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31/08/12

"L’antigelo poetico" di Andrea Cirillo

«Devo fare un annuncio. È una cosa importante. È scomparsa la poesia. Se qualcuno sa dove si trova, se ne ha notizie, è pregato di farsi vivo. Non ha segni particolari e questo non può che essere un problema, anche perché – e c’è da stare all’erta – girano impostori che si divertono alle sue spalle (alle nostre spalle). Solo una cosa mi sento di dire: non è che se uno si veste da Napoleone allora è Napoleone».
È un’autocitazione di una cosa che ho detto sotto la doccia. Sotto la doccia mi vengono delle idee che lì per lì mi sembrano geniali. Questa cosa, oltre ad entrare in conflitto col mio lato ecologista (quanti metri cubi d’acqua consumerei per scrivere un romanzo?), mi crea non pochi problemi, come ad esempio uscire sgocciolante dal bagno e precipitarmi al computer per scrivere. Per me la doccia è come per Superman la cabina telefonica, con una fondamentale differenza: se Clark Kent fosse Superman solo nella cabina, non sarebbe di grande utilità. Certo, potrebbe fare delle telefonate eroiche. Potrebbe comporre un numero e dire: «Attenzione signora, ha lasciato il gas aperto». Ma vai a spiegare a un macchinista che il ponte è crollato e che deve fermare il treno im-me-dia-ta-men-te! Ecco, una volta uscito dalla doccia sei fregato, hai perso quella sicurezza. Sei un essere come gli altri. E prendi pure freddo, lì in accappatoio, davanti al pc.
La poesia si è inflazionata. È qualche giorno che entro ed esco dalla doccia per venire a capo di questo pensiero. Una bistecca ben cucinata non è poetica, semmai è squisita. Se una donna dopo che avete fatto l’amore ti dice «Sei stato poetico», scappa, offenditi o vedi di impegnarti di più. Se qualcuno ti vuol far credere che un abbraccio è poetico, tu ridigli pure in faccia.
Abbiamo aggettivizzato la poesia. Vediamo un paesaggio innevato o un tramonto sul mare e lo definiamo poetico, fraintendendo evidentemente il fascino con la poesia. Non è un problema marginale. Se la poesia è ovunque non è da nessuna parte. O per dirla con una legge economica: la moneta cattiva scaccia quella buona.
Qualcuno potrebbe scrollare le spalle, pensare che in un momento di crisi, in un momento dove gli imprenditori si impiccano ogni giorno, non è il caso di parlare di poesia. Ma è proprio questo il punto.
Solo in un giorno la Grecia ha perso 800 milioni di euro. La gente si è silenziosamente messa in fila ai bancomat e ha prelevato 500 € alla volta. Hanno paura che torni la dracma e che il loro denaro perda, nel giro di una notte, dal 30% al 60% in potere d’acquisto. Non ci sono state scene di panico. Inserisci la tessera, inserisci il pin e prelevi un po’ oggi, un po’ domani. La tecnologia è fredda. Il bancomat non è nemmeno stato informato della congiuntura economica sfavorevole.
La nostra risposta alla crisi è il tecnicismo. Abbiamo introdotto governi tecnici, soluzioni tecniche, riforme tecniche. Ci piace da morire la tecnica. Siamo profondamente convinti che si debba fare qualcosa di concreto: ad X corrisponderà Y e quindi, finalmente, Z. Ci piace il governo del fare. E ci piace freddo. A qualcuno (ai più) piace freddo.
Entro ed esco dalla doccia e penso che la poesia possa aiutarci. Provo ad azzardare: durante le crisi la domanda di poesia sale. Non sto parlando prettamente di mercato (la poesia costituisce un misero 5% del mercato librario), ma di esigenza intima. È un antigelo. E l’offerta a ben vedere ci sarebbe pure. Ci sono persino poeti vivi. Addirittura poeti italiani e vivi. Gabriele Frasca, Elisa Biagini, Milo De Angelis, Maria Grazia Calandrone, Andrea Inglese, Valerio Magrelli, Patrizia Cavalli. Ed è un elenco orrendamente incompleto, ovviamente.
Abbiamo bisogno di poesia, ma non sappiamo più riconoscerla.
Le azioni non sono poetiche, è l’interpretazione che ne facciamo, sono le parole che usiamo in un certo modo e non in un altro che sono, possono essere, poetiche. E non è detto che la poesia ti faccia piangere. La cipolla, se non la metti in freezer, ti fa piangere. Sempre. La poesia no.
La poesia non sta nelle cose, sta nelle relazioni. Riguarda i nostri filtri creativi, quel particolare modo con cui interpretiamo il mondo. Meglio: la poesia sta nel modo che abbiamo di spiegare le relazioni. È tradurre le relazioni in linguaggio verbale. Impresa fisiologicamente fallimentare: alchimia impossibile.
La poesia è forma. È sempre incarnata nel linguaggio, altrimenti non è nulla. E la forma in poesia è metrica. Ovvero, se vogliamo stare al dizionario, «il complesso delle leggi che regolano la composizione dei versi». Non si riduce tutto alla metrica, ma la metrica è condizione fondamentale della poesia.
Per dirla con le parole di Gabriella Sica, poetessa e docente di Letteratura italiana all’Università La Sapienza, «la poesia esiste, cioè ex-siste, quando si separa dalla morte, rinuncia alla confusione e accetta, con pietas materna, la caducità dolorosa della vita, ma anche una lingua» (Scrivere in versi, Il Saggiatore, 2003, pp. 15-16).
La poesia esiste solo quando si incarna nella lingua. Solo così rinuncia alla morte, ovvero si fa morente.
Dobbiamo accettare che anche se fuori dalla doccia siamo comuni mortali questo non è un difetto. Superman non potrà mai essere un bravo poeta. E nemmeno potrà fare molto per salvarci dalla crisi. Ci serve un atto eroico ben più arduo che fermare un treno con una mano: accettare la complessità della vita, la fitta trama di relazioni da cui è composta, il fatto che non c’è nessuna scelta X, Z, Y che possa tirarci magicamente fuori dai guai.
Ci serve un antigelo. La poesia ci serve.
Fonte: http://storiadelirantedellaletteratura.wordpress.com

