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31/03/12

Principesse


La maestra ne aveva preparate tante, ognuno di noi poteva scegliere tra forme diverse per sbizzarrirsi poi con colori, stoffe, piccoli pezzetti di carta luccicanti e colorati. In classe era tutto un correre, un chiedere. Carnevale era vicino, da lì a poco la Pasqua con i suoi giorni di vacanza e riposo.
Non ero contento dei modelli che mi erano toccati in sorte, con uno scambio assai costoso (ben tre figurine Panini quasi introvabili e una pallina di vetro dall'interno blu e viola) riuscii a convincere Francesco a cedermi uno dei suoi cartoncini. Era proprio quello che cercavo. Mi allontanai dal centro dell'aula e trovai uno spazio vicino alla finestra. Con me avevo della carta crespa dorata e l'intera collezione di pezzi di vetro raccolti durante l'estate: verdi, marroni, qualcuno trasparente o giallo, uno addirittura azzurro. Li avevo portati da casa dentro un sacchettino rosso che avevo recuperato tra i regali di Natale. Era un vero tesoro.
La maestra se ne accorse quando già avevo ritagliato la mia sagoma, era stata occupata a dirimere una lite tra Susanna e Nicola. Lei diceva che lui le aveva preso un colore, lui sosteneva che quello in realtà fosse suo. Era un difficile problema. Avevano entrambi un astuccio con 12 Carioca identici ed era difficile capire chi avesse ragione. La maestra dopo averli ascoltati tirò fuori dalla sua borsa un colore simile a quello conteso e lo diede alla bimba che, sorridendo, fece una boccaccia al bimbo.
"Cosa hai portato?" mi guardava un po' incuriosita passando le dita sottili e curate tra quelle gemme. Io ero troppo occupato ad incollare bene la carta crespa per poterle rispondere. Alzai solo un attimo la testa per vederla allontanarsi verso gli altri.
Ero nei guai, fino a quel momento tutto era andato a meraviglia: avevo ritagliato con precisione, ero riuscito a non sporcare con le dita la carta dorata, non avevo perso nulla. La vera difficoltà stava in quei pezzi di vetro che non volevano star su con la Coccoina. Troppo pesanti. Cadevano dopo pochi secondi o piegavano la carta. Risolsi il secondo problema incollando un nuovo strato di cartoncino, ma rimaneva impossibile trovare una soluzione per il primo. Barattai anche altri tipi di colla dai compagni, ma con inesistenti risultati. Non sapevo proprio come fare.
Fissavo la maestra e ritornavo sul mio lavoro e poi ancora sul suo viso, fin quando non scoppiai in silenziose lacrime. Fu allora che lei si avvicinò e mi passò la mano sui capelli, poi prese la corona e la mise in testa: "Grazie Filippo, è bellissima!" sussurrò piano senza farsi sentire dagli altri.
Passai la manica del grembiule sul viso bagnato e non seppi far altro che sorriderle.


Questo raccono partecipa all’eds lanciato dalla Donna Camèl  con:
- C di magneTICo sul blog okkietti spenti
- Storia d’amore e di cerotti di Melusina sul blog poco mossi gli altri mari
- Catena di perle di Lillina sul blog Ora e qui
- C come cioccolato di La Donna Camèl sul blog Il diario intimo della Donna Camèl
- Carta e Corsa 5 di La Carta sul blog La Carta
- E Cenere ritorneremo di Hombre sul blog La Linea d’Hombre
- Cera fusa di Mai Maturo sul blog Mai Maturo
- Gisella Clio di Singlemama sul blog Singlemama
- SpeakerMutismo AKA La centrifuga di SpeakerMuto sul blog Radio Free Mouth
 

