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30/12/14

25/12/14

"Conosco appena le mani" di Vittorio Bodini

Conosco appena le mani,
le scarpe che metto ai piedi.
Conosco il giorno e la notte
e i terrori del vento.
Ma gli anni? Dove son gli anni,
e tutti i libri che ho letto?
I volti amati si sfrondano
delle loro vicende,
non restano che i nomi.
Tutto nella memoria
cade a pezzi, sprofonda
senza rumore
nelle botole dei morti.
Ah, dove sono le acute presenze
del passato, le sue calde forme,
la cera su cui incidevano
i miei sentimenti?
Dove si nasconde il senso
delle cose che ho vissuto,
e i brividi lucenti
e i cieli dell’avventura?

Vittorio Bodini da “Metamor”, Scheiwiller, 1967

Fonte: http://poesiainrete.wordpress.com

14/12/14

Natale, credo


            «Natale, credo, scada il bollino blu
              del motorino, il canone URAR TV,
              poi l'ICI e in piú il secondo
             acconto IRPEF - o era INRI?
            La password, il codice utente, PIN e PUK
            sono le nostre dolcissime metastasi.
           Ciò è bene, perché io amo i contributi,
            l'anestesia, l'anagrafe telematica,
           ma sento che qualcosa è andato perso
           e insieme che il dolore mi è rimasto
           mentre mi prende acuta nostalgia
           per una forma di vita estinta: la mia».
                                                        Valerio Magrelli

19/11/14

Postura y amor




"Talia ammia! Al momento di pattiri il destro è miso arreri e poi avanza comu su issi a fari una carizza. Solo dopo poi moviri il sinistro a farici compagnia che intanto la fimmina ti ha seguito allo specchio"
Il maestro ci sta finnenu la pacienzia.
Nenti da fare. E' troppo difficile. Cascai già quattru voti e dui invece ci acchianai supra i peri a me fimmina che Cuncittina ormai ciavi sulu vogghia di chiangiri.
Lei non lo fa però. E io ci soffro tanto. Chiossai ca su lu facissi. Perchè ci tiene tanto purazza. Che io lo saccio. Che mi ha convinto e non si vuole tirare indietro. Macari su si viri che sono un disastro.
Il fatto è che certo ammia mi piaci la musica. Mi piaci la danza. Ma sulu ad ascutarla e a virilla che altro lo sapevo già che non ero capace.
Ma Cuncittina! Cuncittina non ci potevo dire di no. Io sulu a taliarla avvolu.
Ecco è chista la verità.
Però ora lunica cosa ca sentu sono le sue minne appoggiate al mio petto e il suo respiro macari e non capisciu chiù nenti. Non sacciu chiù nenti.
Cheppoi ci sono tutti questi nomi tipo Baldosa oppue Ocho e i numeri macari che devo stare attento al due al cinque e all'otto che a mia mi pari di stare alla tombola invece che nella sala e mi cunfunnu.
Cuncettina finalmente ci rinuncia e niscemu fora e io non lo so cosa dire che lo so che lei c'è rimasta male. Tunnamu a casa in silenzio e poi lei si chiuri nella stanza che dice che ci fa mali a testa.
Io Cuncittina la conosco da due mesi.
E' stato ca chiuveva e lei era ferma alla fermata e io ci ho detto se voleva farimi compagnia sotto all'ombrello che lei non celaveva e io invece me ne ero portato dietro uno ca pareva ca vinneva frutta a fera. Lei ha accettato che sarà ca ci passi inoffensivo con la mia panza e la faccia di picciriddu. Fu accussì che accuminciamu a parrari. E passau lautobussu e poi unaltro e unaltro ancora e poi lei mi vasau che io non ci sarei riuscito mai a farici questa scortesia. Insomma dopo una simana ci rissi su vuleva veniri a me casa e abbiamo iniziato a stari insieme che non lho provata mai una felicità più bella.
Mi preparo un panino e massetto sul divano e dopo addumo la musica che mancu a farlo apposta parte una cumparsita.
Ti amo Cuncittina. Ti amo. E i piedi partono da soli e il panino abballa con me anche se non ce lha il tuo profumo. Mi furiu e chiudo locchi e cuntu i passi. Una vota e unaltra volta ancora.
Poi trovo le sue mani. A so iamma tra le mie. E locchi si rapunu di nuovo e il cuore. Macari.

17/11/14

Parole

Cadono silenziose,
chissà quanto impiegheranno a coprire il viale.

Qualcosa, qualcuno, a tratti
pare volerle sollevare
(una bici in corsa, tu, il cieco
suono di un segnale stradale).

Volano via, allora,
quasi fossero lucidi ciottoli
sul mare.

Attendo che tutto passi.
Chissà quanto, chissà quanto
a coprire il viale.


16/11/14

13/10/14

06/10/14

Apologia di fascismo

Non siamo pronti, non siamo pronti all'intelligenza. Urla, distruggi, riduci tutto in macchietta ma non appellarti mai all'intelligenza... saresti accusato di apologia di fascismo.






ps.  http://madonnaliberaprofessionista.tumblr.com/  libero :-)

ps2. http://www.ecodibergamo.it/stories/Cronaca/piu-di-150-sentinelle-in-piediil-fuoriprogramma-e-un-nazista

30/09/14

Cento di questi giorni (8 di 98+2)

Mu ricissi. Mi ricissi perchè macari su sapissi qualche cose io ce la dovrei dire a lei.
Ciaiu novantanni. Chiffà? Mabbia no carcere?
Virissi maresciallo lei è una brava persona e io ci credo che è solo preoccupato per Ciccio. Che ci può essere successo qualche cosa. Che macari ummazzanu. O che si misi nei vai.
Ma viri... iu non ci ricissi nenti u stissu picchì è chiu fotti di mia questa cosa. Iu di lei di quella divisa che porta non mi fido. E su sapissi che Ciccio ciavi problemi u issi a cercare di persona pittosto che chiedere aiuto a lei. E lei u sapi ca u facissi che di sicuro ci sono tutte le mie carte no so ufficio.
Comu sapi che mi fanu schifu tutti sti carusazzi ca si crirunu mafiusi sti picciottazzi senza arucazioni senza idee senza morale senza sogni che arrobbano e ammazzano. Che pensano solo alla munita.
Io ai loro nonni li ho sfidati sputannuci nella faccia. Ai loro padroni ciò preso la mia terra. Ai loro capi ci luvai i soddi che avevano arrubbato ai poveri cristi per dividerli a tutti. E in cambio cosa ho avuto? Cosa ho avuto dallo stato? Cosa ho avuto da quelli come a lei? Una para di anni di carcere e due firme di sirraccu nella panza. Ecco quello che mi hanno dato. Che mi avete dato.
Ma li rifacissi tutti questi cosi u sapi? Tutti i facissi!
E certo macari avvisassi a tutti lautri ca mossunu ammazzati ai tempi miei.
Ci ricissi: "Attenti carusi che i mafiusi e i padroni ci ammazzano! Caminamo insemula a evitare vai. E tu Angelo non ci iri allappuntamento con quel massaro che quella è una trappola. E tu Alfio lassala stari a quella famigghia che ti hanno venduto. E voi Marcella e Iano e Turi e Vito fate attenzione alla manifestazione! Pronti a scappare! Cè ancora tempo per lottare. Per cambiarlo a stu munnu. "
Ecco viri maresciallo alli voti non è la persona a cuntari. E' quello che rappresenta. E' la sua divisa. E iu ci ricu che la sua e quelle altre divise degli amici suoi assumigghia troppo assai a quelle giacche di chi ci vuole affamati. Di chi ci vuole schiavi.

29/09/14

27/09/14

Cento di questi giorni (7 di 98+2)

Allora! Ciù ricu iu unni è Ciccio! Pattiu! Sinni iu! Comu? Dove? E chistu non è facili sapirlu. Dipende da cristianu a cristinu. Però vinissi! Sassittassi! A voli una birra?
Ammia mi piaci chiossai u vinu ma non cinnè chiù di putie che le hanno chiuse tutte. E menumali ca rapiu stu garagi lamico mè che annunca dovevo rimanere a casa sulu.
Era di una vecchia u sapi? U garagi dico. Mossi lannu scorso questa vecchia che di eredi non cenerano e allora Cosimo scassau a sirratura e ci fici un posto per lamici.
Comu? Non è legale? Ma non mi facissi arririri! Ah certo! Lei è la legge!
Vabbene annuca. Facemu accussì. Lei facissi finta che io non ci ho detto nenti. Tanto oggi non ciavi mancu a divisa. Chiffici sa scurdau? No. No. Non mi pimmittissi mai maresciallo. Io li rispetto a tutti quelli che travagghiano. Macari ca non fanu nenti. Macari ca si futtunu i soldi do pattruni. E u sapi picchì? Picchì già lidea che uno deve travagghiare ammia mi fa senso. Mi runa fastidio. Mi fa sentiri mali.
Ma ricu iu con tante cose che ci arrialaiu u signuruzzu... con tante capacità che la genti ciavi... picchi uno si deve condannare a un travagghiu? Dove sta scritta  questa pena? Dovè la sentenza?
Ecco per come la vedo io maresciallo bastassi ca uno facissi quello che gli piace fare. Bastassi chistu a questo mondo. E poi arrialari quello che si è fatto. Non tinirisi nenti se non quello che aggiova veramente. Solo quello e basta. Perchè lei maresciallo lo ha mai visto il sorriso delle persone quando ricevono qualche cosa che non si aspettano? Come sono contenti? E in quel momento io penso che uno riceve chiù soldi di uno uno stipendio. La cuntintizza ecco! La vogghia di continuare a vivere.
Ce lo dico in verità maresciallo. Io non ci credo che cè gente che non ci piace fari nenti. A genti senza fari nenti dopo tannicchhia si ietta do balcuni. Invece è vero che ognuno ciavi il proprio talento. E allura picchì non approffittarne?
Sì capace di puliziari i cessi ca parunu specchi? Di parrari ca facissi accattari di tutto alla gente? Di coltivare il giardino ca ti veni fora ogni grazia di Dio? Lava macari lautri annunca. Cunta storie magnifiche per fare sognare a tutti . Riala pummaroru e insalate a cu ti veni a truvari. Chistu fussi veramente travagghiari.
Lei non mi sta seguendo più maresciallo. Chiffù la birra? Ciccio. Ciccio. Sempre a pinsari a Ciccio!
U lassassi peddiri. Ciù ricu iu. Pattiu. Sinni iu.
Macari iu pattu certe volte. E minni vaiu in posti bellissimi oppure allinferno che forse non ce nè differenza. Macari iu ci ricu.
A lei non ci capita mai? E' proprio sfortunato allura maresciallo. Ciu ricu iu. U sacciu.

