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29/10/12

Quello di Genova


Alla radio e alla televisione dicono che ha vinto quello di Genova. Il comico nuotatore. Io non lo so come andrà a finire che poi ormai sono emigrante e non putissi mancu parrari. Però so solo che come sempre arrivunu nella mia terra e fanno le rivoluzioni. Rivoluzioni di cartapesta. Che tutto abbrucia e scalda subito prima che il gelo prende per anni e anni.  Quelle rivoluzioni che ci sono sempre state che qualcuna lho vista anch'io. Che se le rivoluzioni fossero vere allora sarebbe un guaio serio per chi comanda.
E' accussì da sempre. Io sarò ignorante ma ammia me le hanno raccontate le cose i nanni e con la loro voce i nanni dei nanni.
Io lo so che quando arrivo Garibaldi che tutto doveva cambiare i siciliani ci provarono a prenderlo sul serio a quelluomo. Fu accussì che a Bronte pigghianu le pallottole dei liberatori e gli alberi furono chini di vuci.
Poi ci furono i fasci che tutti quelli delle campagne non ne potevano chiù e pensavano "Pigghiamula questa terra. Che è nostra. Che noi ci lavoriamo!" E allora arrivanu le cannonate che quello era socialismo e di socialismo in Italia non si doveva parlare.
Dopo lultima guerra che nella prima senera andata una generazione e prima e dopo ne era emigrata unaltra tutto pareva diverso. Aveva vinto la libertà dicevano lamericani. Solo che i puvirazzi e i sindacalisti forse non lo sapevano. Che a loro ci toccava ancora morte e miseria più di prima.  Fu accussì che tutto si sistemò per tanti anni.
Quando arrivò il mafioso di Milano tutti erano lì a sognare di diventare ricchi che quello era uno di successo e locchi non virevano e il cuore non sentiva. Insomma chistu puttava i soddi. Chivvaleva soffrire per i propri diritti?
Oggi cè il nuovo liberatore. Il messia di giornata. E tutto diventerà pulito. E tutto sarà scordato.
No sacciu come finirà che ora è ancora presto ma forse ci sarà un giorno per questo popolo. Un giorno in cui ci si accorgerà che è megghiu moriri ca ristari incatenati. Un giorno dove locchi saranno liberi e le orecchie e la bocca e le mani e i pinseri soprattutto. E il cuore.    

21/10/12

Plaisir d'amour

 
 
E lunghe ore a ingannarci così
a dire lui e lei,  sempre gli altri
e i palliativi son sempre tanti
per non ammettere che siamo qui.
E Charlie Brown e Mafalda e la scuola
storie un pò vere a volte inventate
nei pomeriggi d'inverno e d'estate
di strani voli su di una parola.
Quando cantavo Plaisir D'amour
tu mi guardavi e ridevi più forte
non lo capivi che ti facevo la corte
o forse capivi e la furba eri tu
e mi hai sospeso su un filo di lana
e mi ci terrai ancora per molto
giovane amore, fiore non colto
o forse sì; ma da un'altra mano.
E chi lo sa se anche tu mi vuoi bene
a volte credo di esserne certo
a volte invece sembra tutto uno scherzo
fuggono gli occhi come falene
amica mia sorella speranza
quello che vuoi io non ti dirò
quelle voglio io non sentirò
quello che c'è dietro l'indifferenza.
E tutto è morto e tutto è ancor vivo
e solamente tutto è cambiato
quello che provo l'ho sempre provato
e credo ancora in ciò in cui credevo
e il fiocco nero è l'unica cosa
che mi è rimasta con la malinconia
ma insieme a questa stanca anarchia
vorrei anche te, amica mia.
Ma dimmi tu non è meglio così?
Immaginare ed illudersi sempre
qui ad aspettare qualcosa o niente
qui ad aspettare un no o un si
che in ogni caso sarebbero fine
di tutto questo che almeno è un ricordo
così studiato giorno per giorno
fatto di tanti cristalli di brina.
 