[cahiers de doléances] Varagghi -3-



La visita al Cimitero, “I tre cancelli”, è una di quelle cose che sento e a cui non rinuncio quando sono qui. Credo faccia parte dell'imprinting, l'accompagnare mia madre e le mie zie sin da piccolo prima a trovare una loro sorella e i nonni, poi il loro padre, la madre... in un naturale crescendo che ormai occupa temporalmente, nei vari spostamenti tra una tomba e l'altra, gran parte della mattinata.
Ricordo che mi fermavo (come mi fermo ancora oggi) ad osservare quelle vecchie foto di sconosciuti defunti, le frasi incise sul marmo, le tracce lasciate dalla loro vita o dal loro morire. Mentre facevo questo cercavo di calcolare rapidamente, chè gli altri erano già molto avanti, la loro età al momento del trapasso e magari univo queste informazioni a qualche episodio storico che ricordavo nel tentativo di legare quelle povere vite alla storia dei libri. Credo dipenda da questo mio vaneggiare sui morti gran parte del mio modo di osservare i vivi.

Si acquistano i fiori e si osserva l'inevitabile e atteso litigio tra vigili e pubblico al nuovo ingresso:
“A verità è ca faciti passari a cu vuliti!”
“Si mittissi lei sutta u suli”
“Io l'ho visto a quello! Era da solo nella macchina!”
“Sì signora, lavorava qui!”
“Certo, travagghiunu tutti!”
La disputa è sempre la stessa, la possibilità di entrare o no con l'automobile in una città dei defunti costruita su piccole colline, fatta di scalinate e asfalto, con pochissima ombra per i vivi e temperature di fuoco sul marmo.
Lungo la strada verso il primo incontro mi accorgo di due piccoli recinti con piante e fiori. Non ci vuole molto a capire che in uno dei tanti spazi verdi abbandonati dal comune i parenti hanno costruito due piccoli giardini per garantire una vista migliore ai propri cari. Ricordo lo scorso anno, o due anni fa, una famiglia aveva posizionato una panchina in ghisa, presa chissà dove, davanti alla tomba da vegliare e fissato un gigantesco ombrellone Algida a garantirsi un po' di frescura.
Chiedo a mia madre di Fra Cristoforo, un prete conosciuto parecchi anni fa, un grande “servo di Dio” sempre pronto a dare una parola di conforto o a recitare una preghiera con i “rimasti”. Fra Cristoforo aveva una quarantina d'anni, si notava subito per un vellutato parrucchino dal colore indefinito che sotto questo sole credo gli facesse un po' da cappello e per il fisico da maratoneta necessario al suo incessante vagare. Non lo vedo da parecchi anni e mia madre mi dice che non lo vedrò mai più lì visto che altri non era che Orazio Rapisarda da tempo ricercato dalla polizia per truffa. Eppure mi dispiace. Quel finto prete faceva il suo lavoro meglio di tanti altri e di certo le offerte che raccoglieva erano ampiamente sudate.