25/09/14

24/09/14

"Perché la semplicità è così complicata?" di Annamaria Testa

“Il mondo degli affari deve combattere una persistente battaglia contro la burocrazia”, scrive l’Economist. E aggiunge che “la cianfrusaglia più debilitante è la complessità organizzativa”.
Ma, almeno, e come dice Tullio De Mauro in Capire le parole, fin dai tempi di John Locke la cultura anglosassone, inglese e americana, si è impegnata in una battaglia per la limpidezza e la chiarezza dei testi come valore supremo dell’arte dello scrivere e del parlare.
Se dalle pagine dell’Economist si leva un severo brontolio d’insofferenza per la complessità inutile dei processi aziendali, qui da noi le proteste contro ciò che è complicato sono ormai diffuse sui tutti i mezzi di comunicazione, rete compresa. Sono assai più veementi e riguardano sia i modi di fare, sia i modi di dire.
Cresce l’irritazione per le procedure inutili, insensate e spesso opache che continuano a vessare i cittadini e ad azzoppare la pubblica amministrazione (e, di conseguenza, a danneggiare anche quelle imprese che, con le procedure inutili, non si azzoppano da sole).
Ma cresce anche il fastidio nei confronti dell’insopprimibile mania nazionale di parlare astratto e complicato: burocratese, pedagoghese, medichese, giuridichese, sindacalese… a cui si associa il più recente itanglese: un vezzo linguistico che si estende a più settori (marketing, politica, tecnologia, moda e altri), e che permette di velare di echi esotici e arcani qualsiasi gesto, concetto o oggetto, compresi i più quotidiani. E se poi la traduzione è imprecisa, pazienza.
Il filosofo Massimo Baldini, in Elogio dell’oscurità e della chiarezza (qui ampi estratti del testo) tira in ballo perfino il difficilese. Cioè la scelta di parlare oscuro “per puro terrorismo linguistico”. Un comportamento da vere carogne, in un paese che (è ancora Tullio De Mauro a dirlo) ha alte, anche se per fortuna decrescenti, percentuali  di analfabetismo  primario, di ritorno e funzionale.
Aggiungo solo che il parlare e lo scrivere difficile non risparmia neppure il parlamento italiano (Ichino: il parlamento vota leggi che i suoi membri non capiscono).
Ma perché la semplicità sembra così difficile da ottenere?
Essere semplici è faticoso. Per riuscire a parlare e a scrivere semplice bisogna conoscere bene l’argomento. Bisogna saper usare bene la lingua italiana, sfruttandone tutte le risorse. C’è da investire tempo, attenzione, una dose di talento. Bisogna anche avere un’idea chiara di quello che si sta dicendo, del perché e del per chi: una faticaccia che molti scelgono di risparmiarsi.
Per mettere a punto procedure semplici bisogna aver chiari vincoli, necessità e obiettivi e maturare una visione d’insieme che metta a confronto costi (tempo compreso) e valore dei risultati.
Bisogna sperimentare ed essere disposti a fare aggiustamenti. Bisogna mettersi nei panni di chi dovrebbe poi seguirle, quelle procedure. Bisogna avere l’umiltà necessaria per andare a scovare esempi virtuosi dovunque siano, per studiarli, adattarli e poi metterli in pratica. Altra faticaccia.
Essere semplici è pericoloso. Se un testo è semplice e tutti lo capiscono, diventa possibile per chiunque fare obiezioni. E poi: denunciare una semplice sciocchezza è più facile che intercettare un’oscura sciocchezza. E ancora: molte parole complicate tendono una bella rete mimetica sull’assenza di pensiero o di progetto.
Essere oscuri, dunque, è un fantastico modo per disincentivare critiche, per sottrarsi a ogni giudizio, per nascondere la propria incompetenza o per sancire e amplificare la propria competenza, per preservare la propria autorità inducendo in chi non riesce a capire sentimenti di frustrazione, di soggezione e di  inadeguatezza.
Risultati analoghi si ottengono, se parliamo di procedure, moltiplicando all’infinito gli adempimenti, e con questi gli oneri e le attese necessarie a compilare moduli, a collezionare timbri, ricevute e altre misteriose scartoffie (leggete questo bel post di Luisa Carrada). Con un vantaggio in più: la legittimazione e il presidio dell’esistenza stessa dell’apparato che genera la procedura, e del suo opaco potere.
Essere semplici vuol dire prendersi delle responsabilità. Sto parlando di molte, pesanti responsabilità: quella di scegliere che cosa è importante e che cosa non lo è.  Quella di dar conto delle proprie scelte, motivandole. Quella di investire tempo, energia e intelligenza per tradurre e spiegare ciò che non può essere semplificato, perché non è vero che tutto è potenzialmente semplice. E poi c’è la responsabilità più gravosa di tutte: quella di elaborare pensieri chiari e distinti, ipotesi plausibili, soluzioni efficaci e strategie fondate.
Per quanto riguarda le procedure: progettare percorsi semplici chiede di passare dalla logica dell’adempimento rituale a quella dell’obiettivo reale. La qual cosa implica l’onere di definire obiettivi chiari, distinti, utili e verificabili: un’altra responsabilità che molti faticano ad accollarsi.
Eppure.
Eppure in questi tempi caotici, sovraccarichi di informazioni e scarsi di prospettive, essere semplici (occhio: “semplice” non vuol dire né sempliciotto né facilone) è, credo, un imperativo. Per questo stiamo tutti diventando così insofferenti nei confronti della complessità inutile. Solo affrontando la fatica, il pericolo, la responsabilità e la sfida di essere semplici c’è la speranza di restituire un senso forte e condiviso a quello che si dice e a quello che si fa.

Fonte: Nuovo e Utile - Teorie e pratiche della creatività

23/09/14

Cento di questi giorni (6 di 98+2)

Mi scusi maresciallo ma lei comè ca vinni di mia? Ciù cuntanu vero? Ci rissunu ca eravamo ziti di nichi! E certo! Tutti sanno i fatti dillautri in questo quartiere. Ma io non ce ne ho di cose dammucciari. Io sono stata sempre onesta. Macari a me maritu ce la cuntai questa storia. Macari a  iddu che non se la meritava di sicuro tutta questa onestà. Cheppoi chiccè di cuntari?
Io ciavevo quattordici anni. Uno chiossai di di Ciccio. E u sapi comè a quell'età ma lunica cosa ca successi fu ca nabbuzzamu tannicchia. Sì insomma ca ni vasamu.
Per noi era la prima volta o almeno accussì sapevo di mia e pinsai di iddu.
Fu nel cortile della scuola che cera la ricreazione. Mia madre non mi faceva nesciri mai di casa sula e allora non ce ne erano altre di occasioni. Io ce lavevo detto alla mia amica Letizia che Ciccio mi voleva zita e che io ci avevo detto di sì e allora quella organizzò questa cosa che tutte le fimmine della classe si misero in cerchio attorno a noi. Io allinizio pensavo che era uno scherzo e mi stava incazzannu e invece Letizia si avvicinò a me e mi disse nellorecchio:" Vasalu! Vasalu presto che non ce ne è assai di tempo". E accussì fu.
La pigghiai io liniziativa cheCiccio pareva addumisciutu allinizio. Solo che dopo invece non si vuleva chiù staccari e le mani erano già arrivate dove non dovevano essere.
Ricordo che quando le mie compagne tornarono a giocare io e lui arristamu fermi e muti come a due passuluni. Tutti russi nella faccia che non ci guardavamo nemmeno e che non riuscivamo a dire una parola. Ma io lo sapevo che ci era piaciuto che lavevo sentito.
Dopo non è più successo chiù nenti e quello del cortile è stato tutto lo zitamento. Ma questo ce lavevano già cuntato vero maresciallo? Perchè se non è accussì io allora non lo capisco perchè lei vinni di mia  che io i lassai quellanno le scuole  e dopo lesami con Ciccio ci siamo persi di vista che lanno dopo iu mi maritai che avevo fatto la fuitina e cangiai macari quarteri.
Ma forse lei vuleva viriri a me figghiu u ranni. Ora ci penso!
E sì! Quannu tunnai a stari cui me figghi lanno scorso vicinu a so casa Ciccio marricanusciu subito. Neanche io feci fatica che lui era rimasto lo stesso nella facci.
Me figghiu ci ieva o spissu a so casa ma non ce lo saccio dire preciso perchè. Io ce lho chiesto che è capitato ma lui mi ha risposto solo che erano cose di travagghiu.
U sapi me figghiu macari che è disoccupato sapi fari tutto ca unni u toccunu sona. Lelettricista. U stagninu. U mastru. Io penso che ci ieva per questo. A farici le riparazioni. Ma altro non ci so dire.
Ormai è ranni il mio Nicola. Nasciu subito a prima botta che lautra invece a fimminedda vinni dopo tanti anni. No. Ora non cè. Partiu a Milano che so ziu u frati di me maritu ciavi una ditta dassupra. Macari fussi! U travagghiu ricu! Ca no pozzu viriri chiù che manu leggi.
Ora è qualche giorno che mi disse che ciarrubbanu il telefonino e non lo sento. Però sugnu tranquilla che le notizie delle disgrazie arrivano subito e poi non è sulu nel continente.
Certo. Certo! Non si preoccupi che ce lo dico. Appena ni sintemu. Certo. Che lei ci voli parrari.  

Cento di questi giorni (5 di 98+2)

Senta... io già glielò detto! U canusceva accussì! Come a tanti.
Iu mi fazzu u me travagghiu che non ce ne ho tempo di perdere per le amicizie.
Cà staiu!
Aviri sta machina? Ciaia smuntari tuttu u muturi. Oggi. Si squagghiau a tistata. E' inutile pirdirici tempo per ripararla. Perciò u smuntu e poi chiuru e nesciu per vedere se trovo un motore ne sfasciacarrozzi.  U sapi picchì?  Picchi sugnu sulu a travagghiari che annunca non si mangia. Picchì il cliente e chiù morto di fami di mia e soldi non cinnavi per una machina nova. Mancu di secunna manu. Picchì ammia macari du picca mi sevvi.
Chimminnifutti ammia di Ciccio? Ci pari ca ciaiu tempo di fimmarimi a parrari con qualcuno? Con lei?
Ciccio era un cliente come a tutti e anzi ci ricu che ammia mi piaceva picchì parrava picca e si fidava. Non ne faceva storie. Che da quanto non ne furia chiù munita tutti invece cianno sempre da ridire e non ci va mai bene niente a nessuno.
Ecco chistu è tutto quello che saccio! Cuntentu? Ora ni putemu salutari? Ma scusari se non ci dò la mano ma è tutta lodda di rassu e non vulissi ca vossignoria salluddassi.
Buongiorno allora! Buongiorno!

