"La poesia è scritta da qualcuno che non è lo scrittore a qualcuno che non è il lettore" - Paul Valéry -
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06/09/15
Garybaldi, Bianca e Hare Krishna
Quando ritorna si trascina dietro un carrello.
“Ho fatto tutto, così non devo tornare di là”
“Dai iniziamo”
Le penne con le zucchine hanno un odore e un sapore che Michele non conosceva. Tutto gli appare nuovo anche quella musica, anche quel compagno che gli si siede di fronte, anche quel vino che finisce in fretta.
“Ti piace? Era la mia ricetta preferita quando la cucinava mia madre. Semplice e unta quanto basta”
Salvatore ride e subito dopo riempie i bicchieri fino all’orlo.
“Dai bevi, che questo fa bene alla salute. Altro che birra! Non ti ho mai visto da queste parti, sei in vacanza?”
“No, no vivo qui, ci sono nato qui”
“Ah! Non mi sembrava. Io invece qui ci sono venuto da piccolo. I miei hanno trovato lavoro qui. E poi è finita che ci sono cresciuto, ci ho studiato anche. Insomma, sono rimasto anche se loro sono tornati a casa”
Michele è già a mezzo piatto.
“Buoni, ma questo posto… era una stalla prima?”
“Non lo so. Credo di sì. Io l’ho trovato già cosi. Prima era di uno di qui, è morto qualche anno fa. Una brava persona, io ci venivo sempre a mangiare e poi… e poi gli eredi hanno venduto a me”
“Ti sei sistemato allora”
Salvatore lo guarda sorridendo.
“Io vivo con la mia pensione”
“Pensione?”
“Già!”
Michele non chiede più nulla, si concentra sulle ultime penne girandole sul piatto con la forchetta a raccogliere olio e zucchine. Salvatore invece ha già finito, aspetta che l’altro faccia lo stesso e poi si alza per togliere i piatti e mettere i nuovi.
“Lo senti questo pezzo?”
“Sì, chi sono?”
“Si chiamavano Garybaldi. Ci suonava Bambi Fossati. Il pezzo invece è Maya Desnuda. Se avessi qui l’album ti farei vedere la copertina, una cosa spettacolare. C’è Bianca di Crepax.”
Michele si rende conto di fare fatica a seguirlo e poi di Crepax conosce solo Valentina e qualche disegno visto su Tumblr. Chi è quella Bianca? Anche quella musica. Gli sembra un po’ una copia di Hendrix anche se fatta benissimo, comunque non ha voglia di discutere di questo.
“E’ strano” si lascia sfuggire.
“Cosa è strano?”
“È strano questo posto. È strana la musica che ascolti. Non ti seccare ma anche tu sei un po’ strano”
Salvatore lo guarda divertito.
“Hai ragione ed è la cosa più bella che avresti potuto dirmi, certo insieme al lodare i miei piatti”
Michele ha già iniziato a pulire e gustare i gamberetti. Si interrompe, pulisce le dita, prende del vino e continua:
“E’ come se questo posto ci fosse e non ci fosse più. Non so se riesco a spiegarmi, ma insomma anche questa posizione, questa piccolo vicolo che lo protegge dalla strada…”
“Sì, era quello che cercavo e poi la strada è sempre lì. Puoi tuffarti e rientrare quando vuoi”
“Già, senti ma questi invece chi sono?”
“Gli Aktuala, ti piacciono?”
“Sì, che anno siamo?”
“’73, oppure ora se vuoi”
“Ma non è che ora, invece, viene fuori un Hare Krishna?”
Michele vuole essere divertente, ma Salvatore non sembra cogliere la battuta.
“Sei mai stato in un loro tempio?”
“No”
“Mi dispiace per te… e i concerti?”
“Di musica dici? Beh sì certo”
“Seduto su una poltrona o rinchiuso in qualche posto bloccato da un cancello suppongo”
“Cioè?”
“Nulla, scusami. È che a volte è più forte di me e mi faccio trasportare anche io dal prima e dal dopo, dal pensare e dire -ai miei tempi- come se non sapessi che non vale nulla”
“Nulla?”
“Cosa vuoi che valga il tempo aldilà dell’attimo in cui lo vivi? Il passato, il futuro possono essere solo strani, lo hai detto anche tu poco fa, e se diventano veri qualcosa non va.”
“Ma noi lo stiamo ascoltando ora il passato”
“Sì, ma non è più quello che ho ascoltato io in un parco, non è quello inciso sul disco e tra poco non sarà più quello che stiamo sentendo qui”
“Li hai visti?”
“Questi gruppi? Giravo parecchio, era semplice”
“E poi?”
“E poi ho fatto altro. Fumi?”
“No”
“Esco fuori, allora”
Salvatore si avvicina al banco e da un cassetto tira fuori una scatola di latta della Amarelli; ne estrae cartine, cartoncino e fumo per poi, con perizia e velocità, rollare una canna.
“Peccato” dice guardando con un sorriso negli occhi Michele, quindi esce fuori a fumare.
«Maya
Sei già spogliata, sei sul mio letto
sei tutta, nuda
Dolce visione, dolce passione
tu sei sempre, nuda
Maya Desnuda
Passan le ore, esce il sudore
tu mi travolgi, nuda
Dolce passione, dolce visione
tu sei sempre, nuda
Si, nuda
Vieni su... su con me... si, su!
Sempre più su!
Hei bambina sono stufo di te
non mi fai neanche, bere un caffè
cerca pure, intanto io
sto correndo come Superman
Hei bambina cosa credi che sia
un ultra-fai-l'amore superstar
hei bambina prova a andare da
James Brown, e la sua Sex Machine
Sai bambina cosa credo di fare
di sparire, in mezzo al mare
hei bambina forse tu
non lo sai, sono guai
Vieni su, insieme a me
Va bene così.
Ora sei pronta, vieni su!
Corriamo insieme!»
05/09/15
Sorrenti, musicassette e vino
“Ciao!”
Una voce decisa lo saluta, ma Michele non riesce a vedere subito chi ne sia il proprietario. Solo quando è vicino al bancone si accorge dell’uomo che, quasi inginocchiato, traffica con la radio dietro quel rifugio.
“Non riesco più a togliere questa maledetta musicassetta, mi daresti una mano?”
“Musicassetta?”
“Sì dai, sai quelle vecchie cose rettangolari di plastica con un nastro dentro che si riavvolgeva con un tappo della penna, con una matita?”
“Sì. Lo so cosa sono le musicassette”
“Questo dannato coso non vuole più aprirsi. Dai, dammi una mano”
Michele gira attorno al banco, ma non sa proprio come potrebbe essere d’aiuto.
“Guarda, tienilo solo fermo. Non voglio che cada”
L’uomo prende un coltello e armeggia sullo sportellino fino a riuscire ad aprirlo.
“Eccoti qui cazzo! A volte succede, ma non mi va di cambiarlo”
Estrae la cassetta e la ripone nella sua custodia, poi la deposita nel piccolo spazio da cui probabilmente l’aveva estratta, uno dei tanti scomparti di una bacheca in legno segnata dagli anni, e ne prende una nuova.
“Ti piace Sorrenti?”
“Sorrenti?”
“Sorrenti, sì. Alan Sorrenti. Sai i figli delle stelle che la notte gli gira intorno? Mortacci sua che canzone di merda”
Sorride e nel farlo si volta verso Michele come a cercarne l’assenso. E’ stempiato e con i capelli lunghi fino alle spalle.
“Sì, sì. Ricordo”
“Bene, vuoi mangiare?”
“Sì, in effetti sì”
“Siediti dove vuoi, arrivo subito”
Michele non sta molto a pensarci, si siede al primo tavolo con due posti che vede e aspetta. E’ già partita la musicassetta con un pezzo che non conosceva e poco dopo arriva anche l’oste. Michele lo osserva meglio, ma gli unici particolari che riesce a cogliere sono lo stomaco prominente ed una lunga cicatrice sul braccio sinistro.
