempre u stissu”
So maritu la tirava verso di se per stringerla e ci chiantava un vasuni che era come quannu erano ancora ziti. Poi partevano verso la scuola che stavano sempre abbracciati.
A Nunzia tutto sembrava avere una speranza nuova e quella strada in quei giorni era come un tappeto russu verso la libertà e la giustizia.
A prima a iri a lavarisi fu a nanna.
Donna Nunzia faceva fatica a trasiri nella iaggia. Era accussì che chiamava il box della doccia. Certo tanto torto non ciaveva. Con letà le gambe reggevano male e la panza era crisciuta così assai che la donna faticava a passari dalle porte di scorrimento. Così ogni volta Nino il capofamigghia smuntava le due ante della doccia e Margherita sua moglie appena la vecchia era entrata ci mitteva una tenda di prastica tenuta da un bastone che accussì lacqua non finiva tutta supra al pavimento che poi si sciddicava.
Donna Nunzia entrò cantando. A lei ci piacevano quelle giornate. Ci ricordavano quando era carusa che sua marito era sempre il primo a presentarisi al seggio.
“Ti raccumannu Nunziatina! U sai dove devi mettere il segno?”
“E certo che lo so. Ogni vota è sempre u stissu”
So maritu la tirava verso di se per stringerla e ci chiantava un vasuni che era come quannu erano ancora ziti. Poi partevano verso la scuola che stavano sempre abbracciati.
A Nunzia tutto sembrava avere una speranza nuova e quella strada in quei giorni era come un tappeto russu verso la libertà e la giustizia.
Come era beddu il suo Salvo. Megghiu di Orlando e di Rinaldo. Megghiu degli attori dei film. Megghiu di Modugno macari che non sapeva cantare come a quello.
Lei invece ciaveva una bella voce. Ce lo avevano detto sempre già di carusidda che avessi potuto fare la cantante. Ma Nunzia non cinnaveva pinseri per questi buttanismi. A lei ci nisceva lanima a casa mentre faceva i sivvizza e cantando e lavorando si sinteva felice. Cosa altro serviva?
“Mamma a chi puntu sì?
“Cà sugnu. Ora finii. Fammi rari unultima sciacquata e nesciu”
Quella sua figghia era proprio ‘ncutta. “Ognunu nasci che so peni” pinsò Nunzia e a lei cera toccata quella di avere quellunica erede.
Ma poi il fatto era che a lei proprio non cera andato giù il matrimonio di so figghia con Nino. Per carità! Quello era travagghiaturi e bonu cristiano ma senza nessuna fantasia. Senza curiosità. Senza spittizza. Unni u mittevano stava Nino. E ci putevanu acchianari dincoddu o abballarici davanti lui al mondo ci faceva un sorriso e continuava come a un mulo.
Certo era tutto il contrario di Salvo.
Quante ne aveva visto lei con quella testa calda. Quante volte laveva aspettato pregando di nascosto o Signuruzzu che lui tornasse. Salvo pinsava ca so testa. E potevano essere giusti o sbagliati quei pensieri ma erano i sò e nessuno ce li puteva luvari se non convincendolo veramente. Dimostrandogli che aveva torto. E quello allora che ci riusciva diventava il meglio amico suo che Salvo lo riconosceva sempre il merito degli altri e il coraggio macari.
“Finisti?”
“Finii. Finii. Mu levi stu vastuni da supra a testa?
“Sì Mamma aspetta ca trasu!”
Margherita entrò in quei quattro metri quadrati che sembrava di stare a Milano tanto era la nebbia.
“Ma usasti tutta lacqua caura?”
“E chi avaffari? Pinsavi ca mi piaceva a Siberia?”
Lei invece ciaveva una bella voce. Ce lo avevano detto sempre già di carusidda che avessi potuto fare la cantante. Ma Nunzia non cinnaveva pinseri per questi buttanismi. A lei ci nisceva lanima a casa mentre faceva i sivvizza e cantando e lavorando si sinteva felice. Cosa altro serviva?
“Mamma a chi puntu sì?
“Cà sugnu. Ora finii. Fammi rari unultima sciacquata e nesciu”
Quella sua figghia era proprio ‘ncutta. “Ognunu nasci che so peni” pinsò Nunzia e a lei cera toccata quella di avere quellunica erede.
Ma poi il fatto era che a lei proprio non cera andato giù il matrimonio di so figghia con Nino. Per carità! Quello era travagghiaturi e bonu cristiano ma senza nessuna fantasia. Senza curiosità. Senza spittizza. Unni u mittevano stava Nino. E ci putevanu acchianari dincoddu o abballarici davanti lui al mondo ci faceva un sorriso e continuava come a un mulo.
Certo era tutto il contrario di Salvo.
Quante ne aveva visto lei con quella testa calda. Quante volte laveva aspettato pregando di nascosto o Signuruzzu che lui tornasse. Salvo pinsava ca so testa. E potevano essere giusti o sbagliati quei pensieri ma erano i sò e nessuno ce li puteva luvari se non convincendolo veramente. Dimostrandogli che aveva torto. E quello allora che ci riusciva diventava il meglio amico suo che Salvo lo riconosceva sempre il merito degli altri e il coraggio macari.
“Finisti?”
“Finii. Finii. Mu levi stu vastuni da supra a testa?
“Sì Mamma aspetta ca trasu!”
Margherita entrò in quei quattro metri quadrati che sembrava di stare a Milano tanto era la nebbia.
“Ma usasti tutta lacqua caura?”
“E chi avaffari? Pinsavi ca mi piaceva a Siberia?”
Donna Nunzia nisciu dalla stanza per andarisi a preparare con laiuto di Margherita e Nino arrivò subito per rimettere le porte alla doccia. Oramai cera abituato. Era il lavoro di un attimo. Una botta e le ante iniziarono a scorrere meglio di prima.
Ora era il turno delle due figghie e la cosa conoscendole sarebbe stata longa. Ancora non erano nisciute dalla loro stanza ma lui lo sapeva che di sicuro erano già sveglie. Così come era sicuro che nel momento stesso in cui si fosse livato le mutanne per trasiri sotto allacqua quelle due scalmanate avrebbero trovato a che dire e a fargli premura e a lamintarisi di non riuscire più a fare in tempo. Accussì Nino mancò ci provò a farla quella scortesia. Si misi una giacca e nisciu per farisi una passiata.
“Staiu tunnannu” ci urlo a Margherita da dietro alla porta della stanza da letto.
“Unni vai? Ta scinni a munnizza?”