29/03/12

Melchiorre Magoi

Appena nisciu dospitali Melchiorre Magoi fici due o tre chiamate e sinniu con lamici nella putia di Saro u panzuni. Non ne poteva più di petti di pollo sicchi e minestrine in brodo. Aveva bisogno di qualche bicchiere di quello buono e di una bella mangiata di carni di cavaddu a fare sangue. Certo il medico celaveva detto che ormai non era più un carusiddu ma questo riusciva a vederlo pure lui che cerano giorni che nemmeno lo riconosceva a quel vecchio con la panza e senza capiddi che u canzuniava allo specchio. Però  ci sono tanti modi di moriri e Melchiorre non ci stava a fare u santu per i giorni che ciarristavano. "Megghiu bonu e prestu che tardi e tintu" se la ripeteva spesso questa cosa che ricordava che celaveva detto una volta so nannu prima di moriri. Il vecchio se nera andato nel letto di una iarrusa. Che scandalo! Come se uno vituo e sistemato non ce ne avesse avuto bisogno di una futtuta. Come se a moriri arreri a una via supra a una fimmina o na ucca di un masculu canciassi quacche cosa. Melchiorre ricordava che suo padre ce laveva nascosta per tanto tempo questa cosa. "Nonno è partito!" ci ripeteva o picciriddu senza aggiungere altro che questo poteva bastare. E daltro canto suo padre non ce ne aveva mai detto tante di parole. A quelle preferiva la cinta che il suono era più chiaro e lefficacia maggiore. Melchiorre della fine del nonno laveva saputo solo da grande quando ci vinninu le prime voglie che gli amici accumincianu a sfotterlo per quel passato e non cià finenu chiù fino a quando non finiu a coppa. Lui ciaveva avuto il vantaggio di crisciri prima fisicamente e accussì erano pochi quelli che potevano darici testa. E comunque fu cosa di poco perchè presto si dovettero spostare lui e la sua razza. Dove era cresciuto abbatterono tutti i palazzi. Lintero quartiere. La famigghia Magoi allora pigghiau baracca e barattelli e cangiau proprio zona. Fu un trasloco facile che tutte le loro sostanze ienu a finire supra a un solo carretto e per giunta ci fu spazio per tutta a famigghia che ciacchianau supra fino al nuovo domicilio. Una casa in Via Sperlinga arreri lospedale delle nascite. Non era stata una scelta a caso. Magoi padre era riuscito a pigghiare un posto come custode proprio allospedale e ora ciaveva uno stipendio sicuro.

26/03/12

25/03/12

Antonio Tabucchi (Pisa, 24 settembre 1943 – Lisbona, 25 marzo 2012)

[…] ho deciso che le cose importanti di Tristano avvennero di domenica, e se tu lo scrivi nel libro che scriverai diventa vero, perché scritte le cose diventano vere ; e si era d’agosto, perché ho deciso che le cose importanti nella vita di Tristano successero una domenica d’agosto, e se tu lo scrivi diventa vero anche questo, vedrai…
Tristano muore, Feltrinelli

[…], il “negativo” di Pessoa consiste forse in questo : nel rifuggire il segno che si afferma, nel ripudiare la prevalenza. Perché egli ha capito che in ogni sì, anche nel più pieno e nel più rotondo, c’è un minuscolo no, un corpuscolo portatore di un segno contrario che gira in un’orbita oscura a creare proprio quel sì che prevale.
Un baule pieno di gente, Scritti su Fernando Pessoa,Feltrinelli