“Cosa ti porto?”
“Cosa c’è?”
“Ah scusa, ho dimenticato il menù. Comunque, se ti fidi, oggi ho una buona pasta con zucchine e dei gamberetti eccezionali, ti vanno?”
“Ok”
“Da bere?”
“Birra, c’è artigianale?”
“Birra? Vuoi del vino?”
Michele lo guarda sorpreso, poi si limita ad assentire con il capo.
“Bene, allora ci penso io. Se vuoi lì ci sono degli antipasti, ti porto subito acqua e vino.
Michele guarda verso la porta. La poca gente che passa sulla strada e lontana, al caldo, mentre lì, anche senza aria condizionata, si sta bene. Magari un tempo questa era una stalla, pensa, ma non riesce a trovare nulla che possa confermare la sua ipotesi. Si alza un attimo e guarda distratto gli antipasti, ma non prende nulla.
L’uomo arriva subito. Gli versa un vinello quasi trasparente anche se tendente al rosa.
“Assaggialo”
Michele ubbidisce e non si pente di avergli dato retta.
“Buono”
“Eh, eh. Lo so. Lo produco io”
“Sì?”
“Sì, poche bottiglie. In collina.”
“Senta, perché non mi fa compagnia?”
“Perché no? Tanto oggi… però solo se la pianti di darmi del lei. Mi fai sentire vecchio.”
“Va bene, provo.”
“Preparo tutto e arrivo allora. Prima però cambiamo cassetta. Alan non va bene per un pasto in compagnia. Metterò una raccolta. Preferisci qualcosa?”
“No, no. Faccia lei… fai tu, intendevo”
“Bene, così va meglio. Ah! A proposito… io sono Salvatore”
“Io Michele”
“Bene Michele! Torno subito”
Salvatore interrompe la musica e inserisce una nuova cassetta.
“Progressive italiano, va bene?” Chiede a Michele.
“Sì, sì. Non ti preoccupare”
L’uomo non risponde, è già scomparso nel retro del locale, tra i fornelli.
«Vorrei incontrarti
fuori i cancelli di una fabbrica.
Vorrei incontrarti
lungo le strade che portano in India
Vorrei incontrarti
ma non so cosa farei
Forse di gioia io di colpo piangerei.
Vorrei trovarti
mentre tu dormi in un mare d'erba
e poi portarti nella mia casa sulla scogliera
Mostrarti i ricordi di quello che io sono stato
Mostrarti la statua di quello che io sono adesso.
Vorrei conoscerti
ma non so come chiamarti
Vorrei seguirti
ma la gente ti sommerge
Io ti aspettavo
quando di fuori pioveva
e la mia stanza era piena
di silenzio per te.
Vorrei incontrarti
fuori i cancelli di una fabbrica
Vorrei incontrarti
lungo le strade che portano in India
Vorrei incontrarti
ma non so cosa farei
Forse di gioia io di colpo piangerei.
Vorrei incontrarti
proprio sul punto di cadere
tra mille volti il tuo riconoscerei
Canta la tua canzone
cantala per me
Forse un giorno
io canterò per te.»
04/09/15
Loy & Altomare, anfe e caleidoscopi
Quando era ragazzino amava farsi di anfetamine. Con quelle in corpo camminava nella notte con gli amici, da solo spesso. Parlava per ore, si masturbava senza sosta rientrando a casa, amava, beveva. Tutto in quelle ore procedeva velocemente come se già ogni cosa non andasse avanti a velocità folli a sedici anni. Il fatto è che già allora Michele non amava correre e quei momenti, senza che lui realmente lo sapesse, gli servivano al contempo da conferma e da smentita al suo essere. Tutto avrebbe potuto essere diverso, ma ne valeva davvero la pena? Valeva davvero correre? Lui negli anni successivi aveva continuato con i suoi tempi, con le lunghe pause. Chissà perché gli venivano in testa questi pensieri.
“Sarà quest’acqua calda” pensa Michele “sarà quest’afa che non vuol lasciare la presa”.
E’ indeciso se prepararsi qualcosa o uscire, ma non ha voglia di pentole e fornelli e neanche di lavare, dopo. Mette qualcosa addosso e la decisione è presa. L’aria è ferma. Inizia a sudare già fuori dal portone senza ancora aver fatto un passo in strada. Decide allora di anticipare i tempi. Si sposterà verso il locale da visitare e magari cercherà qualcosa lì vicino per mangiare.
Oggi è una giornata da 8. Deve attraversare quasi tutta la città per raggiungere la periferia storica. Quella parte della città che ora è quasi centro. Gli viene in mente che lì c’è un parco minuscolo, un vecchio giardino capace di resistere al tempo e agli uomini. Sull’autobus un po’ più di gente, ma lui non ha voglia di incrociare nessun sguardo. Si concentra così su un particolare, una stretta porzione di spazio tra il sedile che precede il suo e la piccola piattaforma su cui è sistemata la macchina obliteratrice. Se ne serve come sfondo per i pensieri, le immagini che gli passano in testa. Quali siano non lo sa bene neanche lui, si susseguono veloci e imprevedibili: un caleidoscopio.
Ecco, il tempo di mettere a fuoco una vecchia foto e via a cercare il punctum per poi ruotare il cilindro fino a formare l’immagine successiva. Magari non c’è nulla che leghi i due momenti, magari è solo una parola, una frase, che è affiorata con la prima e che confonde, forma, i riflessi dei piccoli frammenti di vetro della seconda, ma tutto questo non ha grande importanza. Non c’è regola in questo giocare.
Manca poco alla sua fermata quando smette. Alza gli occhi e si accorge che l’autobus si è quasi svuotato. Gran parte delle persone che erano a bordo è scesa lungo le fermate del centro e la prossima, invece, è la sua.
Le case del quartiere sono sezioni stratigrafiche su cui misurare il tempo. Lavoro fatto di risparmi, di emigrazione, di fierezza e approssimazione. E’ il caos e la pulizia la loro bellezza, così come sono l’abbandono e la rovina la loro pena.
Michele si perde a guardare, a trovare le finestre e i balconi, i piccoli tetti addossati alle mura delle case vicine senza nessuna separazione, senza nessun ordine. Una insegna lo porta dentro un piccolo vicolo. “Osteria dell’attesa” annuncia, quasi uno scherzo del caso. Oltre la porta d’ingresso le note di Loy & Altomare.
«E la vita scorre liscia e piatta
come il vento sopra l'acqua,
come roccia non si spacca,
come il fumo poi se ne va...
E se pensi di restar lassù, se ci credi,
là puoi vincere o morire,
ma puoi perdere e campare,
ma questo si sa, questo è proprio vero,
in quest'universo qua, in questo cielo,
ma stappa il tuo vino,
troverai me, bevi,
resta ancora un po' con me,
che mi sento sincero,
sincero come non mai...
Dov'è ch'è andata quell'altra là,
su quale stella?
In una notte senza luna la cercheremo,
la chiameremo,
ma prova il mio vino,
troverai me, bevi...
Quando diceva che sarebbe andata com'era vero,
e ora dorme in qualche grotta
al sicuro, al riparo proprio da noi...
Ma una notte troppo disperata
lascia sempre la sua traccia,
la respiri nei polmoni,
te la leggi sulla faccia,
e non pensare di dormirci su,
sarebbe bello...
Devi attendere e pagare
per quell'attimo d'amore,
che poi se ne va,
e se non torna bevi,
fino all'ultimo secondo sei lì che speri,
poi stappi il tuo vino,
saluti tutti e bevi...
ma ogni sera vuol dire morire,
vuol dire godere,
vuol dire rischiare,
ma come si fa?
Che se non torna bevi...
Fino all'ultimo secondo sei lì che speri,
poi stappi il tuo vino,
saluti tutti e bevi...