Nino mancu arrispunniu. Pigghiò la busta dal cestino e rapiu la porta per nesciri.
“Ciao Papà”
Era la voce della chiù nica. Ci arrivò all’orecchio come a un ciato profumato e leggero che lui già era quasi fuori.
“Ciao papà” disse di nuovo unaltra voce e a Nino ci finiu di rapirisi lanima e un sorriso contento illuminò le scale mentre lui passava.
Ora era il turno delle due figghie e la cosa conoscendole sarebbe stata longa. Ancora non erano nisciute dalla loro stanza ma lui lo sapeva che di sicuro erano già sveglie. Così come era sicuro che nel momento stesso in cui si fosse livato le mutanne per trasiri sotto allacqua quelle due scalmanate avrebbero trovato a che dire e a fargli premura e a lamintarisi di non riuscire più a fare in tempo. Accussì Nino mancò ci provò a farla quella scortesia. Si misi una giacca e nisciu per farisi una passiata.
“Staiu tunnannu” ci urlo a Margherita da dietro alla porta della stanza da letto.
“Unni vai? Ta scinni a munnizza?”
Nino mancu arrispunniu. Pigghiò la busta dal cestino e rapiu la porta per nesciri.
“Ciao Papà”
Era la voce della chiù nica. Ci arrivò all’orecchio come a un ciato profumato e leggero che lui già era quasi fuori.
“Ciao papà” disse di nuovo unaltra voce e a Nino ci finiu di rapirisi lanima e un sorriso contento illuminò le scale mentre lui passava.
Il cielo ciaveva nuvuli ianchi e luce macari.
Fino alla giornata prima aveva chiuvuto e alla televisione cera chi aveva fatto i cunti e le scommesse sulla gente che sarebbe andata a votare e su quella che invece sarebbe rimasta a casa con un tempo bonu o un tempo lariu. Nino però aveva cangiato canale che non è che ci interessava tanto questa discussione anche se poi invece di vedere il filmi sera addummisciuto sopra al divano.
Ci capitava sempre più spesso questa cosa. Forse era la panza che ci stava criscenno oppure lanni che aumentavano. Nino però non ce ne aveva di spiegazioni sicure. E poi che importanza aveva? A iddu non ci dispiaceva quella cosa che quannu rummeva nessuno lo disturbava e non doveva fari e preoccuparisi di nenti.
Al bar cera il solito gruppo assittato a iucari a scupa.
“Buongiorno Nino”
“Buongiorno a tutti. Buongiorno Pippo”
Dal tavolo arrivarono solo sguardi curiosi mentre il barista che lo aveva salutato ci chiese:
“Un cafè Nino?”
“Sì sì grazie”
Pippo stava criscennu arreri a quel bancone. Nino lo guardò bene un attimo. Quanti anni erano? Cinque? Sei?
“Pippo da quannu travagghi cà?”
“Iu? Macchiffà u sapevi? Oggi sono otto anni!”
“Mizzica… otto? Pinsava chiù picca”
“No. No. Otto precisi”
“Comu passa u tempu...”
“Acchiffai Nino? Lassalu travagghiari o carusu. Pippo mu fai un cafè macari ammia?”
La voce veniva dal gruppo dei giocatori. Era quella di Iano u minchiataru.
Fino alla giornata prima aveva chiuvuto e alla televisione cera chi aveva fatto i cunti e le scommesse sulla gente che sarebbe andata a votare e su quella che invece sarebbe rimasta a casa con un tempo bonu o un tempo lariu. Nino però aveva cangiato canale che non è che ci interessava tanto questa discussione anche se poi invece di vedere il filmi sera addummisciuto sopra al divano.
Ci capitava sempre più spesso questa cosa. Forse era la panza che ci stava criscenno oppure lanni che aumentavano. Nino però non ce ne aveva di spiegazioni sicure. E poi che importanza aveva? A iddu non ci dispiaceva quella cosa che quannu rummeva nessuno lo disturbava e non doveva fari e preoccuparisi di nenti.
Al bar cera il solito gruppo assittato a iucari a scupa.
“Buongiorno Nino”
“Buongiorno a tutti. Buongiorno Pippo”
Dal tavolo arrivarono solo sguardi curiosi mentre il barista che lo aveva salutato ci chiese:
“Un cafè Nino?”
“Sì sì grazie”
Pippo stava criscennu arreri a quel bancone. Nino lo guardò bene un attimo. Quanti anni erano? Cinque? Sei?
“Pippo da quannu travagghi cà?”
“Iu? Macchiffà u sapevi? Oggi sono otto anni!”
“Mizzica… otto? Pinsava chiù picca”
“No. No. Otto precisi”
“Comu passa u tempu...”
“Acchiffai Nino? Lassalu travagghiari o carusu. Pippo mu fai un cafè macari ammia?”
La voce veniva dal gruppo dei giocatori. Era quella di Iano u minchiataru.
Iano si alzò dal tavolo e si avvicinò a Nino. Era curtu. Con una panza che chiedeva solo di respirare dentro ai ginsi stretti. Epperò nellaspetto totale poteva anche risultare simpatico. Forse a causa del suo sorriso o dei baffi che parevano avere una vita tutta loro sopra alla sua facci.
“Sei già pronto?”
“Pronto per cosa?”
“Come per cosa? Non ci vai a vutari?”
“E certo che ci vado”
“Ecco di chistu ti vuleva parrari”
Iano portò una mano sopra al braccio di Nino. Era un gesto di amicizia ma quello la canusceva bene la fama del personaggio.
“Senti Iano chivvoi? U sai comu raggiuna a me famigghia”
“Certo. Certo. E ti pari ca no sacciu? Non vogghiu nenti sulu prisintariti una persona. Ciò molto parlato di te. Che sei una brava persona. Che ciai due figghie. Si ficinu ranni vero? Questanno votano anche loro?”
“Si. Tutti rui. È a prima vota”
“Visto? Per questo ho pensato a te. Sarà chiffà il mio amico Nino mi sono detto”
“Giustu ora?”
“E checcè momento Nino per pinsari agli amici? Mi vinni il tuo nome sutta locchi e mi sono ricordato di quando le picciridde giocavano ammuccia ammuccia con le mie nella piazza. Ricordi?”
Nino chiuse locchi e tirò giù il cafè in un solo sorso. La tazzina bruciava. Bruciava anche quel liquido mentre scinneva di cussa fino allo stomaco. Bruciava macari la voglia di tunnarasinni a casa e mannari affanculu a quel personaggio.