18/09/14

Cento di questi giorni (4 di 98+2)

Sintissi. Ce lo giuro! Io non lascuto la gente quando parra a matula. Non lascuto a queste quattro sparrittere sempre pronte a farisi i cazzi di lautri. Io ai cristiani li talio nella facci e parru su aiu di che parrari.
Certo di Ciccio se ne dicono cose. Macari assai.
Lei ad esempio u sapi che una vota u vistunu che sarritirava a casa con un sacco pisanti come a quello di Babbo Natale? Ciaveva macari a vavva finta mi rissuno. E cè stato chi mi ha giurato che dal sacco si sintevano lamenti come di un cristiano. Ma iu non ci pozzu cririri! Saranno state minchiate di sicuro!
Come a quella ca si puttau a casa tri fimmini e la Criscenti quella che abita sutta a so casa che suo marito ci fa le corna con linfermiera del primo piano mi cuntau che tutta la notte non potti rommiri che quelli parevano impazziti. Che facevano versi strani e ittavunu vuci che non ci voleva tanta fantasia a capiri chi stava succirennu.
Io a Ciccio invece u canusciu per persona seria che ni salutamu sempri e mi pari arucatu e gentile. E capissi ammia! Comu pozzu cririri a quello che mi disse una vota Ianu u carritteri? Come posso credere che Ciccio ci futtiu una intera scatola di robba mentre quello si era allontanato un attimo per pisciare e ci aveva chiesto la cortesia di darici un occhio alla bancarella? Non non può essere vero! Su tutti malelingue! Che di una muddichedda fanno pranzo e cena e ci iettunu fango sopra alle persone.
E comunque io lho visto che può avere una simana e lui era vistuto a festa. No. No sacciu picchì.
La signorina Nunzia quella che non si è mai maritata ca riciunu che ci piacciono le fimmine disse che era pecchè doveva fare da testimone a un suo amico. A lei ce laveva detto Nicola u caccagnusu che lui lo conosceva a quel cristiano che si doveva maritare. Ma non ci posso mettere la mano sul fuoco. Cioè non lo so se è vero. Eppoi ammia quel giorno mi salutau soltanto senza dire niente che io non lho mai sentito parlare. E io ci ricambiai il saluto che è buona educazione.
Insomma non sacciu nenti iu. Ma mi ricissi lei sapi qualcosa? Cioè chi succiriu? Magari su mi cunta qualche cosa io la posso aiutare meglio. Chinni pensa?

15/09/14

Cento di questi giorni (3 di 98+2)

E certo che lo conosco a Ciccio! Abbiamo fatto le prime classi insieme eppoi anche dopo quannu criscemu tannicchia tutti i pomeriggi a pallone che non cera altro gioco per noi.
Lui faceva il terzino. Era un poco scassiteddu però ci mitteva impegno.
Una vota mi ricordo che era una partita importante con i carusi dellaltra via che di solito si iucava solo a pietrate e quelli erano partiti in contropiede.
Io ci ittai una vuci che ero ancora allattacco:
"Fermalo! Ciccio fermalo!"
Lui tagghiau il campo che allepoca era il più veloce di tutti e si ittau addosso a quel povero carusiddu con tutte e due le iamme in scivolata che quello si sminnittiau tutto andando a cadere in mezzo alla sciara vicino al campo. Ciccio si susiu come se non era successo nenti.
Mi taliava e taliava a chiddu e allargava le braccia come per dire "Chi putava fari?"
Insieme allaltri compagni u ficimu scappari prima che quelli sincarognivano che di sicuro sarebbe finita a coppa e forse era meglio che no.
Ma u stati ciccannu? No! Io avi assai che non lo vedo.
Certo a me casa e vicino alla sua. Proprio il palazzo di fronte.  Ma u sapi comè ognuno ciavi i propri orari. I propri impegni.
Iu mi susu ogni giorno alle cinque per arrivare fino al mercato che prima cè da pigghiari la robba al magazzino e poi muntari u postu e sistemari ogni cosa. Insomma non mi lamento però picchì ancora si campa macari ca cè a crisi e sti cazzu di cinisi ca si pigghianu tutta a fera che fanno i prezzi che vogliono.
Appoi quannu finisciu marritiru ca ciaiu lussa rutti e minnistaiu davanti alla televisioni cu me mugghieri e i me figghi.
Ciccio no. Iddu non si maritau mi pari. Certo i fimmini ci piacevunu proprio assai. Sarà stato pi chistu che non si decidiu. Iddu li considerava tutte un rialu di Dio e di certo non voleva fare il torto a nessuna scegliendone una sola.
Io la mia invece la canuscii che vineva ogni giorno ad accattarisi un paru di mutanni novi na me bancarella. Accussì una vota volli vedere come ci stavano e ci scappau Samantha a chiu ranni. Poi arrivarono Gionni e Margarett e Maicol macari. Due a due e palla al centro che per fortuna ni fimmamu per ora.
Ora che ricordo quannu nasciu lultimo Ciccio marrialau una scatola di sugarri che lui dice che venivano da Cuba. "Un posto meraviglioso" mi disse "Il paradiso".
Io però non lho mai consumati tutti che addumai il primo e stavo per vomitare. Ma questo non ce lho mai detto a lui che magari si offende.   

14/09/14

Cento di questi giorni (2 di 98+2)

Cui? Il signor Ciccio? Picchì? Ci succiriu qualcosa? Purazzu! Mi ricissi tutto! Ah bedda matri! Chiffà non parra? Un incidente? Ummazzanu? Maronna santissima!
Iu avi quasi sei misi che non lo vedo.
Eravamu quasi frati e soru u sapi? E' che criscemu insemula macari ca iu sugnu chiu vecchia. Sua madre lo lasciava sempre a casa nostra che lei purazza travagghiava a causa del marito che ci mossi giovani. Una disgrazia. Quello faceva il posteggiatore ma ciacchiananu di supra una notte che cera scuro e nuddu visti nenti. Lei invece la madre stirava i robbi nelle case che forse per quello sera rovinata tutte le mani.
Prima di moriri non ciarrinisceva mancu a rapiri una porta purazza.
Ciaveva sofferto assai Cicciuzzu per quella santa donna che laveva seguita fino allultimo giorno quannu una decina di anni fa cascau malata. Fu una cosa di una para di misi. Ecco le dicevo che u picciriddu stava assai nella nostra casa. Certo sò matri non era proprio il ritratto della simpatia che a causa del lutto e degli stenti si era inacidita assai ma Ciccio... Ciccio era un amore. Beddu. Giniusu. Era curioso di tutto.
Mi ricordo che furiava tutta la casa e poi vineva di mia che ci piaceva che io ci inventavo le storie. Cose di niente che a quel tempo la fantasia non mi mancava e mancu le paroli a dire il vero. Lui sassittava sopra alle mie ginocchia e ascutava in silenzio e alli voti faceva tante domande e altre invece saddummisceva che io allora lo stringevo e lo vasavo in testa leggera leggera che mi piaceva il ciauro dei suoi capelli.
E' stato così che siamo crisciuti. E anche dopo quando Ciccio andava alle scuole  lui passava chiù tempo alla casa nostra che alla sua.
Ma picchì voli sapiri queste cose? Ci succiriu qualcosa? Mu ricissi maresciallo. Fici qualcosa di male? E picchì lei vinni di mia?
Io lultima volta che lho visto ciaveva una fimmina vicino. Bellissima. Tutta elegante e sicca e longa. Una vera signora. Parrava come a quelle della telivisioni che certo lho capito che non era di qua. Ciccio me la presentò tutto contento che però il nome non me lo ricordo. Lui mentre eravamo insieme che mi offrì un caffè ci raccontò delle mie storie e ci disse che io ero stata il suo scrittore preferito. Lei sorrideva e mi taliava tutta attenta. Non mi passi una tinta. No. Niente altro maresciallo.
Ricordo solo che quando loro si sono allontanati lui se lè stretta vicino e ci ha messo una mano nel culo sopra alla gonna leggera mentre lei lo guardava tutta contenta. Credo che fosse innamorata. E macari iddu a dire il vero. 
Ah! Mi ricordo macari il profumo di lei. Un ciauro come a quelli dellindiani. Un ciauro pieno e forte. Di peccato.

11/09/14

Cento di questi giorni (1 di 98+2)



Io ci ho fatto anche il tema sul Signor Ciccio che la maestra voleva che noi dovevamo parlare del nostro vicino di casa.
Io però sono stata sfortunata! No come altri miei compagni!
Il fatto è che del Signor Ciccio non si poteva dire assai e accussì scrissi che lui non era ne iautu ne cuttu e mancu ponchio a dire il vero. Oppure siccu.
Anche i capelli il Signor Ciccio ce li aveva indecisi. Il colore prima di tutto. Tannicchia erana niuri e altri grigi e altri ancora ianchi come la luna. E non erano poi tutti i stissi che di lato aumentavano ma solo a sinistra che a destra ciaveva una specie di puttusu come a uno che si è fatto una operazione. 
Lui poi si visteva sempre allo stesso modo che si vedeva che le cose se le accattava nella bancarella della fera. Mamma dice che laveva visto a cercare nelle cose dellusato ma anche a mia ogni tanto mi piace che una volta ciaccattai una cammisa che tutte le compagne me la invidiavano tanto era bella.
I pantaloni erano quelli dei vecchi e poi ci piacevano le polo a strisce che i colori erano tutti sbiaditi.
Destate poi ciaveva i scappi dei monaci che si vede il piede mentre dinverno portava solopolacchini marroni  con la suola di plastica gialla.
Ve lho detto che sono stata sfortunata. Cosa altro ci potevo aggiungere che già quello con il fisico e labbigliamento io avevo fatto mezzo tema. Marristavano un episodio e la conclusione che la maestra ci aveva detto di fare così. E io cosa potevo scrivere?
Allora ci ho raccontato questa cosa che ora la racconto anche a voi. Era stato destate che io ero chiù nica e ciavevo le bottiglie di acqua da riempire alla fontana e lui mi ha aiutato e poi li ha portate fino a casa che lascensore non funzionava e allora erano pesanti. E' stato gentile. Ricordo che mi ha fatto anche un sorriso quella volta ma poi gli ho sentito dire solo "buongiorno" e "buonasera" a mia madre e "ciao" a me che altro non aggiungeva.
Ah no! Una volta mi ha anche guardato male. Ma io avevo fatto la tosta che correvo nel pianerottolo e allora ciavevo sbattutto addosso davanti alla porta di casa.
A lui cera caduto un pacchettino che ciaveva nelle mani e subito però laveva ripreso come una cosa preziosa e poi maveva taliato male. Ma è stato solo quella volta là dico.
Insomma il Signor Ciccio era una persona gentile se uno non ci scassava la minchia. Almeno così penso.

28/07/14

Quanto stimu a vista i l'Ognina

Etna - 28 novembre 2013 (1)
Una veduta dell'eruzione dell'Etna fotografata dalla piazzetta sopra il porticciolo di Ognina, a Catania.
Foto di Mirko Chessari


Tra poco si parte.
Certo potrei continuare a scrivere e postare  anche da "fuori" e magari lo farò, chissà.
Ieri ho dato un'occhiata ai miei vecchi invii. Ci sono un numero considerevole di storie da finire, altre da rileggere, qualcuna da cancellare: ecco, se potessi dedicarmi solo alla scrittura mi piacerebbe poterlo fare, ma forse sono solo scuse (il tempo e la vita, dico) così come sostiene un amico e la verità magari è non averci mai creduto pienamente, non essersi mai messo in gioco (non me ne vogliano quelli di Tapirulan, ma non amo i concorsi tranne il loro, e dopo aver atteso, tantissimi anni fa, Sellerio e creduto, per un paio di mesi, di avercela fatta non ho mai ritentato con altre case editrici) oppure, più semplicemente, è solo non avere talento.
Certo, e allora?   Estiqaatsi direbbe il grande capo.
Allora nulla, arrivederci :-)

21/07/14

In cucina un mago fa apparire mille viaggiatori - 10 - fine


Quannu si mettunu nella machina pi tunnari a casa sono stanchi.
Ognuno è come dentro ai propri pinseri. E cè chi è contento. Chi è triste. Cu pensa alle vacanze che finiscono. Cu vulissi solo lamore. Chi si sente sola.
Isauro ciavi la testa appoggiata al finestrino. Lassa che le cose scorrono veloci e cerca di non metterli a fuoco. Era un gioco che faceva anche da picciriddo. Si sforzava di chianciri e poi non sasciugava locchi e tutto addivintava misterioso come nelle favole. Che quando le cose sono poco chiare possono essere qualunque cosa unu voli.
Si fa lassari a casa e li saluta. Ora non lo sa proprio se ha voglia di vederli ancora. Cheppoi non la sa spiegare questa cosa. Non è per loro. Anzi.
E' cumu se in pochi giorni il mondo lo avissi messo alla prova. Vuole solo riflettere. Decidere.
Acchiana a casa e saluta a sua madre e ci fa un sorriso macari che non succedeva da tempo.
"Tutto bene?"
"Si o ma'! Tutto a posto. E tu?"
"Nenti. Sempri a stissa. Ti va un piatto di pasta?"
I due sassettano e mangiano in silenzio. Ogni tanto susunu la testa del piatto per taliarsi.  Niente televisione stasera. Non cè bisogno del mondo là fuori.
"Senti chiffà? Vegnu cuttia dumani? Ti rugnu una mano cu i sicchi dacqua"
Michela lo talia sorpresa. Ma sorpresa non è la parola giusta che tannicchia se lo aspettava oppure lo desiderava solo.
"Certo! Suvvoi!"
"Sì!"
Isauro si susi e sparecchia poi si furia di scatto.
"Ma cuttutti i nomi ca cerano proprio quello di una schiava mava mettiri?" addumanna.
"Sì! Ma quella è ribelle e addiventa libera" ci risponde sua madre.