Ma ogni sera vuol dire morire,
vuol dire godere,
vuol dire rischiare,
ma come si fa?
Come si fa?»
02/09/15
Slipknot, corpi e incubi
“Ciao”
La donna lo guarda e sorride. Seduta, completamente nuda, sul bordo del letto ha sulle ginocchia un taccuino aperto percorso da linee e ghirigori. Nella mano destra una penna e tra i capelli un fiore. Michele la osserva ma non ne è sorpreso. Sa di conoscere bene quel corpo. Di chiunque essa sia.
Anche lui è nudo e mostra una evidente erezione. “Dovrei coprirmi” pensa, ma non riesce a muoversi come se ogni gesto gli costasse inutile fatica. Anche le parole non escono dalla sua bocca, si limita a salutarla muovendo gli occhi.
“Non ti preoccupare, passerà. E’ normale trovarsi così, senza nessuna possibilità di movimento. E’ il nostro corpo che prende il sopravvento, che si ribella al suo presunto padrone. E’ semplice. Quasi banale. Non pensi?”
La donna si ferma e lo guarda. Incrocia i suoi occhi, carezza dolcemente il suo corpo.
“Cosa ti eccita? Il mio essere nuda? Gli occhi? Le mie labbra? Il corpo non si pone queste sciocche domande. Non credi anche tu?”
Michele sposta gli occhi a negare ma non può fare a meno di pensare che sì, sarebbe tutto più semplice se riuscisse almeno a calmare quell’erezione. La donna riprende a tracciare linee sul taccuino, ma con la sinistra inizia lentamente a masturbarlo fino a farlo venire.
“Ti è piaciuto? Ti è piaciuto Michele?”
La voce lentamente muta. Diviene più cupa, più maschile. Anche lei ora inizia ad apparirgli leggermente diversa. Quando si solleva mostrandosi completamente al suo sguardo Michele dapprima ne scopre le gambe villose, il pene enorme, poi ne risale con gli occhi il corpo fino a scoprirne il viso. E’ quello dello gnomo. E’ lo stesso di quell’uomo.
“Sorpreso?” gli chiede quello e nel farlo ride. Ha una risata fredda, studiata, falsa.
Michele inizia ad averne paura, ma non può far nulla per reagire se non continuare a cercare di parlare con gli occhi. Lo gnomo si sdraia sopra di lui e lentamente con tutto il corpo penetra nel suo.
Michele ne sente prima il peso. Insopportabile. Angosciante. Poi inizia a perdere il controllo degli arti, del bacino, la testa è l’ultima a cedere prima di chiudere gli occhi, prima di risvegliarsi da quell’incubo.
Il sole è già alto. Michele fa partire la radio. C’è Vermillion Pt.2 degli Slipknot.
«She seemed dressed in all of me, stretched across my shame.
All the torment and the pain
Leaked through and covered me
I'd do anything to have her to myself
Just to have her for myself
Now I don't know what to do, I don't know what to do when she makes me sad.
She is everything to me
The unrequited dream
A song that no one sings
The unattainable, Shes a myth that I have to believe in
All I need to make it real is one more reason
I don't know what to do, I don't know what to do when she makes me sad.
But I won't let this build up inside of me
I won't let this build up inside of me
I won't let this build up inside of me
I won't let this build up inside of me
A catch in my throat choke
Torn into pieces
I won't, no!
I don't wanna be this...
But I won't let this build up inside of me
I won't let this build up inside of me
I won't let this build up inside of me
I won't let this build up inside of me
She isn't real
I can't make her real
She isn't real
I can't make her real »
01/09/15
Holiday, maledizioni e suicidi
Quando si sveglia ogni cosa gli appare circondata da una debole luce crepuscolare. Michele mette Billie Holiday, torna a sdraiarsi e lascia che il buio lo avvolga.
Ascoltando Gloomy Sunday, l’ungherese maledetta, non può fare a meno di pensare al suo autore, al destino di quelle parole, alla loro fortuna. Aveva conosciuto per caso quella storia e però ne era stato affascinato fino a ricercare il testo originale e la musica di Rezsö Seress, fino a indagare su quelle strani morti e sulle interpretazioni succedutesi nel tempo. Certo la voce della Holiday era di un altro pianeta e lui dopo pochi affanni aveva archiviato tutto pensando a quello che era l’Europa, il mondo intero in quel periodo.
Il giorno in cui si erano baciati con Giulia era anche quella una domenica. Avevano lasciato gli amici nel locale ed erano fuggiti fuori sotto una fitta pioggia. Lui ancora fumava e lei aveva voluto fargli compagnia. Avevano parlato e riso tutto il tempo quella sera. Lui appena usciti, sotto una corta tettoia di plastica battuta dal vento e dall’acqua, non aveva neppure fatto finta di prendere una sigaretta. Aveva invece messo le mani sui suoi fianchi baciandola timidamente. Quando aveva staccato le labbra dalle sue ne aveva trovato gli occhi. Illuminati, splendidi. Era allora che si era innamorato? Sono solo le nostre ricostruzioni a creare il passato? Dreaming, I was only dreaming I wake and I find you asleep In the deep of my heart here
«Sunday is gloomy,
My hours are slumberless
Dearest the shadows
I live with are numberless
Little white flowers
Will never awaken you
Not where the black coaches
Sorrow has taken you
Angels have no thoughts
Of ever returning you
Wouldn’t they be angry
If I thought of joining you?
Gloomy sunday
Gloomy is sunday,
With shadows I spend it all
My heart and I
Have decided to end it all
Soon there’ll be candles
And prayers that are said I know
But let them not weep
Let them know that I’m glad to go
Death is no dream
For in death I’m caressin’ you
With the last breath of my soul
I’ll be blessin’ you
Gloomy sunday
Dreaming, I was only dreaming
I wake and I find you asleep
In the deep of my heart here
Darling I hope
That my dream never haunted you
My heart is tellin’ you
How much I wanted you
Gloomy sunday»
28/07/15
Jethro Tull, kebab e mattoni
Michele si è appena svegliato. Giulia ancora dorme accanto a lui. Va a farsi una doccia poi inizia a preparare del caffè. Giulia lo raggiunge poco dopo, gli dà una pacca sul culo e prende il suo posto nella doccia. Michele spegne la fiamma e la raggiunge. Riescono a fare l’amore in uno spazio piccolissimo. Lei poggiata con le mani sul muro, il viso a premere sulle piastrelle grigie. Lui le è dietro. Le afferra e stringe i fianchi fino a farle male, spinge dentro lei fino a sentirle la fica pulsare, fino a venire anche lui.
Decidono di fare colazione fuori casa. Giulia riprende la busta con le sue cose, la stessa che non aveva mai svuotato, Michele propone un bar del centro, uno di quelli fuori dalla sua lista. Lungo il tragitto chiacchierano come non accadeva loro da tempo. Nessun accenno alla loro storia, alla notte precedente.
Michele lo vede mentre stanno per ripartire dopo una breve sosta a un semaforo. Quello ha ripreso i suoi tic. Questa volta continua a grattarsi la parte interna del gomito sinistro. A volte, con le braccia a incrociarsi, da piccole pacche con le mani sulle scapole per poi riprendere a grattarsi.
“È lì, eccolo! Lo vedi?”
Michele indica l’uomo a Giulia, ma lei è già ripartita.
“Chi era?” gli chiede lei.
“Lo gnomo. Era lui!” risponde Michele.
“Non mi hai ancora raccontato nulla…” gli fa notare Giulia.
Michele non ha però più voglia di parlarne. Approfitta di un buco tra due auto per invitare la donna a posteggiare e per cambiare argomento. Lei fa finta di non accorgersi della sua mossa e sorride.
“Però, che fortuna! Hai delle monete per il parchimetro?” gli dice.
Michele cerca in tasca. Estrae l’incarto di una caramella all’anice, un biglietto da visita illeggibile e due monete da cinquanta centesimi.