Brano tratto da  Il lungo addio, albo n. 74 della serie a fumetti Dylan Dog, ideata da Tiziano Sclavi ed edito dalla Sergio Bonelli Editore. L'albo è uscito in edicola nel novembre 1992, scritto da Mauro Marcheselli (soggetto) e Tiziano Sclavi (sceneggiatura), disegnato da Carlo Ambrosini, con copertina di Angelo Stano.

18/10/12

Sylvia Kristel (Utrecht 28-09-1952 – Parigi 17-10-2012)



Oggi mossi Emmanuelle. Lho sentito alla radio che diceva che si chiamava Silvia e che era olandese anche se per me io lho sempre saputo il suo nome e che era francisi.
Insomma questa signora ca mossi ciaveva sessantanni e un cancro alla gola anche ma ammia mi scappau una lacrimuzza come se fosse stata una mia parente o una che conoscevo veramente.
Il fatto è che io quel manifesto dove cera lei assittata che era il suo primo filmi io quel manifesto me lo sognavo la notte e immaginavo cose che mi inventavo nella mia testa che tutti me lo dicevano che quella era una fimmina speciale.
Io a quel tempo ero ancora nicuzzo che mi accontentavo di cercare le mutande delle modelle che cerano sopra a Postalmarket oppure di leggere le storie in bianco e nero di Isabella e di Iolanda con gli amici dopo la partita di pallone. Epperò quella era una fimmina viva e la curiosità era tanta.
Insomma sognavo di taliarmelo questo filmi e poi dopo quando accuminciano le trasmissioni alla televisione che di notte uno doveva girare i canali per due minne a nura o una doccia della Fenech per un sacco di tempo ci sperai di vederlo veramente ma non ci fu fortuna e accussì me lo scordai dopo un po' di tempo che già ciavevo le prime fidanzatine e le mani che avvulavano mentre ora invece passau tanto tempo e sugnu vicinu ai sessantanni macari iu ormai.

14/10/12

Gli altri inverni

Hai tardato ad arrivare,
non fosse stata la geografia
sarebbe stato il censo
a dividerci
o altra inutile parola:
finchè gli dei non avessero deciso.


Ogni carezza, ogni pensiero
diviene, tra noi, necessaria
fobia.
Non due volte 
nello stesso fiume, 
ma neppure una volta sola.


In questo diradarci
è l'istante che verrà,
è il pungente
profumo dell'assenza,
l'unico possibile oggi.

12/10/12

"Le 24 ore settimanali: sfogo insolitamente lungo" di Anna Rita Vizzari

In genere non scrivo qua articoli di opinione o perorazioni: segnalo le risorse tecnologiche in modo rapido e stop. Ma ieri ci hanno ventilato - come soluzione ai mali dell'Italia - la reificazione di un timore e voglio parlarne.
La proposta è quella di portare da 18 a 24 l'orario di lezione settimanale degli insegnanti della scuola secondaria (di primo e di secondo grado). Ovviamente il peso morto da tagliare è costituito come sempre dagli insegnanti... chissà che cosa ne direbbe Freud.
Parliamo delle ore settimanali di un insegnante della secondaria.
Attualmente, un docente della scuola secondaria fa, in classe, 18 ore. Sottolineo: in classe.
Poi ci sono le ore degli incontri pomeridiani: consigli di classe, collegi docenti, riunioni di dipartimento, GLH, colloqui con i genitori et alia.
E infine c'è il lavoro sommerso effettuato a casa.
Suddetto lavoro sommerso ha le seguenti caratteristiche:
- un ambiente della casa adibito a studio piuttosto che ad altro (che so, camera per gli ospiti),
- un computer acquistato privatamente, senza possibilità di scaricarlo come fanno i professionisti,
- uso di stampante, carta e inchiostro di casa,
- uso della corrente domestica,
- utilizzo della connessione domestica.
Un lavoro svolto circondati da familiari (consorti e figli) che non riescono a capacitarsi che il loro caro ci sia e allo stesso tempo non ci sia. Come si può lavorare nelle ore che invece dovrebbero essere dedicate alla vita privata? Ma non è tempo libero, dico sempre ai miei cari, sono ore che per me è doveroso dedicare alla scuola.
Per questo ho sempre detto: 18 ore settimanali (più riunioni pomeridiane) vi sembrano poche? Bene, fatecene fare altre 20 a scuola per lavori d'ufficio, poiché di pomeriggio noi siamo tenuti a svolgere svariati lavori a casa:
- redazione di programmazioni e relazioni,
- predisposizione dei materiali,
- preparazione e correzione delle verifiche scritte,
- comunicazioni epistolar-telematiche con gli alunni per sempre più diffusi progetti tecnologici particolari,
- doveroso aggiornamento contenutistico e metodologico.
Ho detto lavori d'ufficio, non di classe.
Ossia, dateci un ufficio - tecnologicamente attrezzato - a scuola.
Non basta la sala professori, quello stanzino con una decina di sedie e senza la minima strumentazione. Intendo un ufficio ogni 3-4 professori, come avviene per qualsiasi altro impiegato della pubblica amministrazione.
Fa comodo non darci quelle ore, vero? Fa comodo che connessione, stampe e fotocopie le facciamo direttamente da casa, con scontrini e bollette a nostro carico. Il mancato riconoscimento delle ore extra dell'insegnante significa far risparmiare allo Stato cifre insospettabili.