20/07/14

Commemorazioni


“In una sentenza definitiva della Corte di Cassazione è accertato che un partito politico, divenuto forza di governo nel 1994, ha poco prima annoverato tra i suoi ideatori e fondatori un soggetto da molto tempo colluso con gli esponenti di vertice di Cosa Nostra e che da molti anni fungeva da intermediario consapevole dei loro rapporti con l’imprenditore milanese che di quel partito politico divenne, fin da subito, esponente apicale. Oggi questo esponente politico (dopo essere stato a sua volta definitivamente condannato per altri gravi reati), discute con il Presidente del Consiglio in carica di riformare la legge elettorale e quella costituzione alla quale Paolo Borsellino aveva giurato quella fedeltà che ha osservato fino all’ultimo suo respiro”.

17/07/14

Al supermercato il cane mi regala due frittelle - 9 -


La sveglia è prestissimo che Isauro quasi fatica macari a lavarisi la facci. Quannu arriva allappuntamento gli altri lo taliano che lui lo capisce che qualche cosa non funziona. Ma non lo sa che cosa è.
"Non cillavevi i scappi?" ci spia Margherita.
"E chisti chissù?" ciarrispunni lui mostrando le scarpette. Belle. Novinovi. Superga. Tutte ianche. Futtute in offerta al supermercato. Una cosa facile.Senza rischi.
Nel frattempo però la carusa è sparita. Torna subito dopo che nelle mani cià le scarpe giuste.
"Queste dovrebbero andare bene" ci dice guardandoci i peri con attenzione.
Isauro se le mette senza ciatare che ci stanno subito comode e ora è pronto.
La strada è longa. Si è messo dietro al sedile dellautista che è Iano e Grazia è vicino a lui. Oggi pari più tranquilla la carusa. Anche Celestina che è misa davanti pari chiù cheta. Solo parla e parla che secondo lui Iano mancu lascuta. Margherita invece ci indica a tutti la strada e le vie giuste. Iano sempre ubbidisce che si vede che la carusa è pratica.
Isauro per un po' resiste ma poi chiuri locchi e saddumisci. E sogna macari che però dopo non ce lo racconta a loro che non è il caso ma insomma era una cosa di quelle storie come nei film vietati.
Quando si sveglia la machina è leggia. Cè una specie di piazzetta di terra con tutti lalberi che fanno ombra e un ciauro che lui non se lo ricordava o forse non laveva mai sintuto.
Isauro nesci dalla machina e si fa un giro ma per un pezzo non senti a nessuno poi però quei quattro spuntano che lui inizia a vederli da lontano.  E per un attimo se lo scorda che sono persone e ci parunu quattru animaluzzi e anche lui si sente così. Lì in mezzo a tutti quegli alberi.
"Ti sei svegliato? Margherita ci ha fatto vedere una casa bellissima, la vuoi vedere anche tu?" E' Celestina a chiedere. 
"No!"ci nesci dalla ucca. Un no siccu. Chinu di raggia.
Isauro non lo sa perchè si vota accussi alle persone.Ci veni naturali. Come a quei iatti che savvicinano per mangiare ma sono sempre attenti e pronti a rattariti. Che è più forte di loro.
" Forza si parte" E ' sempre Celestina a parrari che sembra che non lha sentita la sua risposta.
Cè un cancello. Lui prima non laveva visto. Grazia si avvicina e ci da la mano. Isauro non lo sa cosa deve fare ma poi gliela stringe forte che quella lo guarda e ci fa un sorriso come a dire "sono qua. non ti scantari".

Per alcuni metri cè una stradina. Margherita ci fa viriri a tutti una freccia che indica il sentiero. Lei è davanti che fa la guida. Si fermano davanti a degli alberi che devono essere vecchissimi. Tutti coperti di muschio.
Margherita spiega tanti cosi e ci dice il nome di ogni cosa ma Isauro fatica a ricordare.
Quando si fermano di nuovo sono arrivati davanti a una piccola grotta. Lui capisce solo che quella cià il nome di un suggi. Sarà perchè ci abitano pensa. Ma non chiede.
Si sono fermati ora e Iano e Celestina spariscono subito. Macari Grazia vulissi fari un giro ma forse perchè avissuru lassatu sula Margherita rinuncia.
Mentre aspettano sabbiano nel prato e isauro ciavi sopra le gambe le teste delle due fimmine che si incrociano e nella ucca un filo derba. Ce la dato Margherita. Dice che quello disseta.
Passa poco che Grazia si furia e accumencia a darici piccoli vasuni sopra i ginsi. Margherita non la pò viriri che girata dellaltro lato sta indicando un aceddo che vola proprio davanti a loro.
Quando quelli tornano si susunu e continuano a caminari nel bosco. Pari come in una favula che non cè più nenti di umano mancu i segnali. Solo a un certo punto allimprovviso si vede il mare lontano. E' qui che si fermano per mangiare
Loro hanno portato tutto e lui niente ma non cera bisogno ci dicono.
Iano tira fora macari u vino che forse non è una bella idea ma le caruse parunu abituate che tre litri spariscono subito e del quarto cinnaresta poco.
Sdraiati in mezzo agli alberi guardano tutti i piccoli pezzetti di cielo che saffacciano in mezzo alle foglie.
Di nuovo Isaro si senti come a un piccolo animaletto e questa volta riesce a dirglielo che loro lo guardano tutti meravigliati e ci piace questo sentimento e iniziano a discutere. Ma a Isauro non ci interessa più.
Si susi per andare a pisciare e si accorge che tannicchia ci furia la testa. Non si è allontanato assai. Appoggia il braccio e la mano e la testa a un albero e con laltra  mano si cerca la cedda. Ma non sono le sue dita ad arrivarici.
Margherita aspetta che lui ha finito. U sbattulia fino a fare andare via lultima goccia e poi lo pigghia nella ucca fino a quando quello non cresce. Fino a quando non ridiventa nicuzzu.
Isauro non lo sa quanto tempo è passato o se lo ha solo sognato. Tutto il tempo cià avuto locchi chiusi. Anzi lui non sa nemmeno se è stata Margherita anche se accussì ci passi.
Quando li riapre non cè nessuno.
Ripartono subito e ora cè di nuovo un sentiero.La strada del ritorno.
"Ecco! Di qua!" fa Margherita.
Sono quasi arrivati quanto incontrano unaltra grotta. e se prima era quella do suggi ora è la grotta do iattu. Accussì ci dice che si chiama la carusa.
"Logico!" pensa Isauro. E arriri.

15/07/14

Di notte una farfalla imita il cielo - 8 -


Arrivato a casa non ce la fa a dormire.
Si vota e si furia e poi si vota di novu e si susi e va in cucina e rapi u frigorifero e u chiuri e u rapi di novo e si pigghia lacqua e si occucca e si susi di novu.
Ora è assittato nel balcone e senti laria e talia nelle luci della strada.
Le machine che passano. Qualche iattu. I cani che si spostano da una parte allaltra. Qualcuno ca sa ritira a casa. Qualcun altro ca nesci.
Lha viste tante volte queste cose eppure oggi ci parunu diverse e nella testa ci furiano i pinseri.
Lodore e il sapore di Luciano. La mano leggera di Grazia. La voce di sua madre che lo porta picciriddo alle giostre e ci dice di non chianciri. Che lei non se ne sarebbe andata mentre lui furia in circolo con i cavalli. Locchi chiusi e la lingua di Celestina. Il cauro della botta nella testa. Il culo che ci sanguinava. La sera che ciaveva dato un bacio a un amico alla plaia e quello laveva inchiuto di coppa. Il profumo dei gelsomini nelle arene a viriri i filmi e a farsi arrialare i gelati.
Tante cose insomma. E tutte volavano e apparivano e di nuovo e ancora. Che tutte erano importanti e nessuna lo era.
Isannu locchi si accorge di una farfalla cavvola senza posa sopra alla sua testa. Pare stordita. Poi quella si ferma sopra il muro chiurennu le ali. Ranni. Tutte blu  con delle macchie ianche. Nuvole.
“ Le farfalle non volano di notte” pensa Isauro e ciabbia una scarpa. A schiacciarla.
Appoi sinni va a cuccarisi.  