“Basteranno?” chiede lei
“Credo di sì” risponde Michele e nel frattempo si guarda attorno sperando di rivedere quello strano personaggio.
Si siedono all’ombra. I tavoli danno la possibilità di sbirciare il viavai della gente senza avere attorno l’ingombro di nessun mezzo che non sia una bici o una carrozzina. Ordinano due cornetti e due caffè e attendono chiacchierando. Giulia gli racconta di una nuova libreria inaugurata lì vicino. Lei c’è andata con Graziana e altre due amiche.
“Ha una grande sala di lettura che viene utilizzata per presentare anche gli autori –racconta- però mi domando con quale coraggio abbiano speso tutti quei soldi”
Michele tira fuori uno “Già!” di assenso, ma continua a essere distratto.
Lei continua a parlargli di autori sconosciuti, di piccole case editrici, di gare di poesia. A sentirla si sbaglierebbe quasi sicuramente a scommettere sul suo lavoro, ma lei è fatta così e Michele è questo che di lei ama. Il suo sorprenderti, la sua curiosità.
Quando ritornano verso l’auto lui decide di non salire. Le dà un piccolo bacio sulla spalla e la saluta prima di incamminarsi verso il Duomo. Lei lo guarda sparire e poi parte.
Michele si infila in una stradina tortuosa e acciottolata. In un centinaio di metri in susseguono vecchi palazzi senza ordine. La facciata di alcuni è parzialmente scrostata, altri hanno gli intonaci più bassi che hanno perso il colore originario degradato a un grigio indistinto. Eppure ancora basta fermarsi e osservare. Il giallo, il mattone, il rosa, l’arancio, il rosso sono declinati in sfumature mai uguali e la luce filtra a giocare con gli scuri e i colori donando ombre ogni istante diverse.
“Hai fatto bene” gli sussurra qualcuno alle spalle.
“Io…”
“Sì! Tu non sei fatto per lottare, Michele. Nessuno lo è, ma tu ancora di più”
“Non ti capisco” Michele sa di chi è quella voce, ma non vuole voltarsi per controllare. Non vuole fermarsi.
“Hai mai ascoltato il tuo corpo? Hai mai rifiutato di fare quello che ti chiedeva? Hai mai provato a disubbidirgli? A disubbidire al tuo istinto?”
“Io credo che tu non esista”
“Può anche essere così, Michele. Però prova a pensare a quello che ti ho detto”
“Non riesco a seguirle le tue parole! Non riesco a seguire te”
“Magari uno di questi giorni potremmo sederci, parlare tranquillamente…”
“Perché? Perché dovremmo farlo?”
“Così. Se ne avrai voglia. Potremmo invitare anche quel ragazzo…”
“Chi?”
Il vecchio gnomo è sparito. Michele lo sa, ma non si gira per controllare. Percorre ancora un tratto di strada poi il sole lo sfianca. Si ferma ad attendere un autobus per tornare a casa. Alle sue spalle un piccolo locale arabo resiste all’afa e alla mancanza di clienti. Decide di acquistare un kebab da portare con sé e allora entra, attende paziente di essere servito, il taglio delle strisce sottili, l’aggiunta delle verdure, delle salse. Paga ed esce. Il proprietario lo guarda soddisfatto e dopo ritorna a fissare lo schermo della televisione appesa al soffitto. Appena il cliente era entrato aveva tolto l’audio ora lo rimette e torna a seguire attento la telenovela brasiliana doppiata in arabo.
La casa lo attende silenziosa e ordinata. Michele non si era accorto del lavoro fatto da Giulia. Si mette in mutande, apre il kebab ancora caldo, estrae una birra dal frigo e inizia a mangiare. Poggiando tutto su un vassoio si sposta ai piedi del divano e mette Thick as a brick dei Jethro Tull. È a meta del disco quando squilla il telefono. Non ha voglia di parlare con Gilda e Giulia sicuramente a quell’ora starà facendo altro. Resiste fino al quinto squillo poi risponde:
“Pronto?”
“Pronto dottore? Qui è la Tecnoassi. Sono la dottoressa Giselle, ricorda?”
“Sì, certo, certo. Mi dica”
“Lei non si è presentato al nostro invito”
“Beh sì. Ricorda? Le avevo già detto che io...”
“Non si preoccupi dottore. Non è un problema. Le telefono per invitarla nuovamente per la prossima settimana...”
“Io...”
“Non può? Il suo nome è stato suggerito da una persona di una certa importanza per la nostra ditta…”
“Suggerito? Il mio nome?”
“Sì dottore. Crede di essere libero la prossima settimana?”
“Sì, credo di sì”
“Bene! Le telefonerò di nuovo allora… lunedì prossimo?”
“Va bene”
“A lunedì allora!”
“A lunedì”
“Mi scusi… dimenticavo. Lei ha un auto?”
“No. Non ho neanche la patente a dire il vero”
“Va bene. Provvederemo noi, allora”
“Provvederete a cosa?”
“La saluto dottore. A lunedì”
Michele non sa cosa pensare, prende un’altra birra e si sdraia, lascia che il disco finisca e si addormenta.
«Really don't mind if you sit this one out.
My words but a whisper - your deafness a SHOUT.
I may make you feel but I can't make you think.
Your sperm's in the gutter - your love's in the sink.
So you ride yourselves over the fields and
you make all your animal deals and
your wise men don't know how it feels to be thick as a brick.
And the sand-castle virtues are all swept away in
the tidal destruction
the moral melee.
The elastic retreat rings the close of play as the last wave uncovers
the newfangled way.
But your new shoes are worn at the heels and
your suntan does rapidly peel and
your wise men don't know how it feels to be thick as a brick. And the love that I feel is so far away:
I'm a bad dream that I just had today - and you
shake your head and
say it's a shame.
Spin me back down the years and the days of my youth.
Draw the lace and black curtains and shut out the whole truth.
Spin me down the long ages: let them sing the song.
See there! A son is born - and we pronounce him fit to fight.
There are black-heads on his shoulders, and he pees himself in the night.
We'll
make a man of him
put him to trade
teach him
to play Monopoly and
to sing in the rain.
The Poet and the painter casting shadows on the water
as the sun plays on the infantry returning from the sea.
The do-er and the thinker: no allowance for the other
as the failing light illuminates the mercenary's creed.
The home fire burning: the kettle almost boiling
but the master of the house is far away.
The horses stamping - their warm breath clouding
in the sharp and frosty morning of the day.
And the poet lifts his pen while the soldier sheaths his sword.
And the youngest of the family is moving with authority.
Building castles by the sea, he dares the tardy tide to wash them all aside.
The cattle quietly grazing at the grass down by the river
where the swelling mountain water moves onward to the sea:
the builder of the castles renews the age-old purpose
and contemplates the milking girl whose offer is his need.
The young men of the household have
all gone into service and
are not to be expected for a year.
The innocent young master - thoughts moving ever faster
has formed the plan to change the man he seems.
And the poet sheaths his pen while the soldier lifts his sword.
And the oldest of the family is moving with authority.
Coming from across the sea, he challenges the son who puts him to the run.
What do you do when
the old man's gone - do you want to be him? And
your real self sings the song.
Do you want to free him?
No one to help you get up steam
and the whirlpool turns you `way off-beam.
LATER.
I've come down from the upper class to mend your rotten ways.
My father was a man-of-power whom everyone obeyed.
So come on all you criminals!
I've got to put you straight just like I did with my old man
twenty years too late.
Your bread and water's going cold.
Your hair is too short and neat.
I'll judge you all and make damn sure that no-one judges me.
You curl your toes in fun as you smile at everyone - you meet the stares.
You're unaware that your doings aren't done.
And you laugh most ruthlessly as you tell us what not to be.
But how are we supposed to see where we should run?
I see you shuffle in the courtroom with
your rings upon your fingers and
your downy little sidies and
your silver-buckle shoes.