“E cu iè questa persona” invece ci scappò da dire
“E un amico Nino. Un amico”
“Sei già pronto?”
“Pronto per cosa?”
“Come per cosa? Non ci vai a vutari?”
“E certo che ci vado”
“Ecco di chistu ti vuleva parrari”
Iano portò una mano sopra al braccio di Nino. Era un gesto di amicizia ma quello la canusceva bene la fama del personaggio.
“Senti Iano chivvoi? U sai comu raggiuna a me famigghia”
“Certo. Certo. E ti pari ca no sacciu? Non vogghiu nenti sulu prisintariti una persona. Ciò molto parlato di te. Che sei una brava persona. Che ciai due figghie. Si ficinu ranni vero? Questanno votano anche loro?”
“Si. Tutti rui. È a prima vota”
“Visto? Per questo ho pensato a te. Sarà chiffà il mio amico Nino mi sono detto”
“Giustu ora?”
“E checcè momento Nino per pinsari agli amici? Mi vinni il tuo nome sutta locchi e mi sono ricordato di quando le picciridde giocavano ammuccia ammuccia con le mie nella piazza. Ricordi?”
Nino chiuse locchi e tirò giù il cafè in un solo sorso. La tazzina bruciava. Bruciava anche quel liquido mentre scinneva di cussa fino allo stomaco. Bruciava macari la voglia di tunnarasinni a casa e mannari affanculu a quel personaggio.
“E cu iè questa persona” invece ci scappò da dire
“E un amico Nino. Un amico”
Ora cè da dire ca Nino è una brava persona. Un cristiano bonu. Lui non ce la farebbe a fare una malaparte a qualcuno. Macari che questo qualcuno è uno che tutti lo sanno che cerca di fotterlo sempre al prossimo. Uno come a Iano insomma. Nino in queste occasioni preferisce sparire. Non farsi trovare. Diventare invisibile. Quella volta invece quello laveva fregato che allora lui mai ci sarebbe passato dal bar.
I due niscirinu sulla strada. Iano pareva tutto contento. Fatti pochi passi sunau a una fila di campanelli e trasirunu in un portone di quelli antichi.
Il palazzo era stato rifatto e il cortile interno era divintato strittu e scurusu dombra. Un tempo ci doveva essere stato un giardino in quel posto e ora invece apparivano a una decina di metri i balconi di un palazzo di quelli moderni. Di quelli fatti in fretta di notte o scuru. Un pugno in un occhio insomma.
Della vecchia gloria di quel cimelio cerano rimaste però le due grandi scale. Una a destra e una a sinistra. Con i gradini tutti manciati dal tempo e il marmo delle statue dingresso a inchiri locchi.
“Arrivamu” ci disse Iano fatta la prima rampa di scale. Erano davanti a una porta nicuzza.
“Sarà stata la casa del purtinaro” pensò Nino preparandosi a entrare.
I due niscirinu sulla strada. Iano pareva tutto contento. Fatti pochi passi sunau a una fila di campanelli e trasirunu in un portone di quelli antichi.
Il palazzo era stato rifatto e il cortile interno era divintato strittu e scurusu dombra. Un tempo ci doveva essere stato un giardino in quel posto e ora invece apparivano a una decina di metri i balconi di un palazzo di quelli moderni. Di quelli fatti in fretta di notte o scuru. Un pugno in un occhio insomma.
Della vecchia gloria di quel cimelio cerano rimaste però le due grandi scale. Una a destra e una a sinistra. Con i gradini tutti manciati dal tempo e il marmo delle statue dingresso a inchiri locchi.
“Arrivamu” ci disse Iano fatta la prima rampa di scale. Erano davanti a una porta nicuzza.
“Sarà stata la casa del purtinaro” pensò Nino preparandosi a entrare.
Ad accoglierli cera Calogero Previtera. Nino ci mise un pezzo a riconoscerlo che lultima volta che laveva visto era stato dieci anni prima. Poi cera stata una ammazzatina e il processo che tutti ne avevano parlato che lomicida era ancora un carusiddu: Calogero Privitera appunto.
Ora sera fatto i spaddi larghi e un filo di barba ci copriva una cicatrice nella facci. Forse un ricordo del collegio dove era stato.
“Nino, Nino! Sugnu cuntento ca vinisti”
“Te lavevo detto che lo portavo” ci disse Iano guardandoli un poco in disparte.
“Bravo Iano. Sugnu proprio cuntento”
Calogero si avvicinò per abbracciarlo ma Nino era rigido come a un baccalaro e continuava a non dire parola. Così fu quello a parlare:
“Sei sorpreso di vedermi vero? Ma to cucinu ciarrinisciu a nesciri. Non cià faceva chiù Nino da intra. Nove anni a fari a muffa. Mabbastanu”
Lo guardava in attesa di un gesto di una frase ma Nino non ci puteva dare conto che stava ripassando tutto il filmino nella testa: di quando Calò era nicu e lui lo passiava per farlo addummisciri. Del picciriddo vestito di picaciù che gli riempiva le tasche della giacca di coriandoli per sghezzo. Della paura che aveva dei mostri del cinema. Delle immagini al telegiornale di quel ragazzino tuttu spacchiusu che stava in menzu ai carabbineri mentre quelli lo portavano o friscu.
Aveva tagghiuliatu a uno ca taliava a so carusa. Nove anni pi na taliata. Proprio un bello scambio. Ora era lì che nessuno lo sapeva cava nisciutu. O almeno a lui i parenti di certo non ciavevano detto nenti di quella novità.
Improvvisamente u filmi finiu e a Nino ci vinnunu i lacrimi e u pigghiau quellabbraccio che gli era stato offerto e le sue razza abbracciarono di nuovo a quel picciriddu senza testa.
Ora sera fatto i spaddi larghi e un filo di barba ci copriva una cicatrice nella facci. Forse un ricordo del collegio dove era stato.
“Nino, Nino! Sugnu cuntento ca vinisti”
“Te lavevo detto che lo portavo” ci disse Iano guardandoli un poco in disparte.
“Bravo Iano. Sugnu proprio cuntento”
Calogero si avvicinò per abbracciarlo ma Nino era rigido come a un baccalaro e continuava a non dire parola. Così fu quello a parlare:
“Sei sorpreso di vedermi vero? Ma to cucinu ciarrinisciu a nesciri. Non cià faceva chiù Nino da intra. Nove anni a fari a muffa. Mabbastanu”
Lo guardava in attesa di un gesto di una frase ma Nino non ci puteva dare conto che stava ripassando tutto il filmino nella testa: di quando Calò era nicu e lui lo passiava per farlo addummisciri. Del picciriddo vestito di picaciù che gli riempiva le tasche della giacca di coriandoli per sghezzo. Della paura che aveva dei mostri del cinema. Delle immagini al telegiornale di quel ragazzino tuttu spacchiusu che stava in menzu ai carabbineri mentre quelli lo portavano o friscu.