30/08/12

[cahiers de doléances] Varagghi -2-


La sveglia è dettata dal traffico e dal caldo. La vita giù in strada, vista dalla mia stanza, è sempre la stessa: il camioncino con le granite e il rumore della campanella, il tipo con la vecchia Ritmo che viene a lavare le sue casse di pesce congelato alla fontana, il panificio con le brioche con lo zucchero, il rottweiler del meccanico. Mi concentro su quest'ultimo. Nel giro di un anno ha acquistato almeno altri tre garage rispetto a quelli che aveva. Deve rendere bene lavorare in nero e senza nessun vincolo ecologico o di prevenzione. Lo schema è semplice e sempre lo stesso, vale per lui, vale per il piccolo ambulante, vale per il grande negozio, vale per ogni impresa, io ti faccio risparmiare, ti faccio un “favore”, e tu non vedi nulla, non chiedi nulla.
Siamo furbi noi. “I catanisi su spetti”.
Ho iniziato qualche anno fa a capire il “fascismo” di mio padre, quell'errato associare ordine e destra. Questo capitalismo primitivo, la primigenia accumulazione, unito a quello ben più potente e terrifico dei padroni della città ha prodotto un totale abbandono di ogni regola sociale che non sia quella del familismo o del clan. La ricerca della complicità vince ad ogni livello, diviene legge interiore, marchio di fabbrica di una intera società. Catania con il suo giornale unico, con la sua televisione unica, con il ristretto numero dei padroni mafioso/economici, con il gioco fittissimo degli equilibri basato sulle “gentilezze”, con l'enorme sottoproletariato, è l'esempio vivo della fine non solo del sogno di uno stato “borghese” ma di ogni convivenza basata sul noi, di ogni visione che vada al di là dell'interesse personale presente. Bisognerebbe ripartire da zero, condurre la città non ad essere speciale, ma solo normale. Bisognerebbe spezzare ogni complicità, ogni cedimento. Portare la certezza del diritto, la risoluzione in tempi rapidi di ogni controversia, lì dove oggi domina la barbarie. Colpire il basso e l'alto, il piccolo e il forte, risanare risanando.
Il cane gironzola tranquillo all'interno del cortile, ogni tentativo di spiegare al suo padrone che forse non sarebbe il caso è inutile, liquami oleosi insozzano la strada lavati, in parte, dagli scarichi dell'autolavaggio riversati direttamente nei tombini. Non ho ancora visto la giornaliera passeggiata dei cavalli da corsa tirati fuori da alcuni degli edifici della zona, forse mi sono svegliato un po' tardi.  
Quando arrivo in strada osservo la “putia” abusiva che smercia birra e bustine. Il padrone ha pensato bene di impossessarsi di un piccolo spazio un tempo adibito a verde per farne il suo orticello privato. Ricordo che lo scorso anno mi aveva fatto sorridere, e imbestialire, scoprire che per diversi tempi della giornata un lunghissimo tubo di gomma collegava il suo “negozio” alla fontana pubblica; quest'anno, invece, ho visto, dopo pochi giorni, chiudere la fontana. Qualcuno ha pensato bene che fosse uno spreco offrire a tutti quell'acqua e ne ha fatto bene privato, buono per pulire le stalle e le automobili quando ancora la città dorme: basta conoscere il tombino da sollevare per chiudere la condotta a piacimento, basta solo pensare che sia giusto così.