21/03/12

20/03/12

Tano Calicchia

A forza di sucate, fottute e minchiate Tano Calicchia si trovò un giorno dentro il tabuto che attorno a lui ciaveva tutta genti ca chianceva. Fimmini vecchie e carusidde. Picciriddi sconosciuti e figghi mai nati. Cunnuti pacinziusi e masculi o scuru.
In questa confusione fermo fermo iddu era come se arrireva. Che con il vestito nuovo e le mani composte a tenere un giglio pareva avere meno dei suoi anni e nello sforzo di tinirisi la vita le labbra serano contratte in  una smorfia delicata e un  poco sfottente.
E' che Tano non era stato mai tinto. Certo ci piacevano i fimmini. Certo era stato tante volte senza testa nelle cose che aveva fatto ma non aveva mai voluto il male di nessuno. Solo pigghiarisi tutto quello che ci capitava a portata di mano. Che ci sembrava una scortesia rifiutare un regalo. E macari una cosa di babbi.
Il giorno che se nera andato sera svegliato presto.
Il caffè al bar. Il cornetto con la mammellata che faceva cricchicrocchi na ucca. La cassiera che sera cambiata pettinatura e che sempre ci sfiorava la mano a tunnarici il resto.
Ciaveva un appuntamento importante alle undici. Uno che ciaveva proposto un affare interessante. Si trattava solo di mittirici tannicchia di soddi. E lui qualche euro da parte ancora celaveva.
Nisciu dal bar e piano piano scinniu verso la villa. La giornata era splendida e le fimmine accuminciavano a fari avviriri la mercanzia per maturarla al sole. Tano non ciarrinisceva a non taliari e ogni tanto a fare qualche sorriso birbone. Che male cera? Non era un cacciatore lui. Sulu unu ca cugghieva quando  la natura diceva che era il momento.Per questo non si fimmava a insultare a nessuna. Non ci pareva una cosa di gusto.
Il suo uomo era davanti al cancello. A taliarlo si vedeva che Don Ciccio era un vero signore. Uno di quelli che fanno affari sempri e con tutti. Si salutanu e sinni ienu ad assittarisi nei tavolini del caffè più antico della città. Una cosa solo per la genti eleganti. Per chi ciavi i picciuli.
Tano non si fece pregare troppo. Lo sapeva che in queste occasioni non cera molto da pensare. O ti fidavi o neppure accuminciavi. Non cera alternativa.
Quando arrivò il primo colpo di pistola ciaveva ancora in mano la busta con i dieci mila euro. Si stava sussennu per poi stringerci la mano e finire laffare. Ciarrivò una macchia di sangue sopra a quella carta ianca che selera portata il proiettile che dalle sue spalle prima ciaveva passato il cuore e poi era andato a ficcarisi nel tavolino. Era scritta sul giornale questa cosa che forse faceva scena allocchi della gente oppure il giornalista laveva ritenuta importante. Don Ciccio invece il regalo laveva ricevuto nella testa che neanche lui sera accorto della motoretta che arrivava a tutta velocità. Nel giornale cera anche scritto che Tano era stato costretto a pagare il pizzo e che quello stava facendo in quel momento.
E forse è meglio così. Forse è meglio che nessuno labbia saputa mai la verità. Che Tano non era stato mai tinto. Che tutte e tutti ci volevano bene. 


Fonte immagine: Fabio D'Angelo

17/03/12

Commune de Paris (18 marzo/28 maggio 1871)

All’alba del 18 marzo, Parigi fu svegliata da un fragore di tuono: " Vive le Commune! ". Che cos’è dunque la Comune, questa sfinge che tormenta così seriamente lo spirito dei borghesi?

[...]La Comune fu composta da consiglieri municipali, eletti a suffragio universale nei diversi circondari di Parigi. Essi erano responsabili e revocabili in qualunque momento. La maggioranza dei suoi membri erano naturalmente operai o rappresentanti riconosciuti della classe operaia. La Comune non doveva essere un organismo parlamentare, ma un organo di lavoro esecutivo e legislativo nello stesso tempo.
Invece di continuare ad essere lo strumento del governo centrale, la polizia fu immediatamente spogliata delle sue attribuzioni politiche e trasformata in strumento della Comune, responsabile dinanzi ad essa e revocabile in qualunque momento. Lo stesso venne fatto per i funzionari di tutte le branche della amministrazione. Dai membri della Comune fino ai gradi subalterni, le pubbliche funzioni venivano retribuite con salari da operai. I diritti acquisiti e le indennità di rappresentanza degli alti funzionari dello Stato scomparvero con i funzionari stessi. Le cariche pubbliche cessarono di essere proprietà private delle creature del governo centrale. Non solo l’amministrazione municipale, ma tutte le altre iniziative fino allora esercitate dallo Stato passarono nelle mani della Comune.