Playing at the hard case, you follow the example of the comic-paper idol
who lets you bend the rules.
So!
Come on ye childhood heroes!
Won't you rise up from the pages of your comic-books
your super crooks
and show us all the way.
Well! Make your will and testament. Won't you?
Join your local government.
We'll have Superman for president
let Robin save the day.
You put your bet on number one and it comes up every time.
The other kids have all backed down and they put you first in line.
And so you finally ask yourself just how big you are
and take your place in a wiser world of bigger motor cars.
And you wonder who to call on.
So! Where the hell was Biggles when you needed him last Saturday?
And where were all the sportsmen who always pulled you though?
They're all resting down in Cornwall
writing up their memoirs for a paper-back edition
of the Boy Scout Manual.
LATER.
See there! A man born - and we pronounce him fit for peace.
There's a load lifted from his shoulders with the discovery of his disease.
We'll
take the child from him
put it to the test
teach it
to be a wise man
how to fool the rest.
QUOTE
We will be geared to the average rather than the exceptional
God is an overwhelming responsibility
we walked through the maternity ward and saw 218 babies wearing nylons
cats are on the upgrade
upgrade? Hipgrave. Oh, Mac.
LATER
In the clear white circles of morning wonder,
I take my place with the lord of the hills.
And the blue-eyed soldiers stand slightly discoloured (in neat little rows)
sporting canvas frills.
With their jock-straps pinching, they slouch to attention,
while queueing for sarnies at the office canteen.
Saying -- how's your granny and
good old Ernie: he coughed up a tenner on a premium bond win.
The legends (worded in the ancient tribal hymn) lie cradled
in the seagull's call.
And all the promises they made are ground beneath the sadist's fall.
The poet and the wise man stand behind the gun,
and signal for the crack of dawn.
Light the sun.
Do you believe in the day? Do you?
Believe in the day! The Dawn Creation of the Kings has begun.
Soft Venus (lonely maiden) brings the ageless one.
Do you believe in the day?
The fading hero has returned to the night - and fully pregnant with the day,
wise men endorse the poet's sight.
Do you believe in the day? Do you? Believe in the day!
Let me tell you the tales of your life of
your love and the cut of the knife
the tireless oppression
the wisdom instilled
the desire to kill or be killed.
Let me sing of the losers who lie in the street as the last bus goes by.
The pavements ar empty: the gutters run red - while the fool
toasts his god in the sky.
So come all ye young men who are building castles!
Kindly state the time of the year and join your voices in a hellish chorus.
Mark the precise nature of your fear.
Let me help you pick up your dead as the sins of the father are fed
with
the blood of the fools and
the thoughts of the wise and
from the pan under your bed.
Let me make you a present of song as
the wise man breaks wind and is gone while
the fool with the hour-glass is cooking his goose and
the nursery rhyme winds along.
So! Come all ye young men who are building castles!
Kindly state the time of the year and join your voices in a hellish chorus.
Mark the precise nature of your fear.
See! The summer lightning casts its bolts upon you
and the hour of judgement draweth near.
Would you be
the fool stood in his suit of armour or
the wiser man who rushes clear.
So! Come on ye childhood heroes!
Won't your rise up from the pages of your comic-books
your super-crooks and
show us all the way.
Well! Make your will and testament.
Won't you? Join your local government.
We'll have Superman for president
let Robin save the day.
So! Where the hell was Biggles when you needed him last Saturday?
And where were all the sportsmen who always pulled you through?
They're all resting down in Cornwall - writing up their memoirs
for a paper-back edition of the Boy Scout Manual.
OF COURSE
So you ride yourselves over the fields and
you make all your animal deals and
your wise men don't know how it feels to be thick as a brick.»
27/07/15
White Stripes, brezze e distorsioni
“Sei stata velocissima”
“Non ci voleva molto in auto”
“Vuoi che salga o vieni qui?”
“No, no. Scendo”
Giulia lascia l’automobile accostata al marciapiede e si siede sulla panchina poggiando le proprie spalle a quelle di Michele.
“Scusa, non so cosa mi sia successo. Mi dispiace aver pianto”
“Sei confusa”
“Sì. Sono confusa”
“Capita. Se vuoi non se ne fa nulla. Cioè continuiamo così, non è detto che…”
“Sì, credo sia meglio. Sei stato con un’altra donna?”
“No. Credo di no”
“Che significa?”
Michele racconta di Gilda e del locale e del sogno del bagno e cerca di essere sincero. Anche se poi non descrive proprio tutto e quello che dice non lo sa neanche lui se poi è stato reale o meno.
“Questa Gilda…”
“Sì?”
“Beh ha telefonato oggi, ti cercava. Quando le ho chiesto se avessi dovuto dirti qualcosa ha risposto che si sarebbe fatta sentire lei”
“Non mi ha chiamato”
“Ti dispiace?”
“No, ma non ha importanza”
“Cosa?”
“Il fatto in se”
“Io non voglio essere gelosa, Michele. Non ci sono abituata. E’ qualcosa che non vivo come mio, ecco”
Guardano entrambi davanti a sé come se parlassero da soli. A tratti una leggera brezza sposta un po’ più in là una parola, una frase, e allora devono inseguirla o inventarla, costruirla con il cuore. Quando si rialzano Giulia lo riaccompagna a casa.
“Rimani qui? – le chiede Michele - È tardi, tornerai domani da Graziana se vuoi”
Giulia ci pensa un attimo, poi esce dall’auto e decide che sì, è proprio tardi per svegliare l’amica.
A casa Michele stappa due Moretti e ne dà una a Giulia, poi fa partire una versione lunghissima di Ball and biscuit dei White Stripes. I due si sdraiano sul letto così come sono. La testa sul cuscino ripiegato. La bottiglia che viaggia tra le labbra e il pavimento. Tra un assolo di chitarra e la voce di Jack White. Alla fine rimangono in silenzio fissando il piccolo stereo come se si attendessero altro ma nessuno dei due avesse la voglia o la forza di alzarsi per rendere vero quel desiderio. Michele pigia l’interruttore e la stanza piomba nel buio, solo un puntino rosso davanti a loro.
«It's quite possible that I'm your third man girl
But it's a fact that I'm the seventh son
It's quite possible that I'm your third man girl
But it's a fact that I'm the seventh son
And right now you could care less about me
But soon enough you will care, by the time I'm done
Let's have a ball and a biscuit sugar
And take our sweet little time about it
Let's have a ball girl
And take our sweet little
Tell everybody in the place to just get out
And we'll get clean together
And I'll find me a soap box where I can shout it
Yeah
Read it in the newspaper
Ask your girlfriends and see if they know
Read it in the newspaper
Ask your girlfriends and see if they know
That my strength is ten fold girl
I'll let you see if you want to before you go
Let's have a ball and a biscuit sugar
And take our sweet little time about it
Let's have a ball
And take our sweet little time about it
Tell everybody in the place to just get out
And we'll get clean together
And I'll find my a soap box where I can shout it
And I can think of one or two things to say
About it
Alright, listen
Alright, you get the put now
It's quite possible that I'm your third man girl
But it's a fact that I'm the seventh son
It was the other two which made me your third
But it was my mother who made me the seventh son
And right now you could care less about me
But soon enough you will care by the time I'm done»
26/07/15
Dylan, mosche e auto
La stanza ridiventa silenziosa. Non si sono mossi. Giulia si è addormentata e Michele è rimasto a guardarla. Quando si alza si muove piano per non svegliarla, si avvicina alla finestra e tenta di respirare. Qualcosa lo blocca provocandogli brevi respiri affannosi che lui tenta malamente di controllare.
Era stata una serata tranquilla al lavoro. Un bar di quelli periferici. Poca gente e poco da segnare. Tutto era proceduto velocemente e lui non aveva pensato ad altro che alla sua voglia di tornare a casa. Ora quel discorso lo aveva colto impreparato. Michele guarda giù. Non c’è molto da vedere, le auto parcheggiate i lampioni. A volte uno di loro segnala il suo malumore lampeggiando stancamente, oggi però sono tutti accesi, vivi.