A Parigi la metropolitana divora una stella - 7 -


Assittati tutte e cinque a tavola pari una bella comitiva. Una di quelle delle pubblicità.
Celestina è ancora attaccata a Iano che quello purazzo fatica macari a mangiari ma nel mentre ne approfitta che ci pisa i minni lì davanti a tutti. Isauro e seduto a capotavola e vicino ciavi a Grazia e poi cè Margherita.
Le due ragazze quando sono tornate ci hanno fatto mille domande ma lui non è che le ha capite tutte. Però ci piaciu quellargento vivo. Quella spensieratezza.
Tutti insieme hanno deciso per una pizza e ora se la stanno mangiando continuando a parrari di Francia. Di Parigi. Di viaggi.
La casa è di Iano che prima era di sua nonna e la zona non è lontana da dove Margherita cià abbiato un vaso di basilicò nella testa a Isauro. Laveva visto subito i movimenti di quel caruso e lei per giunta le conosceva bene quelle strade. Non era stato difficile capire unni vuleva scappare. A portarlo a casa però erano stati Iano e Celestina.
"E tu? Tu cillai a carusa?"
Grazia lo talia girando i capelli con le dita comu i picciriddi. Cià un accento strano che fa arririri a sentirlo.
"Iu? No! No. Insomma. Cè uno"
"Uno?" ora è Margherita a chiedere.
Fino a quel momento era stata la più silenziosa che forse si sentiva in colpa.
"Uno sì!"
"E allora? Chiffai? Insomma sulu scippi?"
Celestina aveva cercato di cangiari discorso ma forse non è che aveva fatto bene perchè Isauro addivintau tutto serio e si misi a mangiari senza chù riri nenti.
"Allora domani che si fa?"
Questa volta era stato Iano a riprendere le discussioni.
"Andiamo a mare?" propone.
"No no. I boschi i boschi" Grazia è una picciridda anche quando parla. La vuccuzza a cucchiareddo che sembra scoppiare a piangere da un momento allaltro e poi invece una risata come a quella di una criatura portata al lunaparchi.
"Ma sono due giorni che non facciamo un bagno"
"E allora? Ne abbiamo di tempo"
Isauro aveva alzato gli occhi e sera tracannato una bottiglia intera di birra dalla bottiglia poi laveva posata aruttannu come a un porco.
"Salute!" ci scappa di dire a Grazia e tutti ci veni lallegria. Anche a Isauro.
"Ammia penso che mi piaciunu i masculi. Insomma io me li sogno e ci futtu macari e però non lo so come sunu i fimmini che non mi è mai capitato e poi no non travagghiu e campu u stissu ca cè me o mà e qualche soldo uccapitu poi in qualche modo"
"Certo nelle borse degli altri" ci dice con un  sorriso Margherita.
"E io che ne potevo sapere che era vostra! Non vi canusceva ancora e ora certo ora passassi o rittu e insomma spuntò accussi e poi arrivau la punizione macari"
La birra cià fatto bene che lui macari che fa u ranni non cè abituato e poi a farici veniri la parola cè una mano sutta a tavola ca cialliscia u cavaddu. Deve essere Grazia pensa. Macari che la carusa fa finta di nenti perchè dellaltro lato del tavolo Celestina sta manciannu di gusto e poi cè Iano.
"Senti chiffai ci vieni domani?" Grazia u talia na locchi mentre chiede.
"Dove?"
"Na muntagna"
"Ma Grazia non abbiamo ancora deciso!" Diciunu quasi in coro gli altri.
"Andiamo lì invece. Ho bisogno di fresco. E di ombra. E poi anche Isauro ci voli veniri. Non è vero Isa?"
"Isa?" ci risponde quello tannicchia nsavanutu.
"Sì! Non è vero che ci vuoi venire anche tu?"
"Sì. Insomma sì"
I carusi continuano a organizzarsi mentre Isauro li talia che non lo sa bene come comportarsi che non cè abituato. Quanno sarritira  a casa che non ne ha voluto passaggi con la machina tenta di fare ordine a quelle strane giornate. Cè successo di tutto quasi. Ma poi ci rinuncia che la birra ancora ci furia nella testa è ha solo voglia di farisi puttari dal vento. Di seguire qualche stella. Di non pinsari a nenti e pisciari.  

14/07/14

Di mattina la lucciola scopre le foglie secche - 6 -


Celestina è troppo occupata per accorgersi dellospite.
La lingua si muove a fari strada sopra a quella carne. Cullocchi chiusi che non cè bisogno di distrazioni ciarriccama tutto il suo desiderio.
Iano invece u viri e ci scaccia locchio. Non parra. Solo le mani ci accarezzano i capelli a quella testolina ca ciavi in mezzu e iammi mentre le dita sintrizzanu a quei boccoli ribelli.
Isauro li talia per un pezzo. Non laveva visto fare mai a una fimmina. Con lui era diverso che era un andare su e giù fino a quando mancava il ciato. Fino a quando a ucca non era china. Senza fare troppo rumore u carusu ritorna nella sua stanza ed è lì che arrivano quei due dopo una para di minuti.
"Allora? comu ti senti?"
"Iu bonu! Ma tu cu sì?"
"Iu sugnu Iano e lei è Celestina"
Isauro li talia che ancora non capisce. La fimmina ci fa simpatia mentre lui ci pare uno scassaminchia.
"Piacere. Ma picchi sugnu cà? Chi succiriu?"
"Succiriu ca ti vulevi futtiri la borsa di una nostra amica"
"Iu?"
"Sì! Tu!"
"Ma cu siti? Chi vuliti?"
"Non ti preoccupare. Non semu sbirri!"
"E allura chi vuliti?"
"Nenti. Eri svenuto- Non ti putivamu lassari dà"
"Già! Marrivau na cosa nella testa"
Ianu e Celestina si talianu e accumenciunu a ririri. Isauru invece finalmente accumencia a capiri
"Fusturu vuatri?" ci domanda che quasi non ci può credere.
"Margherita"
"Cui?"
"Margherita. Unaltra nostra amica"
Celestina ancora non ha detto niente. Sè limitata a taliarlo. Ora allunga la mano e ce la passa sulla testa. Isauro non lo sa perchè ma non si allontana. E' leggera quella mano. Frisca. Per un attimo ci pari quella di sò o mà quannu era nicu.
"Che ore sono?"
"Le otto penso"
"Minchia è tardu!"
"Chicciai chiffari?"
"Sì! I cazzi me!"
Cè poco da fare ci da fastidio quel caruso macari ca ciavi una bella bestia in mezzo alle cosce. Isauro non ha potuto fare a meno di guardare bene prima.
"Senti magari telefoni e ceni con noi. No? Le mie amiche stanno per tornare. Così ci conosciamo."
Isauro cede di nuovo. E dopo è sotto la doccia e poi sasciuga e si vesti che Iano ci ha dato delle cose sue da mettere macari che ci stanno larghe.  
 

12/07/14

Sotto terra il pinguino cuoce un mazzo di rose - 5 -


Celestina Grazia e Margherita stannu parrannu e arrirennu quando Iano torna nella stanza.
Assittate nel divano pari che tutto attorno a loro si illumina. Sarà la giovinezza oppure quella felicità contagiosa di chi ancora non si pigghia sul serio ed è curioso e leggero. Spensierato e attento.
Celestina è la chiu ranni ma unu facissi fatica a capirlo subito. Il fisico è lo stesso. Sicche senza essiri ossa. Stessa altezza. Vestiti uguali. Sarebbe facile pigghiarle per sorelle se non fosse per i colori dei capelli.
"Vaddivittiti?"
Si girano tutte e tre verso Iano e posano nello stesso istante il bicchiere di vino che ciavevano nelle mani. Paruno quelle che abballano sutta lacqua che ogni movimento è sincronizzato e preciso.
"Allura? Comu sta?" e Grazia a chiedere per prima  mentre si sposta un riccio rosso che cè caduto sopra locchio. E' la chiu nica. Sua madre è irlandese e suo padre sè fatto una posizionè vinnennu pizze che ora non travagghia chiù e ciavi più di cento ristoranti nellinghilterra. Lei però ci passa sempre le vacanze nellisola che invece di imparare le lingue alle scole ormai conosce bene solo linglese e il siciliano.   
"Sì! Sì! Come sta?" ci spia macari Margherita. Lei invece ciavi i capelli corti a maschietto. Niuri come la notte. Però la pelle è chiara come a quella della sua amica macari su non ciavi tutte le lentiggini. Si sono conosciute al collegio della Svizzera dove le avevano mandate che cera anche laltra.
Serano rinosciute subito. A naso. Sarà stato u ciaru della montagna o quelle bestemmie che ogni tanto ci scapppavano a farle trovare. Fatto sta che quello era il secondo anno che scinnevano insieme a passare le vacanze a Catania. 
Iano le guarda e sorride. Celestina però non ci spia nenti. Si è avvicinata arreri a lui e lo abbraccia stretto stretto. Le minne abbondanti a spingere sulle sue spalle e le braccia a circondarlo.
U carusu fa finta di niente ma le atre due si accorgono allistante della reazione che quella ha provocato.
"Ci furia ancora la testa ma ci passa presto. Ora u facemu rommiri ancora tannicchia e poi lo accompagno a casa se volete. Oppure ci spiamu a lui quello che vuole fare"
Ora Celestina ci sta vasannu il collo mentre le mani iniziano a esplorarlo.
"Ci voi fari a dannazza?"
Margherita arriri mentre talia negli occhi la sua amica e anche Grazia ora la osserva prima di riprendere in mano il bicchiere.
Iano riesce a staccarsi. Si avvicina al tavolo e si versa lultimo sorso di vino rimasto.
"Vu vivisturu tutto?" ci domanda ma Celestina non ce ne ha intenzione di lasciarlo stare e si attacca di nuovo a lui comu na patedda o scogghiu.
"Va beni! U capemu! Stamu niscennu!"
Margherita e Grazia fanno in fretta. La loro amica non sembra nemmeno sentirle ma poi al rumore della porta si inginocchia che ci vinni fami.
E così che li trova Isauro appena trasi in quella stanza.

09/07/14

Sul tetto il bel gattone scopre tre piccole sardine - 4 -


Isauro nesci che prima sè sistemato bene la cresta che sè fatto tagliare come ai giocatori.  Incoddu ciavi i ginsi che puttusa e una maglietta acculurata tutta aperta davanti che avissa fari viriri i muscoli. Funziona poco con lui ma comunque è buona lo stesso che cè cauro e quello è lorario che il sole tacchiana nella testa e ti fa surari appena ti movi.
Non pigghia mancu lautobussu Isauro.
Scinni per la strada ritta e si ferma alla putia. Due bicchieri di zibibbo e poi di nuovo a caminari verso il centro. A lui ci piaci viriri la gente. Macari cappoi linsulta e su putissi ci pisciassi ncoddu.
Succede quando quelli non si fanno i cazzi sò che lui non ne da fastidio e guarda e talia e si fa i so filmi nella testa senza disturbare a nuddu. Sua madre cè lo dice sempre che uno non ci pò diri mancu chi su beddi stocchi pecchè lui si incazza. E ha ragione. Isauro è fatto accussi.
Arrivato al duomo si fa un giro alla piscaria. Laria è china. E locchi. E i naschi macari. A Isauro ci pari quasi di svenire. Poi si ripigghia e sassetta al tavolino e si fa purtari autri du bicchieri. Friddi questa volta. Gelati. Appena arrivunu nella panza sono una botta che lo sveglia e gli dà piacere.
Nel frattempo osserva con locchi attenti. Da un po' qualcuno se messo nella testa che questi sono i posti giusti per i turisti e ce li porta e ci fa fare un giro. Quelli dicono: "Che bello! Che colori! Che palazzi"  e dentro a loro però sperano di vedere qualche omicidio in diretta o qualche scippo macari. Allautri certo che quando tarrobbano attia e sempri lariu.
Isauru li aspetta che quelli non li sanno gli orari e si presentano a furiari macari quannu cè chiu caru. E infatti.
La comitiva è di tre fimmini e un masculu. Devono essere francesi che laccento ci pari chiddu. Isauru savvicina e li segue per un pezzo poi appena li vede distratti agisce. Loro sono impegnati a viriri una bella quartara e lui allora ci pigghia la borsa a una che laveva lasciata appoggiata e scappa. Corre. E' come il vento dentro alle viuzze strette che lui le conosce bene. E non cè mancu confusione. E' facile. Non si vota arreri mancu per un secondo. Non serve. Anzi rischi di fare qualche minchiata.  Si ferma solo quando si sente tranquillo e  non ciavi chiù fiato. E allora ca rapi la borsa.
Ed è in quel momento che ciarriva una botta nella testa che si scorda tutto. Ci pari di esseri morto. Tutta addiventa niuro. Poi chiù nenti.
Quando si risveglia è in un letto menzu a nura. Cè scuru. Sente delle voci e unaria frisca piacevole. Poi si apre una porta:
"Tarrusbigghiasti? Comu stai?"
Isauro ancora ci scoppia la testa. "Unni sugnu?" addumanna.
"Non sì o carceri! Non ti preoccupare!"
Veramente lui nemmeno ci aveva pensato a questa possibilità. Rapi megghiu locchi che ora si sono abituati e si accorge di essere in una casa antica che il tetto è alto e tutto decorato. Prova a sedersi macari ma ci furia ancora la testa.
"Non ti susiri. Mettiti u ghiacciu! Picchì tu livasti?"
"E tu cusì?"
"Uno"
" Certo. Sì. E iu semu rui"
Quello sorride e richiude la porta mentre Isauro crolla che tutto ancora ci furia.