Una volta abolito l’esercito permanente e la polizia, strumenti di potere del vecchio governo, la Comune si preoccupò di spezzare la forza di repressione spirituale, il potere dei preti; decretò la separazione della Chiesa e dello Stato disciogliendo ed espropriando tutte le chiese in quanto ordini possidenti. I sacerdoti furono restituiti al tranquillo riposo della vita privata, per vivere delle elemosine dei fedeli, ad imitazione dei loro predecessori, gli apostoli. La totalità degli istituti di istruzione furono aperti gratuitamente al popolo e liberati in pari tempo da ogni ingerenza della Chiesa e dello Stato. Così non solo l’istruzione fu resa accessibile a tutti, ma la scienza stessa fu liberata dalle catene che le erano state imposte dai pregiudizi di classe e dal potere governativo.

I funzionari della giustizia vennero spogliati di quella finzione di indipendenza che non era servita ad altro che a mascherare la loro vile sottomissione a tutti i vari governi che si erano alternati al potere ai quali, di volta in volta, avevano prestato giuramento di fedeltà per violare in seguito tale giuramento. Come gli altri funzionari pubblici, i magistrati e i giudici dovevano essere elettivi, responsabili e revocabili.

[...] Invece di decidere una volta ogni tre o sei anni quale membro della classe dirigente dovesse " rappresentare " e calpestare il popolo al Parlamento, il suffragio universale doveva servire al popolo costituito in Comuni, così come il suffragio individuale serve ad ogni altro imprenditore in cerca di operai e personale direttivo per i suoi affari. Ed è ben noto che le società, come i singoli imprenditori, quando si tratta di veri affari, sanno generalmente mettere a ogni posto l’uomo adatto, o se una volta tanto commettono un errore, sanno rapidamente come rimediare. D’altra parte nulla poteva essere più estraneo allo spirito della Comune, che mettere al posto del suffragio universale una investitura gerarchica.
[...] La molteplicità delle interpretazioni alle quali la Comune è stata sottoposta, e la molteplicità di interessi che nella Comune hanno trovato la loro espressione, mostrano che essa costituì una forma politica pienamente preparata ad espandersi, mentre tutte le precedenti forme di governo non avevano messo l’accento che sulla repressione. Il suo vero segreto fu questo; che essa fu essenzialmente un governo della classe operaia, il prodotto della lotta della classe dei produttori contro la classe degli appropriatori, la forma politica finalmente scoperta che consentiva di realizzare l’emancipazione economica del lavoro.
Senza quest’ultima condizione, la Costituzione della Comune sarebbe stata una cosa impossibile e un inganno. Il dominio politico dei produttori non può coesistere con la perpetuazione del loro asservimento sociale. La Comune doveva pertanto servire da leva per estirpare le basi economiche sulle quali si fonda l’esistenza delle classi, e quindi dell’oppressione di classe. Compiuta l’emancipazione del lavoro, ogni uomo diviene un lavoratore e il lavoro produttivo cessa di essere l’attributo di una classe.

Avviene un fatto strano. Nonostante tutti i discorsi magniloquenti, e l’immensa letteratura degli ultimi 60 anni sulla emancipazione dei lavoratori, non appena gli operai, in qualsiasi paese, prendono decisamente la cosa nelle loro mani, immediatamente si sente risuonare tutta la fraseologia apologetica dei reggicoda della società presente con i suoi due poli, capitale e schiavitù salariata (il proprietario fondiario non è che il socio passivo del capitalista), come se la società capitalista si trovasse nel suo stato più puro di verginale innocenza, come se tutte le sue contraddizioni non fossero ancora sviluppate, le sue menzogne non ancora smascherate, le sue infami realtà non ancora messe a nudo. La Comune - essi esclamano - vuole abolire la proprietà, base di ogni civiltà! Sì, o signori, la Comune voleva abolire quella proprietà di classe che fa del lavoro di molti la ricchezza di pochi. Essa aveva come scopo l’espropriazione degli espropriatori. Voleva fare della proprietà privata individuale una realtà, trasformando i mezzi di produzione, la terra e il capitale, oggi essenzialmente mezzi di asservimento e di sfruttamento del lavoro, in semplici strumenti di un lavoro libero e associato. Ma questo è comunismo, è l’"impossibile" comunismo! Ebbene, quelli tra i membri delle classi dominanti, che sono abbastanza intelligenti da comprendere l’impossibilità di perpetuare il sistema presente - e sono molti - sono diventati gli apostoli fastidiosi e rumorosi della produzione cooperativa. Ma se la produzione cooperativa non deve restare una finzione e un inganno; se essa deve subentrare al sistema capitalista; se l’insieme delle cooperative riunite deve regolare la produzione nazionale secondo un piano comune, prendendola così sotto il loro controllo e ponendo fine alla costante anarchia e alle periodiche convulsioni che sono la sorte inevitabile della produzione capitalista - che cosa sarebbe questo, o signori, se non comunismo, un molto " possibile " comunismo?