“Credo sia colpa della mia mediocrità - pensa Michele - ma del resto come non esserlo? Forse è solo una questione di sogni, oppure di ciò che si è vissuto. Insomma se io non apprezzassi questo mio modo di essere potrei dire di esserlo? O la inconsapevolezza libera dalla colpa? Magari è solo la voglia di lottare, di incazzarsi o il credersi liberi, liberi, già, liberi. Ma che cazzo significa? Anche se potessi fare qualsiasi cosa di cui abbia voglia io sarei libero? Saremmo liberi? Forse l’unica libertà che ci sarebbe concessa sarebbe quella di aggiungere un gesto, una lieve torsione del polso, una piccola smorfia o un graffio. Tutto è già stato detto, fatto… lì su quel filo di cui siamo temporaneamente capo. Cazzo Giulia perché non provi solo a vivere? Perché semplicemente non accetti che l’acqua scorra?”
Una mosca rimasta intrappolata dentro la stanza inizia a poggiarsi sul braccio, sulla guancia, a ronzargli vicino. Michele pensa al movimento delle ali di quell’essere, alla sua rapida contrazione del torace. Con un gesto improvviso la schiaccia. Sul vetro e sulle dita una striscia di qualcosa che sembrerebbe sangue anche se tale è impossibile che sia.
Michele pulisce con un fazzoletto, poi si lava le mani e si siede leggero accanto a Giulia. Con la mano le scosta i capelli. Non può evitare di darle una piccola carezza passando le dita sul contorno del suo viso fino al mento fino alle labbra su cui posa prima l’indice e poi, quasi solo sfiorandole, le sue.
Si alza, beve un’altra birra ed esce di casa. Vuole solo tornare a respirare, camminare. Le strade si susseguono uguali. Tutto il quartiere è frutto dello stesso piano edilizio: palazzi e strade squadrate, alberi rinsecchiti o mal potati ai bordi delle vie più larghe, piscio e merda a segnalare vite non umane. Michele ha le mani in tasca. Guarda le automobili parcheggiate e inizia a suddividere i modelli per poi numerarli per produttore. Continua così fino al terzo incrocio quindi smette. Succede appena si accorge di non riuscire più a tenere il conto, che inizia a confondere i numeri.
Da lontano vede avvicinarsi a lui il ragazzino dell’autobus. Ha sempre le cuffie e gli stessi abiti delle altre volte. Si guardano incrociandosi.
“Ciao!” gli dice Michele.
“Ciao” risponde il ragazzo fermandosi perplesso.
“L’autobus… ricordi?” fa Michele.
“Ah” smozzica l’altro prima di girarsi e continuare a camminare.
“Senti…”
Il ragazzo si ferma di nuovo, ma non si volta.
“…vai verso casa?” chi chiede Michele.
Ora il ragazzo si gira, gesticola.
“Che cazzo te ne frega?”
“Nulla! Hai ragione, scusa”
“No, comunque” aggiunge, di nuovo calmo il ragazzo, riprendendo a camminare.
Michele lo segue con lo sguardo fin quando fatica a non confonderlo tra i chiaroscuri dei lampioni. Non sa proprio perché l’abbia fermato, forse aveva solo bisogno di parlare. Con un ragazzino pero! Deve essere proprio messo male!
Riprende a camminare fino a quando non trova dove sedersi. Guarda le poche macchine passare, le segue con gli occhi, cerca di immaginare quante persone ci siano dentro, dove siano dirette.
“Pronto”
“Dove sei?”
“Fuori”
“Lo so che sei fuori, dove?”
“Su una panchina. Non so come si chiami questa strada. C’è uno slargo con una targa dedicata ai ferrovieri”
“Ah! Credo di sapere dove sia. Arrivo!”
“Va bene”
Giulia chiude la conversazione, Michele prova a fischiettare Duquesne whistle.
«Listen to that Duquesne whistle blowing
Blowing like it’s gonna sweep my world away
I’m gonna stop in Carbondale and keep on going
That Duquesne train gonna ride me night and day
You say I’m a gambler, you say I’m a pimp
But I ain’t neither one
Listen to that Duquesne whistle blowing
Sounding like it’s on a final move.
Listen to that Duquesne whistle blowing
Blowing like she’s never blown before
Look like blinking, red light blowing
Blowing like she’s at my chamber door
You smiling through the fence at me
Just like you always smiled before
Listen to that Duquesne whistle blowing
Blowing like she isn’t gonna blow no more
Can’t you hear that Duquesne whistle blowing
Blowing like the sky is gonna blow apart
You’re the only thing alive that keeps me going
You’re like a tie bound to my hear
I can hear a sweet voice gently calling
Must be the mother of our Lord
Listen to that Duquesne whistle blowing
Blowing like my woman’s on a board
Listen to that Duquesne whistle blowing
Blowing like it’s gonna blow my blues away
You old rascal, I know exactly where you’re going
I’ll leave you there myself at the break of a day
I wake up every morning with that woman in my bed
Everybody telling me she’s gone to my head
Listen to that Duquesne whistle blowing
Blowing like it’s gonna kill me dead
Can’t you hear that Duquesne whistle blowing
Blowing through another no good town
The lights of my native land are glowing
I wonder if they’ll know me next time around
I wondered if that old oak tree’s still standing
That old oak tree, the one we used to climb
Listen to that Duquesne whistle blowing
Blowing like she’s blowing right on time»
25/07/15
R.E.M., orgasmi e contrappassi
“Ciao eccoti. Io sono rientrato poco fa. Tutto bene?” Michele la fissa un po’ preoccupato, lei ha un’aria stanca, distrutta.
“Dobbiamo parlare!” gli dice lei tenendosi ancora alla porta spalancata.
“Dobbiamo parlare!” gli dice lei tenendosi ancora alla porta spalancata.
“Dello gnomo? Sì, certo”
“No Michele, dobbiamo parlare…” la sua voce è bassa, quasi rassegnata.
“Entra almeno” le risponde lui.
Giulia chiude la porta alle sue spalle e si getta sul divano. Michele si siede accanto a lei, le afferra le mano sinistra e inizia a darle piccoli baci risalendo piano lungo il braccio fino ad arrivare al collo, fino a cercare le sue labbra. Giulia non reagisce, ha solo chiuso gli occhi come fosse assente. Lascia che lui le tiri giù la parte superiore del vestito e inizi a stuzzicarle il seno con piccoli morsi, quasi a farle male. Non si ribella nemmeno quando lo sente penetrare in lei dopo averle solo scostato gli slip, quando si sente riempire da lui, quando sente lo sperma colarle tra le gambe.
Michele si rialza e riprende la birra che aveva lasciato a terra.
“Non mi vuoi più?” le chiede
Giulia riapre gli occhi.