Aveva tagghiuliatu a uno ca taliava a so carusa. Nove anni pi na taliata. Proprio un bello scambio. Ora era lì che nessuno lo sapeva cava nisciutu. O almeno a lui i parenti di certo non ciavevano detto nenti di quella novità.
Improvvisamente u filmi finiu e a Nino ci vinnunu i lacrimi e u pigghiau quellabbraccio che gli era stato offerto e le sue razza abbracciarono di nuovo a quel picciriddu senza testa.
"Comu stai?" ci chiese "Chiffai ora? Unni stai?"
Calò lo guardò tutto affettuoso però sembrava non avere voglia di rispondere a quelle domande accussì semplici.
“Non ti preoccupare Nino. Ni parramu dopo. Ora però ti devo chiedere una cosa che il tempo è picca..."
"Dimmi dimmi"
" Insomma tu lo conosci lonorevole Cummino vero? E certo che lo conosci. U canusciunu tutti nel quartiere. Insomma lonorevole ha bisogno di noi"
Nino per un attimo ciaveva sperato che non era questa la minchiata che gli dovevano chiedere ma lo sapeva dallinizio che sarebbe stata una speranza fallita.
"E tu mi fai veniri cà picchistu? Pidda cosa tinta? U sai ca sarrubbau tutti i soddi de casi popolari quel disgraziato?"
"Sono accuse false zio. Ci penserà il tribunale a quelle. Quando sarà il momento. Ora però non è importante questa storia. Che qui tutti ci dobbiamo qualcosa a quelluomo"
"Iu no" Era stato siccu Nino che con quelle parole sperava di finire la discussione.
"Evvabbene tu no. Ma tutti lautri sì! Macari iu zio che se non acchiana iddu torno di cussa o cacciri"
"Ecchiè Dio? Calò tu usai come la penso io e come la pensa tua zia e sua madre macari"
"Eccerto. Ancora a sugnari la rivoluzione. E a bannera macari"
"La giustizia Calò. La giustizia. Che almenu chidda fussi ura"
"Giustizia, giustizia... macchiè a giustizia zio? A giustizia e travagghiari comu nmulu sulu pi mangiari e pavari u mutuo comu fai tu? E fari a fila o spitali comu faceva a nanna? E viriri quanto è bello u munnu na televisioni comu faceva iu o collegio? A giustizia è quella ca ni facemu zio. E se tu non ta voi fari ma fazzu iu a modo mio"
" Tu si cunfusu Calò! E insomma vuoi che lo votiamo..."
"Sono cinque voti zio. E la libertà per me. E un posto di travagghiu per una delle tue figghie. Dove vuoi tu che questi sono i patti"
"Al comune?"
"No comuni"
"A scola?"
"Na scola. Unni voi tu. Ci pensu iu a parrari collonorevole."
"Mah! Ora minnipozzu iri?" Nino era proprio stanco.
"E certo che puoi. Non è che ti abbiamo sequestrato. Vero Iano?"
Quello se nera stato tutto il tempo distante dai due. Assittato dietro a un tavolino aveva accuminciato a puliziarisi lugna delle mani e dei peri con un coltellino che aveva nella sacchetta. Sembrava non pinsari a nenti e anche non sentire e vedere nenti. Sarrusbiggliao solo quando lo nomino Calogero per accalarici la testa.
"E certo che è così. Chissemu rapitori?"
Iano accuminciao a ridere come se avesse fatto una battuta fantastica. Accussì forte che a un certo punto ci mancau macari u ciato.
"Amuninni Nino. Amuninni" riuscì però a dire.
Un ultimo abbraccio nvasuni ai parenti ed erano già nella strada. Nino camminava muto mentre laltro sembrava trotterellare contento come una palla acculurata nelle mani di un carusiddu. Si salutanu al bar e fu solo allora che Nino pariu arrusbigghiarisi.
Decise di non tornare subito a casa. Aveva bisogno di pinsari.
Ora cera questo fatto che tutti nel quartiere lo sapevano come vutava lui e la sua famigghia e allora mai nessuno ci aveva fatto storie. Certo qualche tentativo. Qualche battuta. Ma mai nenti di pesante. Di insistente. Cera qualcosa che non quadrava.
Nino si ritrovò a passare davanti alla scuola. Sarrattau tannicchia a testa. Si isau i pantaloni. Tirau il ciato come per fare qualcosa di importante e poi entrò senza sapiri mancu il perché.
Si fermò davanti al primo seggio aperto. Cera poca gente. Ormai cu vineva a vutari lo faceva solo per tradizione o per un favore da fare o da ricevere. Macari iddu faceva accussì anche se so soggira ogni vota prima dellappuntamento ci inchieva la testa con le storie di so maritu o di quello che ascutava alla televisione. Giusto una simana prima e una simana dopo avere misu a cruci nella scheda. Poi tutto lentamente tornava nella normalità.
Nino si misi a taliari i cartelli con tutti i nomi e i partiti. Sautò quelli senza speranza e quelli che invece la speranza non riuscivano più a darla e si fermò sui nomi più importanti.
Lonorevole Cummino aveva cangiato unaltra volta bannera ma la cosa ridicola era che Carlo Fumagallo quello che era stato sconfitto la vota prima ora aveva preso il posto che aveva lasciato Cummino nel vecchio partito. Nino si ricordò allimprovviso di quelle due vecchie settimane. Cera stata qualche ammazzatina in quel periodo a fare da aperitivo alle feste prima delle solite cene a sbafo per gli elettori. Improvvisamente era come se fossero tornati a girare i soddi come ai bei tempi e anche le facce che furiavano a caccia di voti parevano chiù tunni e meglio predisposte a pavari. Donna Nunzia gli aveva spiegato che stavano arrivannu i finanziamenti per aggiustare la città. Che cera di menzu leuropa e tutti ci vulevano azziccare la forchetta in quella portata.
Cummino aveva vinto per una ventina di voti e cerano stati ricorsi e denunce e carte ai tribunali ma alla fine sempre lui era stato eletto. Ecco se le cose stavano nello stesso modo ogni voto improvvisamente era di nuovo importante e allora macari i so cincu potevano fare la differenza.