La classe operaia non attendeva miracoli dalla Comune. Essa non ha utopie belle e pronte da introdurre par décret du peuple. Sa che per realizzare la propria emancipazione, e con essa quella forma di vita più elevata alla quale tende irresistibilmente la società odierna per la sua stessa struttura economica, essa dovrà passare attraverso lunghe lotte, per tutta una serie di processi storici che trasformeranno completamente le circostanze e gli uomini. La classe operaia non ha da realizzare ideali, ma soltanto liberare gli elementi della nuova società dei quali è gravida la vecchia società in via di disfacimento. Pienamente cosciente della sua missione storica e con l’eroica decisione di agire in tal senso, la classe operaia può permettersi di sorridere alle grossolane invettive dei signori della penna e dell’inchiostro, servi senza aggettivi, e della pedantesca protezione dei dottrinari borghesi di buoni propositi che diffondono la loro insipida ignoranza e le loro ostinate idee fisse col tono oracolare dell’infallibilità scientifica.

Quando la Comune di Parigi prese nelle sue mani la direzione della rivoluzione, quando semplici operai, per la prima volta, osarono infrangere il privilegio governativo dei loro "superiori naturali", i possidenti, e in circostanze di estrema difficoltà, compirono la loro opera umilmente, con coscienza ed efficacia [...] il vecchio mondo si contorse in paurose convulsioni di rabbia alla vista della bandiera rossa, simbolo della Repubblica del lavoro, sventolante sull’Hótel de Ville a Parigi.

[...] In ogni rivoluzione, si insinuano, accanto ai suoi rappresentanti autentici, individui di tutt’altro conio; alcuni sono superstiti di passate rivoluzioni e ne conservano il culto; non comprendono il movimento presente ma conservano ancora una grande influenza sul popolo, per la loro onestà e il loro riconosciuto coraggio, o per la semplice forza della tradizione. Altri non sono che semplici schiamazzatori, i quali, a forza di ripetere per anni la stessa serie di stereotipe declamazioni contro il governo del giorno, si sono fatti passare per rivoluzionari della più bell’acqua. Anche dopo il 18 marzo, si videro riemergere alcuni tipi di questo genere, e in qualche caso riuscirono a rappresentare parti di primo piano. Nella misura del loro potere, essi furono d’ostacolo all’azione della classe operaia, esattamente come uomini di tale stampo avevano frenato il libero sviluppo di ogni precedente rivoluzione. Questi elementi sono un male inevitabile; col tempo ci si sbarazza di loro, ma alla Comune non ne venne lasciato il tempo.
Fonte: L’"Indirizzo" di Carlo Marx sull’epica impresa dei "comunardi"

Maximilien LUCE, Une rue à Paris en Mai 1871 ou La Commune. 1903-1905 (Musée d'Orsay)

14/03/12

Iakchos

Ma negli attimi di chiarezza
mi perdo, Dioniso diviene
guida 
di ogni possibile gesto, sguardo,
timone di ogni dolore.
Questo vorrei dirti,
mentre frugo il tuo corpo,
mentre indaghi il mio,
mentre chiudo gli occhi,
piano.