08/07/14

In cucina l'orco gentile illumina il cielo - 3 -


"Chi ti successi?"
"Quannu?"
"Assira"

Isauro isa locchi dalla granita di mandorle e talia a sua madre per capire. Poi ritorna ad abbagnare il cozzo del panino dentro al bicchiere. Una furiata lenta prima di sollevarlo tuttu iancu.

"Picchì?"
"Ciavevi i mutanni tutti loddi"
"Mi cacai ncoddu"
"Ah!"

Michela Di Dio ciavi locchi puntati supra a so figghiu e le mani dentro alla bacinella china di schiuma.
Il tempo è picca. Tra unora deve essere a fari i pulizii e di strada ce nè con lautobussu.
Quel figlio a lei ci pari bellissimo. Macari ca è siccu siccu e longu comu a una cimedda.
Certo u vilissi sistemato. Ma chi ci po' fari u carusu? Ci voli tempu che questa non è lepoca. E macari a scola. Insomma è la natura. E uno che cosa ci può fare contro alla natura?
Pensa Michela e mentri pensa munci i robbi dentro la bacinella. E ci cangia l'acqua. E ni pigghia autri. E appenni i mutanni no filu. E talia. E fatica.
Ciarrestano tre quarti dora. Allora lassa tutto e saccumencia a pripararari. Una sciacquata. I pantaloni comodi. Una maglietta vecchia ma pulita.
Michela  macari su fa di tutto per ammucciarisi con la scusa del travagghio si vede ancora che è una bella fimmina. Locchi e i manu non si fermano quannu lei camina per la strada o pigghia i mezzi. Michela u sapi ca è accussì macari su fa finta. Macari ca non si talia chù mancu davanti allo specchio.
Il fatto è che già ciabbastau la sofferenza. Non ni voli sapiri di masculi. Già cinnavi unu a casa.
E di nuovo talia a quel figlio arrivato troppo presto e un poco ci luciunu locchi.
Una controllata in giro. La cucina è a posto e nella stanza di Isauro mancu ci trasi. La sua è poco più di uno sgabuzzino. Non ci voli assai ad abbissarla.
Michela saluta so figghiu e nesci. Mezzora. Cillavissa fari.  

Isauro sassetta davanti alla televisioni che a quellora ci piaci viriri i cartoni animati. Non cinni futti nenti su lautri dicono che sono per i picciriddi. Lui ci si perde e conosce a memoria tutte le serie giapponesi che ancora quando faceva la scola cerano le battaglie con i compagni e tutti però ciabbiavano le onde energetiche alle suore.
Prima di pranzo nesci che tanto sua madre torna solo alle sei e a lui non ci piaci mangiari sulu.



07/07/14

Nella foresta Babbo Natale imita la carta geografica -2 -


Non ci voli assai a turnari a casa. Isauro cammina tranquillo che lui non si scanta di nenti e non cinnavi prescia. Locchi ogni tanto ci vanu nelle vetrine o sopra a qualche culo. E' indifferente. Cè tanta gente in giro. Comitive di carusi con la vespa. Coppiette tutte abbracciate. Minchiuni ca pensano di fari i spetti.
Isauro si ferma al chiosco e si pigghia una birra e unaltra poi e unaltra ancora. Fino a quando non lo vede che quello sta posteggiando la machina e ci mette poco a veniri vicino a lui.
"Ah! Si cà!"
Isauro fa finta di non darici confidenza ma poi non può fare a meno di taliarici a cedda in bella evidenza sutta i ginsi stritti.
"Finisci sta birra ca facemu un giro. Pavu iu!"
"Senti Luciano no sacciu..."
Le parole si fermano e lui è già supra alla machina e quello già se aperto la cirnera e ciammutta la testa che Isauro non ne fa di resistenza.
Non ci voli assai a finiri. Poi silenzio.
"Ti portu a casa?"
Isauro accala la testa. Luciano ciavi una cammisa russa e la vavva longa. Lui se lo guarda come se fosse una immaginetta di priari e pensa che quello da vecchio putissi addivintari come a babbo natale iautu e rossu comè. Oppure sò maritu.
Prima di arrivare Luciano si ferma ca ci vinni fami.
"A voi qualche cosa?"
Questa volta Isauro ci rici convinto di no. La verità è che lo vuole taliare senza farisi accorgere e così lo segue con lo sguardo fino a quando entra nel bar e dopo anche quando quello nesci con una raviola e sassetta di nuovo nella machina.
"Ni voi tannicchia?"
La ricotta caura accumencia a nesciri dalla pasta. Isauro ne pigghia tannicchia con un dito e se la porta alla bocca come su fussi uno di quei filmi di futtiri che ogni tanto si guarda.
Luciano arriri.
"Si na buttana precisa" ci rici e poi ci spalma tutta la raviola nella facci tendendolo con un braccio che quello questa volta ci prova a ribellarsi.
La machina riparte. Isauro si asciuga con un fazzolettina e Luciano lo porta fuori dalla città.
Non cè la forza u carusu per spiarici unni stanu iennu. Guarda i cartelli. Le case. Fino a quando la mappa ca ciavi nella testa sparisce e la città addiventa sciara. Foresta di petri.
Luciano astuta la machina poi lo fa uscire nello scuru della notte e lo spinge per una trazzera che Isauro fatica a vedere. Saranno cento duecento metri. Una porta. Una casa ca pari un deposito degli attrezzi.
Luciano ci fa calari i causi e lo fa piegare sopra a una seggia. E la prima vota ma Isauro non si lamenta. Non urla. Pigghia tuttu senza ciatari.
Non lo sa più quanto tempo è passato. Luciano sparisce e poi ritorna. Isauro invece mancu si lava.
Arrivatu a casa si metti di novu sutta lacqua fridda. Chianci.

06/07/14

Sulla luna lo squalo graffia un barboncino rosa - 1 -


A Isauro ci piaciunu i masculi. Lui se li sogna sempre ogni notte che ci fanno la festa e la manu allora ci parti che poi si senti megghiu.
Anche ora ci sta pinsannu abbiato sopra al divano. Laria è ferma e umida come a dentro a una buttigghia di salsa caura. Si camulia la pelle che se la sente tutta appiccicata e sotto le dita ciarresta la lurdia. Palline niure che Isauro ammutta nterra prima di non pinsarici chiù.
Secondo a Lucio la colpa è di quel nome che sua madre cè lha voluto dare a tutti i costi macari che era di fimmina. Lucio è lunico amico ca ciavi. Macari a iddu ci piaciunu i masculi ma con lui non cinnè fantasia a futtiri ca è ponchio e la cedda mancu si viri sutta la panza. Invece a Isauro ci piaciunu quelli della pubblicità con tutti i muscoli ca nesciunu di fora e u pisci ca cinnè assupicchiari.
Si fici taddu. Isauro si susi e sinni va a farisi una doccia. Canninannu continuano a cascari pezzi di pelle che cerano rimasti addosso. Pari a Pollicino. Sua madre cè la contata tante volte quella storia.
Ncoddu ciavi sulu i mutanni e ci voli un attimo a trasiri sutta lacqua fridda di gebbia che a lui ci piace accussi. Cumu u gelu.
" Isà! Mettaccilla lacqua caura ca ti veni a cervicale!"
Sua madre ci urla dalla cucina che le conosce le stranizze di quel figlio. Lunico. Poi u signuruzzu non ce ne ha dati altri e per fortuna che già era stato difficile crescene uno senza patre e senza famigghia.
Isauro sallicchittiia e nesci. Ha conosciuto uno vecchio alla villa. Robba di quaranta cinquantanni e quello non cià tentato subito che a lui invece ciavissa macari andata bene che i soddi fanno comodo. Però cè piaciuta questa cosa romantica che non lo sapeva che si poteva fari macari tra i masculi come i fidanzati.
Quando si vedono quello pari suo padre. Tutto giacca e cravatta e un ciaru di vavveri che sale alla testa. Si fanno un giro in mezzo ai vialetti però non parrunu ma poi quello ci dice a levapilo:
"Ti va se andiamo a casa mia?"
Isauro non cè mai voluto andare nella casa dei clienti ma questa volta si sente più sicuro e allora accetta accalannu la testa e dicennu un sì che pare di fatica. La machina è parcheggiata vicina. Una di quelle a due posti che lui le ha visto solo posteggiate.
"Cosa fai allora?"
"Iu? Nenti"
"Come niente? Non vai a scuola?"
"Scola? Dio minniscanza! Le suore si facevano la croce al collegio e accussì non ci ii chiù"
Alberto arriri. Alberto è il nome del signore e Isauro lo talia mali che non ci piace essere pigghiatu po' culu.
"Picchì arriri?
"Pensavo alle suore. Hai la patente? Vuoi guidare tu?"
"Non cillaiu la patente"
"Ma hai ventanni no? O mi hai detto una bugia?"
"Senti chivvoi?"
Isauro si sta innervosendo e accussi ci dice di fermarsi che deve pisciare e quello si ferma vicino a un bar e ci runa macari i soldi per il caffè.
Alberto non lo sa che non lo vedrà chiù. Che u carusu nisciu senza farisi viriri. No. Non lo sa Alberto.
Talia la luna che accumencia a nesciri in mezzo al mare e adduma una sigaretta. Il braccio è appoggiato al finestrino. La faccia tunna è contenta. La machina cià il motore ancora acceso e la gente lo talia con tannicchia di invidia. Un canuzzu si avvicina e ci piscia sopra alla ruota ma lui non se ne accorge che ha altro per la testa. Ora è quasi notte.   