Decise di non tornare subito a casa. Aveva bisogno di pinsari.
Ora cera questo fatto che tutti nel quartiere lo sapevano come vutava lui e la sua famigghia e allora mai nessuno ci aveva fatto storie. Certo qualche tentativo. Qualche battuta. Ma mai nenti di pesante. Di insistente. Cera qualcosa che non quadrava.
Nino si ritrovò a passare davanti alla scuola. Sarrattau tannicchia a testa. Si isau i pantaloni. Tirau il ciato come per fare qualcosa di importante e poi entrò senza sapiri mancu il perché.
Si fermò davanti al primo seggio aperto. Cera poca gente. Ormai cu vineva a vutari lo faceva solo per tradizione o per un favore da fare o da ricevere. Macari iddu faceva accussì anche se so soggira ogni vota prima dellappuntamento ci inchieva la testa con le storie di so maritu o di quello che ascutava alla televisione. Giusto una simana prima e una simana dopo avere misu a cruci nella scheda. Poi tutto lentamente tornava nella normalità.
Nino si misi a taliari i cartelli con tutti i nomi e i partiti. Sautò quelli senza speranza e quelli che invece la speranza non riuscivano più a darla e si fermò sui nomi più importanti.
Lonorevole Cummino aveva cangiato unaltra volta bannera ma la cosa ridicola era che Carlo Fumagallo quello che era stato sconfitto la vota prima ora aveva preso il posto che aveva lasciato Cummino nel vecchio partito. Nino si ricordò allimprovviso di quelle due vecchie settimane. Cera stata qualche ammazzatina in quel periodo a fare da aperitivo alle feste prima delle solite cene a sbafo per gli elettori. Improvvisamente era come se fossero tornati a girare i soddi come ai bei tempi e anche le facce che furiavano a caccia di voti parevano chiù tunni e meglio predisposte a pavari. Donna Nunzia gli aveva spiegato che stavano arrivannu i finanziamenti per aggiustare la città. Che cera di menzu leuropa e tutti ci vulevano azziccare la forchetta in quella portata.
Cummino aveva vinto per una ventina di voti e cerano stati ricorsi e denunce e carte ai tribunali ma alla fine sempre lui era stato eletto. Ecco se le cose stavano nello stesso modo ogni voto improvvisamente era di nuovo importante e allora macari i so cincu potevano fare la differenza.
Nino accuminciao a pinsari a quanto potevano valere quei voti e alla machina nova ca ci sivveva e alle spese di casa. Insomma a tutto quello che ci faceva comodo. Era accussì preso da questi pensieri che non si accorse delluomo che si era avvicinato a lui. Sulla sessantina. Giaccia e cravatta. Un filo di pilu a coprire il mento e sopra le labbra. Il corpo senza un filo di panza e mani dilicati di signorina. Proprio una persona distinta. Ora era davanti a lui che ci pruieva la mano per presentarsi.
“Il signor Tomasello?” ci chiese mentre Nino sentì che la mano stringeva forte la sua.
“Sì sono io” Ciarrispunniu. Aveva usato lo stesso timbro di voce che ci nisceva fora quannu u firmavunu i vigili o i carabbineri. Sarà stato laspetto di quella persona o lessere ancora nsavanuto dai conti che si stava facendo in testa. Insomma era stata comunque una cosa strana. Che poi però era più forte di lui. Ogni vota che era successo di essere fermato Nino non si era mai trovato bene che con tutta la buona volontà e la correttezza che aveva ncoddu non si fidava di quelle divise. Di quegli uomini. Di quello stato.
“Sono il dottor Mirabella. Ludovico Mirabella. Non volevo disturbarla ma lho vista qui e allora ho pensato quale momento meglio di questo...”
Nino continuava a guardarlo stralunato.
“Sì insomma volevo anzi dovevo venirla a trovare a casa. Lo avrei fatto di sicuro oggi… del resto se non oggi quando?”
Fici una piccola risata come a cercare una risposta dintesa dallaltra parte ma Nino era sempre più pigghiatu dai turchi. Insomma non capiva proprio cu iera e chi vuleva quel personaggio.
“Il signor Tomasello?” ci chiese mentre Nino sentì che la mano stringeva forte la sua.
“Sì sono io” Ciarrispunniu. Aveva usato lo stesso timbro di voce che ci nisceva fora quannu u firmavunu i vigili o i carabbineri. Sarà stato laspetto di quella persona o lessere ancora nsavanuto dai conti che si stava facendo in testa. Insomma era stata comunque una cosa strana. Che poi però era più forte di lui. Ogni vota che era successo di essere fermato Nino non si era mai trovato bene che con tutta la buona volontà e la correttezza che aveva ncoddu non si fidava di quelle divise. Di quegli uomini. Di quello stato.
“Sono il dottor Mirabella. Ludovico Mirabella. Non volevo disturbarla ma lho vista qui e allora ho pensato quale momento meglio di questo...”
Nino continuava a guardarlo stralunato.
“Sì insomma volevo anzi dovevo venirla a trovare a casa. Lo avrei fatto di sicuro oggi… del resto se non oggi quando?”
Fici una piccola risata come a cercare una risposta dintesa dallaltra parte ma Nino era sempre più pigghiatu dai turchi. Insomma non capiva proprio cu iera e chi vuleva quel personaggio.
Margherita Tomasello era inquieta.
So marito mancava da troppo tempo che già le sue figghie serano lavate e ora sarebbe toccato a lui che a lei invece ci piaceva trasiri nella doccia per ultima. Eppoi Nino di sicuro sinnava iutu a pigghiari sulu un cafè e non cera tutta questa strada fino al bar. Certo macari poteva avere incontrato qualcuno e sera misu a parrari ma a iddu le discussussioni ci piacevano picca che non resisteva assai a fari romanzi con i pinseri. Si tineva tutto intra so marito che anche lei faticava a farici nesciri le cose dalla ucca. E se lavevano investito? No. Avissi sintuto lambulanza e la confusione macari. Chi puteva essiri successo?
“Maria! Maria!”
A figghia chiù ranni narispunneva
“Maria! Maria! Si pronta?”
“Mamma mi staiu ancora truccannu. Chiccè? Chi successi?”
“E to soru? È pronta?”
“Mamma maia mettiri ancora i mutanni” A vuci da nica arrivau subito a farisi sentiri.
Nenti. Su quelle caruse non si puteva cuntari. Ecco. Sarebbe scinnuta lei stessa. Non poteva ancora aspettare.