11/03/12

La gita

Avi assai che non fazzu nenti. Non parru. Non nesciu. Non futtu. E' che a stari cà accuminciai a siddiarimi. Cioè le cose funzionano e io travagghio ma sugnu troppo vecchio per fare amicizia con i cristiani nuovi di queste banne e troppo orso anche che mia madre me lo diceva sempre che accussì mi fineva di addivintari povero e pazzu.
Con Vincenzo ni viremu a sira dopo u travagghiu e se non semu stanchi arrivamu a diri bonanotti che altro non serve. Sarà stato per questo che un paio di giorni fa che cera il ponte e non si travagghiava per quasi una simana mi pigghiai il treno per una gita. Alledicola maccattai il giornale. Più di uno a dire il vero che il viaggio era lungo e io poi non ci viru tanto bene e accussì non lo leggo dove è scritto nico che non mi voglio sforzare troppo con la vista e locchiali mi danno fastidio. Il fatto è che non volevo arrivare impreparato delle novità che succedevano nellisola. Qualche cosa dovevo pure sapere se incontravo a qualcuno.
Fu accussì che trovai scritto che avevano trovato lossa di quel sindacalista che avevano ammazzato dopo alla guerra e che uno ca furia ed è amico dei mafiosi e ci fa affari non per forza è pure lui mafioso. Cera anche scritto che quelli che prima dicevano di essere comunisti e poi di essere di sinistra e poi di essere per il paese ora andavano a braccetto con uno che spattendo posti era arrivato a essere presidente della reggione. E anche cera misu che tutte le fabbriche grosse stavano chiurennu e che qualche scuola stava crollando che cera stato un temporale come non mai. Insomma niente di nuovo. Le solite cose che avevo lasciato. A solita merda.
Il treno lavevo pigghiato per arrivare fino a Catania ma a Firenze scinnii che cera una bella giornata e mera passata la vogghia.

09/03/12

Placido Rizzotto


La Polizia scientifica di Palermo ha attribuito i resti di uno scheletro, trovato nel settembre 2009 a Corleone, al sindacalista della Cgil Placido Rizzotto, rapito dalla mafia il 10 marzo del 1948 e poi ucciso.

Delitti nelle campagne


Non è certo sfuggita al lettore avvertito la recente e grave prova di malcostume offerta dalla stampa di informazione.

Erano trascorse appena poche ore dall’assassinio di due democristiani a Colombaia di Secchia, in comune di Carpineti, la notte del 26 marzo, che già da ogni parte d’Italia si precipitavano corrispondenti straordinari, e colonne e colonne di servizi speciali riempivano le prime pagine dei giornali sotto titoli sesquipedali. Per giorni e giorni ogni altra notizia passò in seconda linea di fronte alla dilagante cronaca del fatto di sangue, di cui i più minuti particolari furono doviziosamente offerti e abilmente conditi per stuzzicare non tanto la curiosità quanto l’odio di parte. Perché - è inutile dirlo - prima ancora che fosse scoperto l’assassino, tutti concordemente i giornali d’informazione giuravano sulla natura politica del delitto e sulla responsabilità almeno morale del Partito Comunista.

Ma quando all’alba del 16 maggio, il giovane sindacalista socialista Salvatore Carnevale fu assassinato a Sciara, nessun corrispondente si è mosso: poche righe di notizia e, due giorni dopo, il “fatto di cronaca” era completamente dimenticato. Tutt’al più un breve commento avvertiva il distratto lettore che la causale del delitto non poteva essere politica. Eppure qui davvero la natura politica del delitto doveva apparire evidente, giacché si contano ormai a decine i sindacalisti assassinati in questi anni dalla mafia siciliana, e a pochi chilometri dal luogo ove Salvatore Carnevale è stato ucciso, fra le Madonìe e il mare, già altri tre lo hanno preceduto: Musciarella di Ficarazzi, Li Puma di Petralia, Rizzotto di Corleone, tutti colpevoli, come Carnevale, di aver educato i contadini ad opporre all’oppressione del feudo l’arma democratica dell’organizzazione sindacale e il metodo civile dello sciopero.

Ma questa differenza di atteggiamento, questo malcostume è soltanto giornalistico? La mobilitazione delle forze di polizia per la cattura del colpevole di Colombaia, e la condotta, energica e decisa delle indagini, trovano analogo riscontro per il delitto di Sciara? Mentre scrivo, le indagini sono in corso e alcuni fermi sono avvenuti non posso che formulare l’augurio che gli assassini e i mandanti siano rapidamente e sicuramente individuati.