29/08/12

[cahiers de doléances] Varagghi -1-

Si parte, picco di afa e bollino rosso, non è proprio il massimo, ma tant'è. Si parte, manuale della fabbrica e ultimi controlli all'automobile. Mi improvviso meccanico ed elettrauto per questi tempi di magra, ma dovrebbe andare tutto bene. Si parte, il colpo d'occhio è quello della famiglia anni sessanta, solo meno entusiasmo per il futuro e nessuna valigia sul tetto. Si parte, quest'anno viaggia anche il cane,  contende il poco spazio ai due figli più cresciuti rispetto all'anno precedente ed a quello prima e all'altro prima ancora. Si parte.
Niente nuova guida per i distributori del metano, una multa rimediata il giorno precedente rende indispensabile anche questo piccolo risparmio. Non dovrei comunque incontrare problemi fino alle strade della Calabria, sempre che lì si siano finalmente decisi ad aprire nuovi impianti. Le prime ore vanno via tranquille, poche soste, poca gente sulla strada, la notte a poco a poco rinfresca l'aria fino a far decidere di aprire i finestrini.  Non c'è molto da segnalare, forse un traffico meno intenso del previsto e poi le solite figure buffe agli autogrill, tra cui io in stile Bossi ad Arcore o Verdone emigrante. Poco da raccontare, comunque, forse solo una famiglia con la lei, dall'improbabile chioma bionda acconciata in ancor più improbabili treccine etniche, che osserva attenta i prodotti in vendita mentre il lui lotta con la barista.
“Un ginseng”.
“Alto o basso?” Silenzio.
“Un ginseng”.
“Alto o basso?” Silenzio.
La scena si ripete altre due volte fin quando è la barista a cedere.
“Un ginseng”.
“Tazza grande o piccola?”
“Piccola, grazie”.
Il resto della famiglia, nonni e figli, naviga tranquilla in un sovrappeso da infarto farcito da dolci e bottigliette di coca cola. Esco, il cane piscia e caca nelle aeree di sosta con eleganza per poi dormire immediatamente in auto, non me lo aspettavo e son contento.
Il mattino arriva sotto Roma, questa volta è il classico pullman da turisti mordi e fuggi e anziane signore. Una di queste ultime mi colpisce: con dignità acquista qualcosa per la nipote tenuta per mano, poco prima una sua compagna di viaggio aveva dilapidato una certa cifra in confezione maxi di dolciumi e gratta e vinci a blocchetti. Con loro anche una biondina niente male che scherza con gli autisti e un ragazzotto ben sopra i trenta che guarda un punto al di là della corriera. Qualcosa che so riesce a vedere solo lui. Ha una maglietta a righe un po' stinta che lascia scoperto l'ombelico e una sigaretta accesa da cui non aspira mai nulla. E' il punto il suo mondo, è quello che mai sapremo.
Sono stanco, i caffè sono diventati tanti, complice qualcuno gratuito di quelli notturni che non si può rifiutare, e le sigarette molte di più. Il sonno fatica ad arrivare. Ormai mi fermo quasi ad ogni stazione, non mi era mai capitato. Sarà l'età, il sovrappeso, la poca voglia.
A Villa il momento più gentile. Lei e lui hanno di certo più di settantanni. Seduti sulla panchina dell'ultimo autogrill guardano il mare. Non si sfiorano, non si parlano. Credo sia qualcosa che fanno da tempo immemorabile. Dal loro primo viaggio di ritorno. Il gelato che hanno tra le mani finisce lentamente. Raccolgono i legnetti e le carte della confezione e vanno verso la macchina tenendosi per mano. Non li ho rivisti all'imbarco e un po' mi dispiace.  Nave, arancini, mare di Sicilia, ci siamo quasi. Il primo vero traffico verso l'imbocco dell'autostrada e poi Catania.
L'ingresso in città è sempre lo stesso.
Il ghetto di Monte Po, il nuovo ospedale Garibaldi con il suo traffico di posteggiatori abusivi e disperazione vera e da commedia.
Via Palermo da sempre rigorosamente senza marciapiedi. E' qui che, dietro la mia, romba una macchinetta gialla decappottabile. Dentro sono pigiati cinque “zauddi” delle periferie. Facce contente e musica neomelodica a tutto volume canticchiata tra uno sputo e una bestemmia. 
Piazza Palestro abbandonata a se stessa e poi Via Vittorio Emanuele per un rapido sguardo verso l'accesso al magnifico e invisibile Odeon  e su Via Crociferi con i suoi tesori,  le sue storie semisconosciute.
Il centro finalmente. Eccomi. Eccoci.
Doccia e poi subito un paio di birre per farmi coraggio. Gli amici al chiosco prima della pizza. Forse riuscirò a dormire, voglio farcela. Si decide per Aci Castello, sono anni che non vado lì, credo sia stato un modo per salvarne la memoria, per ricordare me ragazzo in una città che non c'è più. Non mi sbaglio purtroppo. Tavoli, tavolini, veline sedicenni e brutte copie di ex tronisti televisivi. Anche le famiglie non mi sembrano più le stesse, artificiali come la gioia qui intorno. Sulla strada verso l'antico borgo marinaro un recente parco giochi già abbondantemente vandalizzato. Sul muretto campeggia una scritta a caratteri cubitali: W LU PACCHIU”.
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