30/06/14

21/06/14

"Per leggere, non leggevano" di Simone Ghelli

Il problema era che non leggevano. Per scrivere, ormai sapevano scrivere tutti; ma non leggevano. E soprattutto, pretendevano che li si leggesse. Addirittura si arrabbiavano, se non li leggevi. Ti guardavano con quella faccia delusa, oppure ti fulminavano con lo sguardo. Se non andavi alle loro presentazioni ti cancellavano dalla lista degli amici, senza dare spiegazioni.
Fu così che mi ritrovai infatti a non avere più amici su Facebook: perché non andavo alle loro presentazioni, e neanche li leggevo più. A dire il vero avevo persino smesso di scrivere, pur di svolgere il compito che mi ero prefisso anni prima: rileggere da capo tutti i libri della mia libreria.
Preferii così, piuttosto che continuare a insistere e ad avvelenarmi il sangue; perché per scrivere scrivevano tutti, ma tra loro non si leggevano: peggio, s’ignoravano. Più d’una volta mi ritrovai infatti a questi convegni tra scrittori, che si davano certe arie per non si sa che cosa, se non per il gusto di dare a vedere di saperla più lunga. Mi ricordo infatti bene di questi loschi figuri, spesso un po’ tristi e abbarbicati ai loro libri, che non si curavano che di loro stessi: salivano sul palco, quando c’era, e leggevano sommessamente, come in un rituale privato (e forse, in cuor loro, dovevano sentirsi davvero dei sacerdoti del verbo, o qualcosa del genere). Leggevano il loro e se ne andavano, senza rispetto alcuno per le altrui parole; epperò poi pretendevano che li si leggessero, e anche attentamente, i loro libri, e si lamentavano della carenza dei lettori e della loro ignoranza: ormai hanno altre priorità, dicevano, e s’interessano soltanto al superfluo. Da quale pulpito arrivavano queste prediche, e quanti proseliti che hanno fatto!
Le persone s’iscrivevano in massa ai corsi di scrittura creativa, per i quali pagavano fior di quattrini; e anch’io ne ho fatti, lo ammetto. C’era anche chi sborsava mille o duemila euro pur di vedersi pubblicare i libri, per il gusto di avere anche loro qualcosa da mettersi sotto il braccio per definirsi scrittori; e ne ho visti persino girare per le fiere con in mano il loro romanzo incompreso, e supplicare in ginocchio gli editori purché li leggessero.
Li ho sentiti dire frasi del tipo: «Dopo di questo la letteratura non sarà più la stessa, dovrà pur rendersene conto!»
Oppure la mettevano sul personale: «Qua c’è tutta la mia vita, non può ignorare un fatto del genere!»
Erano nient’altro che richieste di attenzione, e per giunta tutte col punto esclamativo, a onor del genio che animava le loro opere. Allora presi l’abitudine di seguirli, di camminare al loro fianco per l’impervia via che conduce alla fama; e andavo alle fiere apposta per questo: per attenderli al di fuori, e pregarli allo stesso modo.
«L’hai letto questo?» chiedevo. «E quest’altro?»
Scuotevano la testa, si guardavano le mani, mi scansavano come la peste. La sola vista di quei libri li faceva trasalire e sudare freddo, o forse erano i nomi: era la prova che certuni avessero resistito agli assalti del tempo, era questo a farli piombare nel più oscuro sconforto.
Eppure non mi arresi, e spesi persino dei soldi per comprare libri da regalare; ma non li volevano, non c’era niente da fare.
«Ma come,» insistevo, «questo è Camus, non puoi non averlo letto! Preferisci allora Kafka? Dostoevskij? Almeno li conosci i tuoi contemporanei?»
Niente, non volevano niente, ad esclusione di un po’ di attenzione per la propria arte.
«Perché, invece, non mi leggi tu?»
E mi porgevano il malloppo, tutto spiegazzato per gli innumerevoli viaggi e le volte che già l’avevano sfogliato dinanzi a qualche editore annoiato. Ne ho una decina da qualche parte: centinaia di cartelle di cui ho letto poche righe, il tempo minimo per comprendere che avrei girato per ore attorno all’ombelico dell’autore.
Oltretutto, bisogna dire che questa piaga non aveva età né sesso. Essa colpiva indistintamente uomini e donne, giovani e vecchi. Si pubblicavano ad esempio i romanzi dei quindicenni, che a scuola non leggevano neanche più i classici o i libri per ragazzi, perché ormai si vendeva la vita dell’autore, non la storia che era stato capace di costruire. Era sufficiente che si raccontassero episodi di vita vissuta, cose che scandalizzassero per l’età acerba di chi le raccontava: insomma, sesso e violenza, oppure un po’ d’amore adolescenziale, che incuriosiva sempre. Un’altra moda fu poi quella di pubblicare i diari delle persone anziane, preferibilmente se semianalfabete e propense a denunciare i torti subiti o a rendere partecipi gli altri (gli ignoranti lettori) dell’illuminazione che li aveva colti al tramonto. Erano libri pieni di livore e astio contro la specie umana tutta, nel primo caso, oppure traboccavano di un ottimismo stucchevole e condito d’amore universale nel secondo.
Alla nostra società questi dovevano senz’altro sembrare dei modi per rendersi più democratica, per dare voce a tutti; che nessuno però ascoltava, e a maggior ragione col passare del tempo, che aumentava il rumore di fondo.
Le persone trovavano sempre il tempo per scrivere, ma mai per leggere. Le scuse erano delle più varie: il lavoro mi porta via troppo tempo; non ho soldi per comprare i libri; non si scrivono più i capolavori di una volta; alla sera sono stanco. Per scrivere, però, sembrava che stessero svegli persino di notte, in ostaggio del loro furore artistico. E anche coi soldi non andava diversamente: per birre e altri vizi ne avevano sempre in abbondanza, ma mai per i libri. Come facessero a scrivere, privi com’erano della necessaria curiosità, è sempre stato per me un gran mistero.
Non andava certo meglio con le biblioteche, dove andavano soltanto alcuni pensionati, e il più delle volte per dormire al caldo e senza troppi rumori. I pochi che chiedevano in prestito i classici, magari per ricordarsi della loro gioventù, venivano guardati con sospetto dagli addetti ai banconi: i quali si erano ormai specializzati in novità, e passavano l’intera giornata ad aggiornarsi sui nuovi titoli sfornati dal mercato.
All’inizio avevano dato la colpa a internet, e c’ero caduto persino io nell’errore. A chi me lo chiedeva, rispondevo: «Io uno di quegli aggeggi elettronici non lo comprerò mai! La letteratura è soltanto quella di carta!»
Sono stato miope, come tutti i miei simili. Ci siamo estinti per miopia, anche se poi per leggere mettevo già all’epoca gli occhiali da riposo. A parte la pessima battuta, devo ammettere che come intellettuale sono stato un fallimento, al pari di tanti altri impegnati a combattere battaglie di retroguardia per difendere le loro posizioni.
Quando hanno cominciato a chiudere le librerie, anche l’esercito degli scrittori ha iniziato a comprendere, ma non si sono ricreduti. Alcuni, i più convinti, si sono gettati anima e corpo nel digitale, ma la maggioranza ha desistito: era l’oggetto libro a interessar loro, il feticcio da mostrare con orgoglio ad amici e parenti.
La produzione di libri calò vertiginosamente, e per un attimo sperai che questo potesse incrementare finalmente il numero dei lettori. Se non scrivono più, mi dissi ingenuamente, forse ricominceranno a leggere. Malauguratamente non andò così, neanche quando crollò il prezzo dei libri. Andavo in giro per librerie e mercatini a fare incetta di copie, dove mi annusavo con i pochi superstiti della mia specie. Sembravamo degli zombie, ma lo stesso eravamo in schiacciante minoranza.
Se le librerie chiudevano, il mio progetto divenne allora quello di crearmene una tutta mia. Riempii casa all’inverosimile: così tanta carta che smisi persino di mangiare pasti caldi per il terrore che potesse prender fuoco tutto. La maggior parte delle cose non potevo neanche lontanamente sperare di leggerla, ma accatastavo libri, accumulavo storie. Certo, confidavo che mi sarebbero servite, ma mai avrei potuto immaginare di arricchirmici così tanto. Di tempo ce n’è voluto, e molto, ma chi ama leggere non ha certo paura del tempo.
Anche oggi, qui fuori della mia porta, è pieno di gente venuta in pellegrinaggio. Mi supplicano di vendergli almeno una copia, anche del romanzo più insulso (non ne ho, ma se proprio dovessi fare una classifica, sarebbero quelli relegati nelle ultime posizioni). Alcuni dicono che non sanno più niente, se non di se stessi. Allora esco fuori, con un libro, uno qualsiasi, e mi metto al centro di un cerchio che formano queste persone assetate di storie, prive ormai di ogni forma d’immaginazione. Mi metto in mezzo a loro e leggo; e se non fosse per me, per i miei occhi stanchi e la voce che si affievolisce, vorrebbero che non mi fermassi mai.
Lo so che a sentirlo oggi sembra tutto così assurdo, ma un tempo non funzionava così. Un tempo le persone non leggevano, né ascoltavano. Scrivevano e basta.
Fonte: minima&moralia

14/06/14

Natività

Carmelo nesci dalla casa e non lo sa dove vuole andare che per il momento è solo importante prendere aria e camminare e usare lossa e i muscoli.
Sè messo addosso una maglietta nuova accattata al mercato delle robbe usate americane. Cè una specie di orso darreri e davanti invece il marchio di una cosa che deve essere come la cocacola perchè cè stampato un bicchiere pieno vicino al nome e che però dentro cià il colore della merda.
I ginsi sono quelli di tutti i giorni e le scarpette macari che cià fatto ormai quasi due anni con quelle. Tutte blu con la striscia di gomma ianca in punta che non si legge più nemmeno la marca. Ma Carmelo forse non lha mai saputa.
Il cielo è azzurro con le scie. Quelle che ci mettono gli aerei per passatempo che poi venunu le malatie. C'è lha detta Nicola questa cosa che quello è allitterato e usa il computer ma Carmelo non cinni futti nenti che anzi sono belle quelle striscie e accussì decide di seguirne una e comu finisci si cunta.
Alla prima traversa i bidoni della munnizza gli bloccano la strada. Qualcuno forse vuleva giocare allindiani e fare le barricate e ci sono pezzi di vetro per strada e mobili scassati. Carmelo ci furia attorno e prosegue e camina e camina che inizia a surari e non lo sa più dove sta passando. E come se non fosse nessuno nelle strade e anche se ci sono Carmelo non se ne accorge. Cè solo quella striscia nel cielo e quella pisantezza che non se ne vuole andare. Una cosa che gli si è attaccata tra il cuore e locchi e che ci blocca la testa e i pinseri e la vuci macari. Forse lamici ci dicissuru che avrebbe bisogno di una bella sciarriata che coppa oppure di una fimmina. Oppure solo di una bella rummuta. Ma Carmelo non ci ha mai chiesto a nessuno. Non è nel suo carattere.
Per il momento camina e camina e ciauria laria come allanimali e segue la striscia comu sullavissa purtari davanti a una magia. "A Gesù Bambino" pensa allimprovviso. E la grotta cè a dire il vero proprio davanti a lui in mezzo alla sciara che non lo sa nemmeno come ci è finito lì.
I palazzi ci stanno tutti attorno e a Carmelo ci parunu come a giganti che fanno la guardia a quel pezzo di terra che è riuscito a resistere. Si avvicina chiossai che vede movimento davanti allentrata. Sono una para di marocchini ca rommunu lì allingresso e vicino cianno tutte le robbe del mare vestiti e teli e savvaggenti acculurati dalle forme più strane. Sembra che quasi non si accorgono di lui ma poi uno di loro rapi un occhio e Carmelo si accorge bene che quello lo talia e allora ci fa un sorriso comu su vulissi riri “Vengo in pace”. E laltro ci risponde che anche lui sorride. E poi chiuri quellocchio controllore e sembra a Carmelo che saddumisci di nuovo o almeno questa è limpressione.
Dentro alla grotta si sentono cani che abbaiano. A Carmelo non ci sono mai piaciuti i cani che più di una volta è dovuto scappare di corsa per non farisi pigghiare. Però si avvicina lo stesso che è come se non ne potesse fare a meno. Locchi ci stanno un po’ ad abituarisi. Nello scuro camina aleggiu alleggiu fino a quando una voce lo saluta. “Ciao Carmelo” ci fa la voce come se lo conoscesse.
Ora finalmente qualcosa si viri. Una sagoma prima. E poi una persona. Una donna?
A Carmelo ci pari chiossai una carusidda anche se nelle braccia ciavi un picciriddu chiu niuru di lei che ci suca la minna. Non lo sa perché ma casca nterra in ginocchio e accumencia a chianciri.