Non posso però non rievocare la lunga catena degli altri delitti rimasti impuniti, senza neppure un processo, e le gravi responsabilità dell’autorità di polizia, così clamorosamente mancata al proprio dovere di assicurare la tranquillità di quelle zone, di garantire anche ai sindacalisti l’incolumità e ai contadini la libertà dalla paura. Ho vivo il ricordo di altri tre sindacalisti socialisti uccisi in breve spazio di tempo, alla vigilia - come oggi - di una campagna elettorale, quella dell’aprile 1948, e dei quali, nella mia qualità di segretario del Partito mi interessai in modo particolare: Epifanio Li Puma, Placido Rizzotto e Calogero Cangelosi, vero eroe da tragedia greca, la cui sorte commosse allora tutti i cuori generosi d’Italia.

Anche allora la voce pubblica identificò subito gli assassini fra gli esponenti della mafia locale, che spesso non avevano avuto neppure timore di scoprirsi, facendo alle future vittime volta a volta promesse o minacce per distoglierli dall’attività sindacale. Eppure gl’indiziati non furono disturbati. Credo che in un solo caso - uno solo per tutta la tragica catena di delitti contro sindacalisti - si sia avuto il processo. Fu il caso di Rizzotto, e gli atti di quel processo meriterebbero di essere pubblicati tanto sono edificanti.

Placido Rizzotto, segretario della Camera del Lavoro di Corleone, non rientrò a casa una sera e di lui non fu trovato neppure il cadavere. Si conosceva l’ultima persona che lo aveva avvicinato la sera: era un avversario politico che si allontanò l’indomani dal paese. Il padre, interrogato dai carabinieri, mentì spudoratamente sui movimenti del figlio. Era certamente qualche cosa più di un indizio, reso più grave dal fatto che costui era anche gabelloto di un fondo di cui la Camera del Lavoro aveva qualche mese prima ottenuto l’assegnazione a una cooperativa di contadini. La voce pubblica lo denunciava concorde e il padre del Rizzotto ne fece pubblicamente il nome come quello dell’assassino durante un comizio. Non fu arrestato né processato. Si presentò spontaneamente all’Autorità Giudiziaria dopo parecchi mesi (e si seppe che nel frattempo era rimasto tranquillamente nella sua campagna), fu assolto in istruttoria per insufficienza di prove.

Senonché in quegli stessi giorni un detenuto lo denunciò in modo preciso come correo, con altri, dell’assassinio. Fu arrestato con uno dei correi: entrambi si confessarono autori e rivelarono il luogo, una specie di fòiba, dove il cadavere del Rizzotto era stato gettato e dove fu difatti trovato. Questa volta naturalmente il processo si dovette fare, ma neppur questa volta le prove furono ritenute sufficienti dalla Corte di Assise di Palermo.

Questa ormai consolidata impunità degli assassini incoraggia naturalmente il ripetersi dei delitti, ed è vano gettare la responsabilità di queste impunità sul silenzio generale delle popolazioni che non consentono di trovare le prove. Certo l’omertà è grande, ma il circolo è vizioso: finché l’autorità non darà veramente la prova di voler seriamente punire i colpevoli, il cerchio della paura non si allenterà perché ogni testimonio sa di non essere a sua volta protetto contro le vendette della mafia forte della propria impunità.

Ecco perché accanto alla nuova fossa da poco scavata, un interrogativo è lecito. La responsabilità di questa catena di delitti, di queste decine di vittime, ricade sulla classe dirigente locale, sui ceti feudali e sulla mafia, ma non ricade anche sulle autorità costituite e sul governo di Roma, per la loro tollerante impotenza? E se sarebbe ingiuria grave pensare ad una condiscendenza voluta, non credo che la responsabilità politica diminuisca se si pensa ad un’inettitudine totale, le cui radici sono del resto nello stesso animo della polizia, troppo ingombro di preconcetti a carico delle vittime di questi delitti per poter condurre obiettivamente le indagini.