Tra la laurea e il concorso a cattedre ordinario ho lavorato in un ipermercato come cassiera part-time. Facevo 24 ore settimanali, poi passate a 23 con lo stesso stipendio (un gradito regalo). Un lavoro massacrante (provate ad avere a che fare con clienti inferociti per cose che non dipendono da voi), tanto che quando ci spaccavamo la schiena per caricare scatoloni dal magazzino ci rilassavamo perché con la mente potevamo dedicarci ad altro. Era un lavoro inadeguato per una laureata, ma tornavo a casa e staccavo totalmente.
Con la scuola questo non avviene, non si stacca mai. Uno non fa l'insegnante, uno è insegnante. Per questo anche a distanza di decenni gli ex alunni ci chiamano ancora "Prof.".
Come mamma insegnante posso dire che il meglio dal punto di vista educativo lo riservo ai miei alunni, perché quando torno a casa ho bisogno del mio angolo di silenzio (dopo ore e ore in classi sempre più numerose), per cui con mio figlio che mi cerca perdo subito la pazienza che invece in classe mantengo fino allo spasimo.
E ricordo che mia madre, anche lei prof. di Lettere alle "medie", quando tornava a casa veniva assalita da noi figlie che ci sentivamo rispondere "Lasciatemi sola, mi rintrona la testa, ho bisogno di silenzio".
Facendo 24 ore settimanali inevitabilmente si ridurrebbero il tempo e l'energia da dedicare al lavoro sommerso (quello svolto a casa a nostre spese) per preparare materiali, correggere verifiche e tutto quello che ho elencato sopra. Perché, se lo Stato ci considera dei pesi morti che fanno lo stretto indispensabile, io inizio a fare lo stretto indispensabile, a livello di tempo domestico e anche di impiego di materiali acquistati personalmente. Questo giova alla qualità della formazione dei ragazzi?
Parliamo anche delle 24 ore in cui abbiamo la totale responsabilità su una trentina di minorenni, che non si possono assolutamente lasciare soli neppure per le motivazioni più sacrosante come l'andare in bagno per un bisogno fisiologico impellente o per cambiare il Tampax (un'insegnante può dire "Tampax" o deve dare l'idea del robot asessuato?). Non esistono necessità fisiologiche da assecondare: l'insegnante non può abbandonare la classe per cose così frivole come andare alla toilette. Un tempo si contava sui collaboratori, ma con i tagli inferti anche a quella categoria dobbiamo imparare a trattenere all'inverosimile.
E la qualità della didattica? La personalizzazione dei percorsi?
Ah però c'è lo spauracchio della valutazione Invalsi. Dobbiamo lavorare in funzione di quello... quindi quelle 24 ore settimanali le dedicheremo soltanto all'addestramento Invalsi, per avere capra e cavoli?
Sono stata farraginosa e incompleta, ma dovevo sfogarmi ed esprimere il mio punto di vista di insegnante appassionata prima di entrare a scuola. Perché oggi, a scuola, entro alle 10, con buona pace di chi odia la mia categoria.
FONTE: Una lavagnata al giorno