“Unni stai iennu” Donna Nunzia la bloccò che lei cercava la giacca per nesciri.
“Nino ancora non è tornato”
“Di sicuru è cu quacchi fimmina” la vecchia non ce la faceva proprio a non provocare sua figghia ma quello forse era il momento sbagliato.
“Ammenu fussi! Starei più tranquilla” la voce di Margherita arrivau chiù acida del solito. Non ce ne aveva tempo di perdere cu so o mà. Non in quel momento.
lunedì, marzo 05, 2018
[condomini] Elezioni
"Semu tutti stiddati! Semu tutti stiddati!"
Alfieddu è cuntentu. Iu u canusciu ca eravamo ancora
carusi e lui con il pennarello signava tutti i mura della città con unaltra stella
che allora era di moda anche se non si poteva.
Ni pessumu criscennu che accussì è a vita
ma iu ci vogghiu ancora bene comu si po vuliri beni alla propria
giovinezza.
Alfieddu ora segue a
quelli che di stiddi ne hanno cinque.
Io lho visto che mi sono aperto anche io la pagina supra a
feisibuc. E’ stato che ho dovuto cangiare telefono e non so come
spuntau il mio nome e io munceva e munceva e no sacciu bonu chi cumminai. Fatto sta ca ci sugnu macari iu e ora a picca a picca stannu
spuntannu foto e dame e cavaleri che io mi ero anche dimenticato che
esistevano e ogni tanto taliu dentro a quella luce che è comu affacciarisi alla finestra
sulu che non si respira aria bona.
Alfieddu mi pari che è convinto veramente e non cè
nha dubbi che quelli porteranno lonestà. Insomma a farla breve non è cangiato tanto da quannera caruso solo che
forse lui non sinnadduna o sulu fa finta di nenti che a vedere il grigio poi uno ciarresta mali.
martedì, febbraio 13, 2018
martedì, gennaio 30, 2018
[Alfredo] rollinz
Sono strani pupazzetti con una base sferica in plastica pesante che permette loro di dondolare, ma di non cadere mai.
Alfredo li ha scoperti al parco. Un gruppo di bambini con del gesso aveva segnato un piccolo campo di gioco sull'asfalto e due di loro avevano iniziato a sfidarsi sulla punta delle dita.
Posizionare la propria squadra sul campo, colpire uno dei personaggi dell’avversario per escluderlo dal gioco, attendere fino alla sopravvivenza dell’ultimo eletto. Nessuna altra regola importante. Ad Alfredo aveva un po' ricordato i giochi fatti con i tappi da bambino, anche se lui e i suoi amici preferivano i circuiti su cui improvvisarsi meravigliosi ciclisti.
Uno di quei pezzi era finito vicino ai suoi piedi. Alfredo lo aveva raccolto per poi cederlo alla mano protesa davanti a lui.
“Chi è questo?” Aveva chiesto.
“Il Signore Oscuro” gli era stato risposto.
Alfredo li ha scoperti al parco. Un gruppo di bambini con del gesso aveva segnato un piccolo campo di gioco sull'asfalto e due di loro avevano iniziato a sfidarsi sulla punta delle dita.
Posizionare la propria squadra sul campo, colpire uno dei personaggi dell’avversario per escluderlo dal gioco, attendere fino alla sopravvivenza dell’ultimo eletto. Nessuna altra regola importante. Ad Alfredo aveva un po' ricordato i giochi fatti con i tappi da bambino, anche se lui e i suoi amici preferivano i circuiti su cui improvvisarsi meravigliosi ciclisti.
Uno di quei pezzi era finito vicino ai suoi piedi. Alfredo lo aveva raccolto per poi cederlo alla mano protesa davanti a lui.
“Chi è questo?” Aveva chiesto.
“Il Signore Oscuro” gli era stato risposto.
lunedì, gennaio 29, 2018
[Alfredo] Orsi
“Cosa le servo?”
Alfredo chiede un caffè prima che la sua attenzione venga catturata dai quotidiani posati sui tavoli vuoti. Una testata locale, una nazionale. Hanno un dorso rigido con il nome del locale e un piccolo orso in cima.
Alfredo guarda in giro, l’orso non appare in nessun altro luogo all’interno del locale e non gli è sembrato di intravederlo sull’insegna esterna. Si siede portando con se il caffè che il barista gli ha servito e osserva meglio.
È un orso bruno, un orso da circo. Poggia su una sfera che dovrebbe rappresentare un mappamondo. L’orso ha un’aria triste, malinconica, o almeno così ad Alfredo sembra.
“Non ci pensare, siamo in equilibrio un po’ tutti finché riusciamo” gli sussurra.
“Cosa?” la voce del barista arriva da un mondo che Alfredo immagina lontano. Quello rimane a fissarlo, non c’è nessun cliente a quell’ora.
“Nulla, nulla” risponde Alfredo, voltando appena la testa verso lui con un sorriso.
L’orso è già caduto.
Alfredo chiede un caffè prima che la sua attenzione venga catturata dai quotidiani posati sui tavoli vuoti. Una testata locale, una nazionale. Hanno un dorso rigido con il nome del locale e un piccolo orso in cima.
Alfredo guarda in giro, l’orso non appare in nessun altro luogo all’interno del locale e non gli è sembrato di intravederlo sull’insegna esterna. Si siede portando con se il caffè che il barista gli ha servito e osserva meglio.
È un orso bruno, un orso da circo. Poggia su una sfera che dovrebbe rappresentare un mappamondo. L’orso ha un’aria triste, malinconica, o almeno così ad Alfredo sembra.
“Non ci pensare, siamo in equilibrio un po’ tutti finché riusciamo” gli sussurra.
“Cosa?” la voce del barista arriva da un mondo che Alfredo immagina lontano. Quello rimane a fissarlo, non c’è nessun cliente a quell’ora.
“Nulla, nulla” risponde Alfredo, voltando appena la testa verso lui con un sorriso.
L’orso è già caduto.
venerdì, gennaio 26, 2018
[Alfredo] Teatro
Nei giorni in cui ogni cosa attorno a lui sembra dissolversi, nei momenti in cui tutto si fa buio, Alfredo immagina soltanto di essere a teatro.
Seduto sulla sua poltrona attende che lo spettacolo abbia inizio, che la notte della sala divenga luce sul palco. Sogna, in quei momenti, che qualcuno degli attori dimentichi la propria parte: una frase, anche solo una parola, un pensiero.