Ho difeso davanti alle Assise di Agrigento il segretario della Camera del Lavoro di Canicattì, Mannarà, imputato del delitto di strage da cui la Corte lo mandò completamente assolto. Per dare maggior forza alla sua denuncia, la polizia aveva cercato di dipingere il Mannarà a tinte fosche, e tra l’altro aveva scritto nel suo rapporto: “Che il Mannarà sia un elemento pericoloso e capace di commettere i delitti da lui consumati in quell’occasione in mezzo alla folla, armato di pistola, lo dimostra il fatto che in tutto l’ambiente di Canicattì è temutissimo, motivo per cui tempo addietro lo stesso subì due attentati che evidentemente miravano a toglierlo di mezzo”.

Tocchiamo così forse uno degli aspetti principali del problema. Ogni capolega di contadini, ogni segretario di Camera del Lavoro siciliani sanno che la fredda morte può ghermirli ad ogni angolo di strada perché il regime feudale si difende con mezzi ancora barbarici contro l’avanzata del mondo moderno, perché il regno della mafia non perdona a coloro che vogliono dare ai contadini la coscienza dei diritti scritti nella Costituzione. E tutti sanno che cosa significhino queste croci lungo il faticoso cammino dell’ascesa democratica delle masse lavoratrici siciliane. Solo la polizia non se ne è ancora accorta. Per essa i tanti sindacalisti caduti, da Accursio Miraglia a Calogero Cangelosi, non sono vittime della prepotenza del feudo e della ferocia della mafia, ma sono essi stessi dei prepotenti e dei malvagi, degli “elementi pericolosi e capaci di commettere delitti”, sono in ultima analisi, delle vittime della propria violenza.

Quale prezzo di sangue dovrà pagare ancora il movimento contadino siciliano perché la verità si faccia strada anche presso l’autorità?

Fonte testo:  http://www.leliobasso.it/


ELENCO DI DIRIGENTI POLITICI E SINDACALISTI UCCISI DALLA MAFIA TRA IL 1945 E IL 1950

Nunzio Passafiume Trabia 18/06/1945
Giuseppe Scalia Cattolica Eraclea 25/11/1945
Giuseppe Puntarello Ventimiglia 05/12/1945
Gaetano Guarino, Marina Spinelli Favara 16/05/1946
Pino Camilleri Naro 28/11/1946
Giovanni Castiglione Alia 22/09/1946
Giuseppe Biondo Santa Ninfa 22/10/1946
Andrea Raja Casteldaccia 23/11/1946
Paolo Farina Comitini 28/11/1946
Nicolò Azoti Baucina 21/12/1946
Accursio Miraglia Sciacca 04/01/1947
Leonardo Salvia Partinico 13/02/1947
Nunzio Sansone Villabate 13/02/1947
Pietro Macchiarella Ficarazzi 19/02/1947
Margherita Cresceri, Giuseppe Di Maggio, Vito Allotta, Giovanni Grifò, Castrenze Intravaia, Vincenza La Fata, Filippo Di Salvo, Serafino Lascari, Giovanni Megna, Giorgio Cusenza, Francesco Vicari Portella della Ginestra 01/05/1947
Vincenzo Lo Jacono Partinico 22/06/1947
Giuseppe Casarubea, Michelangelo Salvia Partinico 30/06/1947
Giuseppe Caiola San Giuseppe Jato 03/11/1947
Vito Pipitone Marsala 08/11/1947
Giuseppe Maniaci Terrasini 25/11/1947
Vincenzo Campo Gibellina 22/02/1948
Epifanio Li Puma Petralia Sottana 03/03/1948
Placido Rizzotto Corleone 10/03/1948
Calogero Cangelosi Camporeale 15/04/1948
Nicasio Triolo Trapani 10/10/1948
Leonardo Renda Alcamo 08/07/1949
Fonte: Storia della Sicilia dal 1860 al 1970 di Francesco Renda,  Sellerio


Fonte immagine: http://cittanuovecorleone1.blogspot.com/
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