Oilproject

Oilproject è una scuola gratuita online gestita da studenti. Migliaia di video, testi ed esercizi sulle materie più disparate.
Chiunque può proporre contenuti. Il sogno è che entro dieci anni tutte le lezioni tenute nelle scuole e nelle università pubbliche vengano condivise online a beneficio, ad esempio, di chi vive in zone con una scarsa offerta didattica, combattendo così il digital divide culturale italiano. La qualità delle lezioni è giudicata dal pubblico attraverso votazioni e meccanismi di valutazione fra pari.
Oilproject, con più di 250.000 italiani che nell'ultimo anno hanno guardato almeno una lezione, è la più grande scuola online in Italia.

Il manifesto

La scuola che sogniamo noi non costa nulla.
Puoi entrarci sia da Torino, sia da Enna. Anche alle tre del mattino.
È una scuola che corre alla tua velocità perché sei tu a decidere di cosa parlare. A rispondere alle domande non sono solo i docenti, ma anche i compagni di banco.
Nella scuola che abbiamo in mente noi non contano i titoli di studio: chiunque può insegnare se in tanti lo vogliono ascoltare.
La nostra scuola è una condizione mentale. È una creatura in divenire.
La nostra scuola è di tutti.

La comunità

Nel 2004 un gruppo di ragazzi si incontra in un forum online di tecnologia. Ad uno mancano i soldi per iscriversi a un corso di programmazione in una scuola milanese, un altro non vede l'ora di insegnare a usare programmi di fotoritocco, un terzo è esperto di sistemi Linux, l'ultimo crea siti web. E allora decidono di farsi da soli una scuola non convenzionale in cui ognuno, semplicemente, può raccontare quello che sa a chi lo vuol star ad ascoltare.
La comunità è composta da migliaia di utenti di tutte le età decisi a condividere le proprie conoscenze e imparare dalle esperienze altrui sfruttando le tecnologie più dinamiche. I docenti di una lezione sono anche gli studenti di un'altra: non c'è netta distinzione tra chi insegna e chi impara. Chiunque può rivolgere domande in diretta web e votare quelle altrui.
Oggi gli insegnanti hanno dai 14 ai 75 anni. A volte sono perfetti sconosciuti, a volte sono intellettuali, imprenditori, esponenti politici, scrittori o scienziati. Tutti uniti per sperimentare la formula del Liberi di imparare, liberi di insegnare.
Ed è con questo spirito che ogni sera centinaia di utenti accedono alle lezioni, si scambiano dritte e consigli, scherzano, imparano ed a volte vengono richiamati all'ordine se troppo esuberanti.

09/10/12

Guerrieri del caos


ORE 05.17
L'Oulerio ha sfraccato il centrale. Non era mai successo! Ho subito cercato di dare la notizia al Commodoro, ma le comunicazioni si erano stranamente interrotte proprio nell'esatto momento dell'evento. Non so se ci sia una correlazione tra le due cose, anche se lo ritengo altamente probabile. Era una reazione attesa da molti. Io personalmente non credevo potesse succedere. Ho cercato nella cassetta degli attrezzi di Carla, pensavo di aver capito l'origine del guasto, ma non ho trovato altro che un dissalatore e la morsa di plastica del bimbo dei vicini.

ORE 07.21
Da più di due ore avverto una strana sensazione di vomito. Un'ora fa ho preparato la colazione per gli altri e preso una tazza di caffè. Esco per andare a lavoro senza aver potuto condividere la mia emozione. Le linee sono ancora mute e l'Oulerio ha ceduto parte della sua massa atomica.

ORE 11.43
I colleghi mi sono sembrati strani. In effetti oggi erano improvvisamente tutti calvi, anche le donne, anche le chiome più belle erano scomparse sostituite da fazzoletti di tela, di cotone, di seta. Però nessuno sembrava lamentarsene, anzi... mi sorridevano tutti come si sorride a un'alba.
"Buongiorno" ho detto loro, e poi mi sono rinchiuso nella mia cella. Speravo di poter comunicare dal mio gate di emergenza, di sentire qualcuno, di parlare.