Pensa, Alfredo, che basterebbe questo a fare apparire tutto più vero, più chiaro.
Seduto sulla sua poltrona attende che lo spettacolo abbia inizio, che la notte della sala divenga luce sul palco. Sogna, in quei momenti, che qualcuno degli attori dimentichi la propria parte: una frase, anche solo una parola, un pensiero.
Pensa, Alfredo, che basterebbe questo a fare apparire tutto più vero, più chiaro.
giovedì, gennaio 25, 2018
[Alfredo] Il vecchio
"È solo colpa mia. È solo colpa mia"
Il vecchio è una persona gentile. Alfredo lo incontra spesso dentro la panetteria, forse hanno gli stessi orari, forse è solo un caso.
Anche oggi è lì. L’uomo è andato via pochi istanti prima di lui, poi accade qualcosa.
Alfredo lo aiuta a rialzarsi. I due panini che abitualmente compra sono finiti in strada. La busta di carta, lacerata e sporca, è poco lontana.
Il vecchio non smette di ringraziarlo e a quei “Grazie” alterna stralci degli avvenimenti precedenti: i ragazzi in bici, il loro correre, quello di loro che lo ha spinto per poter superare il compagno, il loro sparire senza nemmeno voltarsi.
"È solo colpa mia. È solo colpa mia" ripete ancora, poi improvvisamente piange senza più dire nulla, stringe solo di fretta la mano di Alfredo e si allontana.
Fa pochi passi però, torna indietro. Raccoglie il pane, la busta e getta tutto nel bidone poco lontano. Alfredo non fa in tempo ad aiutarlo.
"Posso offrirle un caffè?" riesce solo a dire.
"Grazie, sì grazie” quello risponde.
Fonte immagine: "old man" by Andreas Schalk Licensed under CC-BY 2.0 Original source via Flickr
mercoledì, gennaio 24, 2018
[Alfredo] polaroid
In tante delle foto che ha conservato i colori lentamente spariscono.
Capita raramente che Alfredo si trovi tra le mani quei piccoli album sgualciti, quelle piccole buste di plastica che iniziano a staccarsi dal dorso, quelle copertine dai colori improbabili con l'indirizzo del fotografo che somiglia a un vecchio timbro. Generalmente succede in uno di quei momenti in cui decide di fare ordine, spazio, tra tutto quello che copre i suoi pochi mobili. Uno scavo da strati di tempo, tra i sedimenti di altri ricordi.
In quelle foto il mare, il cielo, i volti e i luoghi che gli sono stati cari sembrano aver perso consistenza, eppure ogni cosa è rimasta viva negli occhi di Alfredo. Lui lo sa. Basterebbe solo sfiorarle con lo sguardo quelle macchie e nulla potrebbe impedirgli di essere di nuovo lì: sentire la sabbia umida scorrere tra le dita, abbracciare quella bimba di cui non ha conosciuto mai il nome, ridere contento poggiato al piedistallo di un eroe sconosciuto.
Fonte immagine: “Old Polaroid” by Andreia is licensed under CC BY 2.0
martedì, gennaio 23, 2018
[Alfredo] passeggiate
Ci sono giornate così, giornate dove tutto appare magnifico. Giornate in cui Alfredo non riesce a guardare il mondo con altri occhi che non siano quelli della meraviglia.
Il cielo terso, il sole che riscalda, le strade quasi prive di auto, il suono di una fisarmonica che pervade l'aria.
Alfredo passeggia ancora più lentamente: guarda le vetrine, le mura, la gente, distratta, che incrocia.
A volte vorrebbe azzardare anche un "Buongiorno!", ma teme di non essere capito e allora, quando succede, preferisce chiudere gli occhi un istante... non voluto gli sfugge, comunque, un leggero inchino, un sorriso.
Fonte immagine: “Stroll” by Logan Ingalls is licensed under CC BY 2.0
domenica, gennaio 14, 2018
Le donne di Totò: Patty Pravo
A Nicoletta la canuscii una cinquina di anni arreri che già parrava alle palummedde della villa e le chiamava e ci portava da mangiare ma lei però era qua già da una vintina di anni.
Di lei me ne aveva parrato Saru u fruttaiolo che diceva che era pazza ma ammia non mi pareva e così ogni tanto mi avvicinavo su virevu che era tranquilla. Che non ci davo fastidio insomma.
Mi assittavo allora nella panchina vicino a lei e guardavo la scena delle palumme che si avvicinavano e lascutavano e anche io ascutavo le sue storie che lei a poco a poco accuminciau a fidarisi e me le ripeteva macari ammia le cose che ci cuntava allacidduzzi.
Parrava dei posti dove era stata e della gente e de sò mariti che pareva che naveva cangiato uno allanno e arrireva quannu ce lo facevo notare.
Capitò per caso una para di anni dopo che visti macari dove abitava. Sera slogata la caviglia assicutannu un iattu che sera avvicinato troppo e io lavevo aiutata a camminare fino alla sua porta.
Era una casa arreri alla cantunera una di quelle che una volta ci stavano i viddani delle campagne e che ora invece sono quasi al centro. Ormai non sono tantissime queste case che la gente ci ha costruito di sopra le proprie oppure le ha vendute per farici spuntari palazzi e palazzine.
Nelle due stanze Nicoletta ciaveva misu di tutto che uno si cunfunneva sulu a taliari ma soprattutto erano le pareti che scippavano la testa. Cerano tutti i culuri del mondo ammiscati e abbiati come se lei avesse preso a secchiate tanti voti le pareti e poi ciavissa passato le mani e il corpo e il culo e le minne fino al tetto. Fino al cielo.
Cè stato qualche conoscente che non mi ha creduto che dice che lui lha vista nello schermo a quella vera ma Nicoletta me lo ha raccontato una vota che quella Patti della televisione è solo una che ci assomiglia e che ci ha fatto un favore. Uno scambio. E io ci criru a Nicoletta che non serve altro.
Fonte Immagine: Patty Pravo
venerdì, gennaio 12, 2018
Le donne di Totò: Anna Galiena
Anna vinni lova allalimentari della Via di Spagna. Tolliru che è il padrone del negozio ciavi tutto un magazzino arreri alla via dove dentro ci sono centinaia di iaddine e un feto di moriri. Io ci entrai una volta e mi pigghiai macari qualche uovo friscu. Ma mi fici vilenu a sugarlu che laria era irrespirabile.