“Non è questo Michele, non è questo… è che io, che noi non siamo pronti, anzi non so se io sarò mai pronta a dover dividere, a fingere, a inventare magari una scusa per poter incontrare il mio amante, la tua amante… se vale veramente qualcosa questo dover esser coppia, famiglia e i figli che verranno e il disinteresse verso te, verso me… io credo, io credo di stare bene con te, credo di amarti sai? Sì credo di amarti, e allora cos’è questo senso di possesso che già mi fa dubitare e che non riconosco? Tu non sei mio, io non sono tua, e se stiamo bene insieme e proprio perché siamo così, è proprio perché non ci aspettiamo dall’altro nulla di quello che egli, oggi, in questo momento, sia e io non voglio cambiarti e non vorrei mai che tu lo facessi con me… ci piacciamo così come siamo Michele, ci giustifichiamo per quello che siamo perché siamo riusciti a imparare a convivere con noi stessi, perché magari ci autocompiacciamo delle nostre battute stupide, del nostro sbagliare oppure diveniamo pavoni per una nostra vittoria e tutte queste cose sono nostre e ora non me la sento, no non me la sento di imparare a rivedere ogni cosa e magari arrivare a immaginarti per come non sei, come fossi un bambolotto da vestire, da accudire, o sperare, convincermi che non possa esserci nessun’altra capace di farti stare meglio anche solo con un sorriso, un pompino, anche solo con una carezza... no, non ci credo che la vita si fermi a noi due Michele, non voglio, non posso credere all’annullamento della noia, credo invece al suo nascondersi solo per tirare avanti meglio e ogni volta che cederemmo a questo, ogni volta non sarà altro che un ennesimo gradino verso la menzogna… fin quando conosceremo ogni nostro gesto di finzione, fin quando il nostro diventerà solo uno stupido esercizio di scacchi in cui ogni mossa è conosciuta dai due avversari eppure eseguita con un sorriso… perché è questo che io aspetterò da te, è questo quello che tu ti aspetterai da me, una cortese menzogna.”
Ha parlato senza fermarsi, guardando dritto come a incrociare l’orizzonte. Quando finisce si rannicchia su se stessa tenendo le gambe tra le braccia e inizia a piangere. È un pianto silenzioso, un pianto che non riesce a trattenere. Anche se vorrebbe, anche se si sente ridicola lì, davanti a lui.
Michele non sa cosa fare. La guarda, ma non si avvicina. Le si siede di fronte, a terra, quasi nella sua stessa posizione e chiude gli occhi. Sul disco che aveva messo prima parte Shiny Happy People dei R.E.M.
«Shiny happy people laughing
Meet me in the crowd
People people
Throw your love around
Love me love me
Take it into town
Happy happy
Put it in the ground
Where the flowers grow
Gold and silver shine
Shiny happy people holding hands
Shiny happy people holding hands
Shiny happy people laughing
Everyone around love them, love them
Put it in your hands
Take it take it
There's no time to cry
Happy happy
Put it in your heart
Where tomorrow shines
Gold and silver shine
Shiny happy people holding hands
Shiny happy people holding hands
Shiny happy people laughing»
“No Michele, dobbiamo parlare…” la sua voce è bassa, quasi rassegnata.
“Entra almeno” le risponde lui.
Giulia chiude la porta alle sue spalle e si getta sul divano. Michele si siede accanto a lei, le afferra le mano sinistra e inizia a darle piccoli baci risalendo piano lungo il braccio fino ad arrivare al collo, fino a cercare le sue labbra. Giulia non reagisce, ha solo chiuso gli occhi come fosse assente. Lascia che lui le tiri giù la parte superiore del vestito e inizi a stuzzicarle il seno con piccoli morsi, quasi a farle male. Non si ribella nemmeno quando lo sente penetrare in lei dopo averle solo scostato gli slip, quando si sente riempire da lui, quando sente lo sperma colarle tra le gambe.
Michele si rialza e riprende la birra che aveva lasciato a terra.
“Non mi vuoi più?” le chiede
Giulia riapre gli occhi.
“Non è questo Michele, non è questo… è che io, che noi non siamo pronti, anzi non so se io sarò mai pronta a dover dividere, a fingere, a inventare magari una scusa per poter incontrare il mio amante, la tua amante… se vale veramente qualcosa questo dover esser coppia, famiglia e i figli che verranno e il disinteresse verso te, verso me… io credo, io credo di stare bene con te, credo di amarti sai? Sì credo di amarti, e allora cos’è questo senso di possesso che già mi fa dubitare e che non riconosco? Tu non sei mio, io non sono tua, e se stiamo bene insieme e proprio perché siamo così, è proprio perché non ci aspettiamo dall’altro nulla di quello che egli, oggi, in questo momento, sia e io non voglio cambiarti e non vorrei mai che tu lo facessi con me… ci piacciamo così come siamo Michele, ci giustifichiamo per quello che siamo perché siamo riusciti a imparare a convivere con noi stessi, perché magari ci autocompiacciamo delle nostre battute stupide, del nostro sbagliare oppure diveniamo pavoni per una nostra vittoria e tutte queste cose sono nostre e ora non me la sento, no non me la sento di imparare a rivedere ogni cosa e magari arrivare a immaginarti per come non sei, come fossi un bambolotto da vestire, da accudire, o sperare, convincermi che non possa esserci nessun’altra capace di farti stare meglio anche solo con un sorriso, un pompino, anche solo con una carezza... no, non ci credo che la vita si fermi a noi due Michele, non voglio, non posso credere all’annullamento della noia, credo invece al suo nascondersi solo per tirare avanti meglio e ogni volta che cederemmo a questo, ogni volta non sarà altro che un ennesimo gradino verso la menzogna… fin quando conosceremo ogni nostro gesto di finzione, fin quando il nostro diventerà solo uno stupido esercizio di scacchi in cui ogni mossa è conosciuta dai due avversari eppure eseguita con un sorriso… perché è questo che io aspetterò da te, è questo quello che tu ti aspetterai da me, una cortese menzogna.”
Ha parlato senza fermarsi, guardando dritto come a incrociare l’orizzonte. Quando finisce si rannicchia su se stessa tenendo le gambe tra le braccia e inizia a piangere. È un pianto silenzioso, un pianto che non riesce a trattenere. Anche se vorrebbe, anche se si sente ridicola lì, davanti a lui.
Michele non sa cosa fare. La guarda, ma non si avvicina. Le si siede di fronte, a terra, quasi nella sua stessa posizione e chiude gli occhi. Sul disco che aveva messo prima parte Shiny Happy People dei R.E.M.
«Shiny happy people laughing
Meet me in the crowd
People people
Throw your love around
Love me love me
Take it into town
Happy happy
Put it in the ground
Where the flowers grow
Gold and silver shine
Shiny happy people holding hands
Shiny happy people holding hands
Shiny happy people laughing
Everyone around love them, love them
Put it in your hands
Take it take it
There's no time to cry
Happy happy
Put it in your heart
Where tomorrow shines
Gold and silver shine
Shiny happy people holding hands
Shiny happy people holding hands
Shiny happy people laughing»
Captain, tate e amanti
Non sa bene dove andare. Ha solo voglia di camminare, di respirare. Il cielo si è leggermente coperto e ora l’aria è meno calda anche se più umida. Giulia decide di dirigersi verso il parco, ad ogni passo sente sempre più il vestitino bianco che indossa incollarsi al corpo, il seno delinearsi con precisione tra i piccoli ricami, le mutandine bagnarsi lentamente di sudore.
Arriva al parco esausta. Si ferma nella zona giochi, quella più coperta dall’ombra degli alberi, e si siede su una panchina. Il corpo è piegato in avanti, le gambe leggermente divaricate. I gomiti poggiano sulla ginocchia, mentre il viso è sorretto dalle mani che coprono le guance lasciando solo gli occhi liberi di vagare, di incontrare e perdersi. di perlustrare.
L’aria più fresca ha condotto lì parecchi bambini, ma non sono quelli che attirano la curiosità di Giulia. Si ferma a guardare gli adulti, gli accompagnatori che vagano senza sapere bene che fare, in attesa di vedere esaurire le forze dei più piccoli o di trovare una valida scusa che giustifichi se stessi nell’andare via.
Un padre si è impossessato di una intera panchina, gambe divaricate a mostrare l’ancora attiva virilità e braccia allargate sullo schienale a segnalare il possesso del luogo. Alterna sguardi apprensivi a segnali di caccia, magari sta sognando la rapida avventura con una delle tante tate presenti. Queste ultime formano piccoli gruppi. Triangoli chiusi a interventi esterni che permettono loro, nello stesso tempo, di controllare l’intero territorio e di lasciarsi andare a una piacevole chiacchierata. Le madri invece sono più solitarie, certo qualcuna di loro e insieme a una donna più anziana (sarà la madre? La suocera? Giulia non si sofferma a ipotizzare) ma la maggior parte siede sulle panchine, telefonando o leggendo, oppure insegue la prole quasi impedendo loro di giocare tra uno “stai attento” e un “questo non si fa”.