09/06/14

08/06/14

La Tachipompa tradotto da Martina Volpe

Edward Page Mitchell (1852–1927) non è un nome noto tra chi non è appassionato di fantascienza d’epoca. Anche tra gli appassionati non è famoso quanto Jules Verne o Herbert George Wells e, temo, nemmeno quanto il recentemente riscoperto Albert Robida. Forse è più conosciuto per essere stato dal 1903 caporedattore del Sun di New York, all’epoca un giornale che rivaleggiava con il Times.

Fu proprio sul Sun che Mitchell pubblicò i suoi racconti, ma a causa del buono stipendio come giornalista non cercò mai un successo editoriale come scrittore di narrativa. Un po’ il contrario della storia di Robert Anson Heinlein, che povero in canna scrisse il primo racconto per un concorso, sperando nel premio di 50 dollari. La fame può essere un buono stimolo a impegnarsi nella scrittura e la pancia piena uno a considerarla un hobby secondario, tristemente.

Suo collega giornalista fu quel Garrett Putnam Serviss che ancora oggi ricordiamo per Edison’s Conquest of Mars (1898), un seguito non autorizzato de La Guerra dei Mondi (1897) di Wells, in cui l’umanità sferra un attacco contro Marte per annientare col genocidio la minaccia marziana per sempre. Sarebbe meglio dire seguito legittimo della versione statunitense, pesantemente modificata da Serviss, e non autorizzata da Wells, Fighters from Mars. Effettivamente “ricordiamo” è una parola grossa, ma tra gli appassionati di fantascienza ottocentesca lo si conosce abbastanza. Un romanzo che ha degli aspetti interessanti, a livello storico, e che mi piacerebbe vedere prima o poi in italiano.

Poco interessato alla notorietà come scrittore, Mitchell finì nel dimenticatoio, conosciuto solo dai più attenti studiosi della storia della fantascienza, fino a quando Sam Moskowitz ripropose al pubblico i suoi racconti nel 1973 accompagnandoli con le informazioni biografiche sull’autore. Fu grazie a quella raccolta che il grande pubblico statunitense scoprì La Tachipompa, del 1874.

La Tachipompa fu il suo primo racconto pubblicato e ha dietro una storia curiosa. Nel 1872 Mitchell venne ferito all’occhio sinistro, mentre era in treno col finestrino aperto, dalla cenere rovente della ciminiera. L’occhio perse la vista, momentaneamente. Settimane dopo anche l’occhio destro divenne cieco, per oftalmia simpatica. Quando l’occhio sinistro guarì, il destro rimase cieco e dovettero rimuoverlo chirurgicamente, sostituendolo con uno di vetro. Durante la degenza post-operatoria ideò e scrisse La Tachipompa.

Ciò che incuriosisce de La Tachipompa è la sua ingegnosità: propone al pubblico il problema della velocità infinita ottenuta per piccoli incrementi partendo da sistemi di riferimento sempre più veloci. In questo caso, locomotive sopra altre locomotive, in serie di decine, centinaia o infinite.

Era un problema serio per l’epoca: la velocità infinita è ottenibile? Fu solo nel 1905, 31 anni dopo questo racconto, che Einstein pubblicò le sue prime memorie sulla Relatività Speciale e dimostrò che la massima velocità ottenibile nel vuoto è quella della luce (semplificando molto). Le locomotive di Mitchell, avvicinandosi alla velocità della luce, avrebbero sofferto sempre maggiormente gli effetti relativistici di contrazione della lunghezza e dilatazione del tempo.

Basterebbe questo racconto a far entrare Mitchell nella storia della fantascienza, ma non produsse così poco. Anzi, a mio parere questa non è nemmeno l’idea più interessante che ebbe. Dentro tutti i sette racconti proposti nell’antologia La Tachipompa e altre storie si nascondono idee innovative per l’epoca.

Tra chi ha una conoscenza poco approfondita della storia della fantascienza nel Lungo XIX Secolo, quando nacque, è comune l’errore di pensare che tante idee rese famose da Wells siano state portate al pubblico di quell’epoca per la prima volta da lui. Questi racconti di Mitchell nel mondo anglosassone, esattamente come le opere di Albert Robida in Francia, erano tutt’altro che ignoti al pubblico. Wells incluso, probabilmente.

Nulla di male nel fatto che Wells abbia scritto, in modo diverso, di idee già esplorate da altri: dire la propria su qualcosa di già sentito, dandogli un tocco personale diverso, è il motore dell’evoluzione nella narrativa. Quanti hanno scritto ispirati da Heinlein, da Doyle, da Asimov o da Omero? Talvolta imitandoli un po’, pure? Tantissimi, senza dubbio, ma come non attribuiamo ai successivi autori un qualche primato sulle idee di Heinlein o di Asimov, così non andrebbero attribuiti primati storici di pubblicazione a certe opere di Wells.

Prendiamo due delle sue opere più famose, La macchina del tempo (1895) e L’uomo invisibile (1897). Entrambi sono di solito citati come le prime opere in cui apparvero una macchina (non un trucco magico o uno svenimento o un viaggio extracorporeo/sovrannaturale) per viaggiare nel tempo e un uomo reso invisibile con mezzi scientifici.

L’orologio che andava all’indietro (1881) parla proprio di una macchina per viaggiare nel tempo e, ciliegina sulla torta, include anche dei paradossi temporali. Per chi lo ha letto: pensate alla fine di Harry e al testamento che gli assegna l’orologio, oppure a chi era zia Gertrude e al professore hegeliano.

Per avere il primo uomo invisibile noto della fantascienza, non per mezzi magici, ecco L’uomo di cristallo (1881). In questo caso trovo interessante sottolineare l’inizio dell’opera in cui il protagonista sbatte, al buio, contro l’uomo invisibile e usando quella che Sherlock Holmes chiamerebbe la “scienza della deduzione” ottiene una enorme quantità di informazioni corrette da pochi elementi ben notati: rumori, voce, tatto e azioni. Ricorda moltissimo certe scene nelle storie su Sherlock Holmes di Arthur Conan Doyle, per esempio l’analisi dell’orologio che effettua ne Il segno dei quattro (1890).

Talvolta le intuizioni di Mitchell non precedono solo la fantascienza, ma il futuro in generale, come accadde con Albert Robida e il suo Le Vingtième Siècle (1883). Prendiamo per esempio Lo Spettroscopio dell’anima (1875) in cui il dottor Dummkopf, tra le sue varie invenzioni in lavorazione, parla di bottiglie per catturare i suoni e rivenderli. Per esempio per poter vendere a meno di un dollaro le migliori opere liriche e teatrali che costerebbe dieci dollari sentire dal vivo. Tanto per ricordarlo, solo due anni dopo, nel 1877, venne realizzato il primo fonografo a cilindro Edison. Il mondo in cui vendere registrazioni di esibizioni dal vivo era ancora molto distante.

Rimanendo a tema di scoperte future, è interessante anche l’ucronia (per noi) ambientata nel 1936 di La Figlia del Senatore (1879). Con un veicolo sotterraneo si coprono in meno di un’ora i 700 km che separano Boston da Washington. Nella casa del politico Wanlee è mostrato come un oggetto comune il termoelettrodo che è, semplicemente, una stufetta elettrica. C’è la musica trasmessa via cavo direttamente da Parigi. Ci sono persino delle pastiglie capaci di nutrire un uomo per settimane, come quelle di certa fantascienza di 60 anni fa sulla vita nell’anno 2000.

Degna di nota l’animazione sospesa per mezzo di ibernazione, trattata con molta più intelligenza che in tanta fantascienza successiva: sapendo che il corpo non può essere congelato nelle sue funzioni o morirebbe, Mitchell immagina che le funzioni corporee siano solo molto rallentate e che il corpo, come in un coma profondo, si consumi un po’ alla volta per sostenersi. Altro che gente surgelata e risvegliata secoli dopo perfetta come prima (invece che ridotta a carne morta, con le molecole esplose per la dilatazione dell’acqua), per Mitchell perfino dieci anni in ibernazione possono ridurre un uomo sano in un moribondo consumato.

Passiamo a L’uomo più intelligente del mondo (1879) dove appaiono, a quanto fino ad adesso noto, la prima intelligenza artificiale creata dall’uomo e il primo cyborg. In questo caso un cyborg con un corpo umano e un cervello artificiale, non l’opposto. Curiosamente questo cyborg, il barone Savič, nella traslitterazione anglosassone del racconto originale ha lo stesso cognome dello scopritore del Teorema di Savitch, una pietra miliare della teoria della complessità computazionale in informatica.

La paura che il protagonista ha di questa intelligenza artificiale, così grande da poter un giorno dominare il mondo secondo il suo creatore, ricorda certi timori alla Terminator. Non che Terminator fosse particolarmente originale, per sentire parlare di intelligenze artificiali che si ribellano e poi di macchine che prendono il controllo degli USA e cacciano gli umani, basta risalire a opere di W. Grove come A Mexican Mystery (1888) e al suo seguito The Wreck of a World (1889), però è sempre un piacere notare come ciò che pensiamo originale del XX secolo sia spesso solo la riproposizione di idee del XIX secolo.

Infine l’ultimo racconto che chiude la raccolta, il più sopra le righe del gruppo, L’uomo senza corpo (1877). Qui le idee fantascientifiche degne di apprezzamento sono ben due: una testa separata dal corpo che continua a vivere e il teletrasporto. Dei due la testa in sé è l’elemento meno interessante visto che sopravvive e parla più per “magia” (perché sì, insomma) che per mezzi scientifici, a differenza di quelle del classico sovietico La testa del professor Dowell (1925, inedito in italiano) di Aleksandr Romanovič Beljaev. Passando al teletrasporto, non solo si tratta del primo noto nella fantascienza, ma anche del primo caso di un teletrasporto che finisce male. Molti decenni prima della scena iniziale del primo film di Star Trek.

Altri racconti di Mitchell, non presenti in questa raccolta, meritano anche loro attenzione. I sette racconti qui presenti possono essere letti in lingua originale in questa pagina e molti altri in quest’altra, grazie al progetto Gutenberg. Se questa prima raccolta avrà successo, sarebbe bello selezionare altri racconti per farne una seconda. Sta a voi decidere, comprandola, e nel frattempo potrete leggerli in inglese.

Una piccola curiosità finale sui racconti di Mitchell. Pubblicandoli sul Sun, impaginati in mezzo ad altri articoli, c’era il rischio che venissero scambiati per notizie reali, in particolare nel caso di racconti come Lo Spettroscopio dell’anima che hanno un taglio giornalistico e perfino un inizio conforme (“Boston, 13 dicembre”). Per ridurre al minimo il rischio, i protagonisti vennero spesso dotati di nomi buffi o un po’ stupidi: il nome del geniale scienziato tedesco Dummkopf, nella sua lingua, indica un idiota.

Fonte:  http://www.vaporteppa.it
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