Io ad Annuzza la canuscii che ancora era carusa e i minni ci abballavano senza pudore e lei la mostrava tutta divertita quella mercanzia. Poi era diventata famosa. Accussì mi avevano detto. Una di quelle del cinema. Insomma a mia non mi capitò più di vederla anche se furiavo assai dentro il quartiere che ancora le gambe mi reggevano.
Quannu spuntau di novu dalle mie parti la faccia le era diventata tannicchia arrappatedda e le mani anche e le minne ormai sentivano la forza di gravità che i miracoli non durano tutta la vita. Anna però continuava lo stesso a essiri bedda. Come può esseri bedda una donna che non è più una carusidda. Comu una rosa vellutata che anche se è sbocciata da tempo non ni voli sentiri di spaparinzarisi senza grazia.
Cinnavi assai Tolliru di clienti al negozio e di certo tanti grazie a lei. Iu ci vaiu sulu per immaginare quello che cè arreri allocchi di quella fimmina. Per scoprire qualcosa che lo so che è ammucciatu in qualche piega di quelle labbra. E la saluto e ci chiedo le uova e la ringrazio. Le sorrido anche. E lei a me.
Fonte immagine: By Sailko (Own work) [CC BY 3.0], via Wikimedia Commons
giovedì, gennaio 11, 2018
Le donne di Totò: Laetitia Casta
E’ autunno ma pari primavera. U fattu è che Letizia arrinesci a canciari le stagioni e il tempo e la fantasia pure.
Misa arreri la cassa del bar è un angelo ca ti fa macari scurdari il resto e la ragione. E un cafè costa dieci euro ma non ciavi importanza.
“Sono qui solo un poco per aiutare unamica” ci rici a Totò senza che lui manco ce lo spia con quellaccento francese ca fa sbrugghiari alla prima sillaba. Aveva ragione quello della famigghia Addams… Gomez che nei telefilmi ce lo diceva a so mugghieri. Anche Letizia parra come se facesse lamore.
Totò è stato il primo cliente oggi che la machina ancora si doveva cuariari e allora cera da aspettare. Epperò non ci riesce a dirici altre cose a quellangelo che già essere riusciti a pavare è stata unimpresa. Sassetta solo nel tavolino e la talia come se fosse al museo. E non ci pensa nemmeno che può essere una cosa vastata quellocchiata insistente. Una indelicatezza. Cè solo lei. Ogni altra cosa sparisce. Il calendario dellanno prima misu arreri a idda. Il listino con i prezzi che mancano. La cassa ca non funziona mai e fa sulu sgrusciu.
Letizia sembra esserci abituata. Non si furia. Non si lamenta. Lascia che lui la guardi perchè lo sa che quello è il suo compito su questa terra: la bellezza.
Fonte immagine: Studio Harcourt [CC BY 3.0 (http://creativecommons.org/licenses/by/3.0)], via Wikimedia Commons
mercoledì, gennaio 10, 2018
Le donne di Totò: Catherine Spaak
Veni pi tutti u mumentu. Quello dove allimprovviso non ha più importanza cù sì e che cosa hai fatto. Quello dove non tabbasta chiù quello che hai. E possono essere tante le occasioni per fariti pensare accussì ma nei masculi però quasi sempre accade che questa cosa succede a una certa età. A un certo momento che incontri carni frisca come mai ti è sembrato di averla vista. E' diventa inutile allora provare a pinsari con la testa. Ci sono fimmineddi che ti votunu e ti furiunu come a una pezza lodda e ogni lotta è come a quella do pisci nella nassa. Io per fortuna ancora non ci sono arrivato ancora a queste cose che la vogghia per fortuna mè sempre mancata e il travagghiu macari ma ne ho visti tanti di uomini peddiri la raggione per una suttanedda e addivintari come a Orlando nellopera dei pupi.
Ci pensavo a questa cosa pecchè ho visto alla telivisioni una storia che cera Tognazzi e quella francese che ora certe volte fa i programmi. La Spacc. Lei in questo filmi è una carusidda ma anche ora ai giorni nostri che futtiri è diventato facili come a mangiarsi una angiova senza sali io non penso che ci sarebbe masculo capace di resisterle. Come si può combattere contro alla bellezza miscata alla malizia? Come si può lottare di fronte alla gioventù che ti mostra le sue primizie? La Spacc è il vento che in estate arriva friscu fridscu prima del temporale. E' il ricordo dei desideri di quando taccuminciava a crisciri u sfingiuni ne mutanni. E' la realtà che ti dice che sei vecchio e lei la realtà non te la vorrebbe neppure fare pesare questa cosa se non fosse che tu ti ostini a immaginarla diversamente.
La Spacc è la fottuta che hai sempre sognato. Il motivo che ti ha portato a travagghiare e poi a travagghiare e ancora a travagghiare fino a quando la fatica ti ha fatto dimenticare che era per lei che lo stavi facendo. Per la Spacc. Per lo sticchio.
Fonte immagine: Catherine Spaak nel film La voglia matta (1962)
martedì, gennaio 09, 2018
Le donne di Totò: Madonna
Io il giorno che canuscii Madonna ero al lungomare che ero nisciuto per accattare tannicchia di cozzuli di Messina. Il sole era alto e cauru e il mare accussì azzurro che a guardarlo dallalto sembrava preciso come il velo nelle statue della chiesa.
Idda camminava comu camminunu i carusiddi e ogni tanto si fermava e si tineva aggrappata alle ringhiere sopra agli scogli come su ci fussi un vento fortissimo a spingerla e ammuttarla. A guardarla bene ci si puteva macari cririri e limpressione era quella che veramente ciavvulavano i capiddi e ciarrifriscavunu i minni.
Invece cera sulu cauru e iu ero già tuttu suratu che avevo fatto la fesseria di mittirimi a tuta di cotone pesante pi nesciri.
Quando ci passai vicino mi taliau tutta schifata comu si talia un suggi martognu ca nesci dai puttusa della strada e sulu quannu mi stavo allontanando mi spiau:
“Tu lo sai dove sono le grotte di Ulisse?”
Io mi furiai che non potevo farla la scortesia di non rispondere.
“No però se ti serve quello è il porto di Ulisse” ciarrispunni indicando con la mano un punto lontano. Madonna mi taliau na facci e poi visti locchi che passavano lenti lenti al braccio e alla mano. Non si virevano altro che rocce dal punto in cui eravamo noi.
“Ah” però ci scappau di riri che quasi arrireva.
Poi nenti chiù che io ciavevo già fretta e a cucinarli i cozzuli ci voli tempu se uno li deve pulizziari.
Fonte immagine: Paul Harvey
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