Giulia decide di concentrarsi sull’uomo e su una donna seduta su una panchina accanto a lui.
Lei ha una coppia di gemelli, Giulia li vede giocare tranquilli sulla sabbia di fronte alla madre. Avranno tre, quattro anni e un visino assorto. La donna ha un libro con sé, ma non sembra molto impegnata nella lettura. Si guarda in giro. A volte controlla il telefono. Pare in attesa di qualcosa, di qualcuno.
Giulia la vede illuminarsi e rassettarsi improvvisamente. Anche l’uomo seduto accanto a lei sembra accorgersi del cambiamento, si solleva e nel farlo accavalla una gamba sull’altra stringendo la caviglia con la mano. Un altro uomo si avvicina. Giulia ne sente il profumo prima ancora di vederne le spalle e il culo. Sbuca alle sue spalle e prosegue. La donna sorride e Giulia per un secondo pensa che stia sorridendo a lei, ma basta poco a capire che non è così, il suo sguardo è tutto per quell’uomo. Gli occhi le si illuminano, con una mano ravviva i lunghi capelli biondi offrendo così il proprio bianchissimo collo allo sguardo di lui.
Chissà cosa starà pensando, chissà quale è il suo viso. E la loro storia? Giulia inizia a incuriosirsi di fronte a quel passo sicuro, a quella reazione. L’uomo però non si ferma, continua a camminare fino a una fontana poco distante da lì e poi finalmente si ferma. Lei dà un’occhiata veloce ai bambini e poi veloce lo raggiunge. Giulia li vede parlare un attimo quasi come due estranei che si usano cortesia, poi lui si allontana e lei, invece, richiama i bimbi e li conduce verso la direzione opposta. Sembra tranquilla, rilassata. Anche i bambini non sono turbati dal cambio repentino. La seguono come fosse normale per loro staccarsi dal gioco, una abitudine l’ubbidire.
L’uomo che era seduto accanto a lei ha seguito tutta la scena. È arrivato a voltarsi per vedere i due incontrarsi, girandosi solo quando lei ha alzato gli occhi per controllare i figli. Ora, tornato alla posizione iniziale, scuote la testa e sorride. È in questo momento che sembra accorgersi di Giulia. Lei automaticamente accavalla le gambe e mette conserte le braccia distogliendo lo sguardo, poi si alza e ricomincia a camminare. Ha deciso di tornare a casa. Di parlare con Michele.
Ripercorre in senso inverso la stessa strada dell’andata, ma questa volta è più tranquilla e l’aria è decisamente più fresca. Si ferma a prendere un succo e ne approfitta per andare in bagno e sciacquarsi il viso. Quando finalmente rientra Michele è già lì. Una birra nelle mani e la musica di This Is The Day a riempire la stanza.
«This is the day that love chose to play,
The day love came to stay,
This kiss is for the first time,
And this kiss is for that time
Love to ride
This is the day that love chose to play
One minute here, one minute there
Love spent time everywhere,
This day that love chose to stay
This is the day that love chose to play,
The day love came to stay,
This kiss is for the first time,
And this kiss is for that time
Love to ride
This is the day that love chose to play
One minute here, one minute there
Love spent time everywhere,
This day that love chose to stay»
24/07/15
De Gregori, case e fughe
Escono un po’ ubriache dal locale. Vanno prima a casa di Graziana e lì Giulia prende qualche vestito e dei libri per portarli con sé. L’amica l’accompagna con l’auto non prima, però, di aver riprovato davanti a lei i nuovi acquisti e di aver, casualmente, chiacchierato su comuni conoscenze.
“Bene, allora ti lascio” le dice mentre Giulia scende dall’auto.
“Sì, ci vediamo tra qualche giorno al lavoro”
“Ok” risponde Graziana e riparte senza aggiungere altro, chiudendo in fretta per riconquistare un po’ di fresco dentro la vettura mentre già inizia a sudare.
Giulia ha messo tutto in una busta capiente. In realtà non sa dove sistemare quelle sue poche cose e così abbandona tutto sopra il divano, si spoglia e decide di leggere. Non ha voglia di andare da Michele ma prima gli telefona per dirglielo:
“Ciao, dove sei?”
“Mi ero addormentato”
“Ma dai! E dove?”
“Su una panchina. Non ci crederai, ma sai lo gnomo?”
“Quello che incontri spesso?”
“Sì proprio lui. Beh! Gli ho parlato! Cioè è lui che mi ha parlato. Conosceva anche il mio nome”
“E cosa ti ha detto?”
“Di stare attento”
“Perché”
“Non so. Non ho capito bene”
“Ma ti ha minacciato?”
“No, no. Insomma mi sembra tutto così strano”
“Magari ne parliamo, se ti va”
“Sì, ne avrei bisogno. Ora vado non mi sono reso conto che è già tardi, ma tu dove sei? Hai deciso se venire?”
“Non lo so Michele. Credo di no. Sono a casa e leggo. Ho portato qui qualche cosa”
“Bene, a più tardi allora”
“Sì, a più tardi”
Giulia chiude la telefonata e ricomincia a leggere, ma le è passata la voglia. Apre il frigo, ma non c’è quasi nulla a esclusione delle birre e allora si riveste e va a comperare qualcosa. Quando ritorna è ancora perplessa, confusa. Sistema acqua, succhi e yogurt in frigo poi apre una confezione di croccantini al sesamo. Si ritrova a girare in quell’unica stanza, a sollevare fogli, libri e dischi. A osservare la polvere e i muri scrostati. A odorarne l’essenza. Come non fosse mai stata lì. Come fosse la prima volta.
Vorrebbe dare una sistemata a tutto, fare un po’ di ordine, di spazio, ma si trattiene. Non vuole assolutamente senza che ci sia Michele e poi c’è ancora troppo caldo per qualsiasi movimento che superi l’ordinario.
Prende un succo e ritorna sul divano. Quando squilla il telefono è indecisa su cosa fare, ma poi risponde.
“Pronto?”
“Pronto? Ciao! Sei Giulia?”
“Sì, sono io. E tu chi sei?”
“Non ci conosciamo. sono un’amica di Michele. mi chiamo Gilda. mi ha parlato lui di te. sei la sua ragazza vero? c’è Michele?”
“No, ora no. Vuoi che gli dica qualcosa?”
“No, grazie, nulla. magari provo a chiamare un altro giorno”
“Ok! Come vuoi tu”
“Ciao allora. sono contenta di averti conosciuto”
“Ciao”
“Ciao”
La telefonata si interrompe. Giulia prende un altro succo, afferra il libro tra le mani e inizia a leggere ad alta voce camminando nella stanza. E’ una raccolta di poeti del Mediterraneo. Quando finisce le pagine cerca tra i cd di Michele e mette De Gregori ritrovandosi, poco dopo, a urlare il nome di Carmela.
Si sente opprimere in quella stanza, in quella casa. Decide per una doccia poi si riveste ed esce.
«La cucina era vuota
il bicchiere a metà
l'uomo guardava serio il muro
e poi seguiva il fumo che saliva lento
verso la lampadina
la stagione era quasi finita
l'uomo pensava "questa è casa mia"
Nella stanza del letto
la donna grassa e nervosa
guardava su un giornale a colori
la vita di una donna bionda famosa e ricca
"con qualche anno in meno" pensò
"qualche anno di meno
e lei somiglierebbe a me"
E il tempo passa come una colomba
sulla casa dell'uomo e della donna
dentro una città pulita e violenta
la donna partorì una stella e la chiamò Carmela
figlia di suo padre e sua madre
fiocco rosa da crescere in fretta
rideva quasi sempre
piangere non piangeva mai»
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