ORE 12.05
Tutti i miei tentativi si sono rivelati infruttuosi, mi sento sempre più senza forze. Carla mi ha chiamato per chiedermi se mi andava di andare al cinema stasera. Ho risposto di sì e poi messo giù la cornetta, quindi ho chiuso gli occhi.
Quando li ho riaperti tutto aveva iniziato a liquefarsi.

ORE 15.01
Questo è il mio ultimo messaggio prima di abbandonare l'ufficio. Sono scomparsi tutti.   

ORE 17.55

Lo fisso da ore. L'Oulerio pare possedere forma umana. Forse è solo una mia fantasia, forse non sono pronto.

ORE 17.55
E' arrivato un segnale. Il Commodoro, finalmente. Lui sa, lui mi dirà ogni cosa! L'Oulerio ha ripreso massicciamente la propria attività. Lo sento nei miei pensieri, dentro il mio corpo.

ORE 18.


Questo racconto partecipa all'EDS 27 spousev paura! proposto da LaDonnaCamèl, insieme a:
0.10.35 - MaiMaturo
Vite malatelillina
WonderwallLa linea d'Hombre
Il collegaPendolante
La guardiana di ocheMelusina
CimiciHombre
Morgue - Melusina
Il prescelto - MaiMaturo
Gatto neroLaDonnaCamèl
Racconto banale
Pendolante


Fonte immagine:   http://theowlbear.blogspot.it/

01/10/12

Eric Hobsbawm (Alessandria d'Egitto, 9 Giugno 1917 – Londra, 1 Ottobre 2012)

Per chi, come chi scrive, ha cominciato a riflettere sulla storia, a pensare la storia e a pensare di fare della storia una professione avendo tra i propri riferimenti intellettuali principali quello di Eric Hobsbawm, lo storico britannico scomparso oggi a 95 anni, la morte di questi oggi a Londra lascia un senso di vuoto anche umano, oltre che scientifico e professionale.
Occidentale ma non occidentalista, aveva studiato l’Occidente nel tempo nel quale questo è stato al centro del mondo, motore del progresso, sociale, politico, tecnologico, economico. Irriducibilmente marxista e anti-colonialista aveva sempre percepito (anche nel suo lavoro sul Novecento come l’età degli estremi, tradotto solo in italiano come “secolo breve[1]”, il più noto ma non il più importante) la centralità di questo come un fenomeno storico, non un destino.
La storia per lui aveva continuato ad essere quella che aveva insegnato dalla fine degli anni ’40: una lotta tra il capitalismo e gli esclusi da questo. Una storiografia quella di Hobsbawm, che condivise con EP Thompson, Hill, Raymond Williams e altri storici marxisti, riconducibile alla cosiddetta “people’s history”, traducibile come “storia dal basso” nel contesto della “storia sociale”, che si imponeva in quegli anni come alternativa alla storiografia tradizionale e classista dei cosiddetti “grandi uomini”.
Contrariamente a quanto stanno battendo i giornali, ascrivendolo alla categoria di storico del Novecento, citando sempre e solo la sua opera più nota, Eric Hobsbawm è stato soprattutto un grande studioso dell’800. Aveva spiegato quello che per lui era il “lungo Ottocento”, dalla rivoluzione francese alla prima guerra mondiale, in una trilogia[2] ponderosa, tuttora illuminante nello spiegare la genesi della società di massa, del capitalismo moderno, dell’imperialismo, del nazionalismo e soprattutto il ruolo predominante della borghesia. Resta quello il suo contributo fondamentale, anche se l’individuazione del concetto di “invenzione della tradizione[3]” è tuttora chiave nel rinnovamento della storiografia contemporanea e nel demistificare i processi di costruzione della legittimità delle classi dirigenti e della storia ufficiale. In opinione di chi scrive è quello il più sovversivo dei contributi di Hobsbawm. Più sovversivo di quando ha scritto di banditi e rivoluzionari[4]. Bella penna, quella di Hobsbawm, preziosa per gli specialisti, illuminante e di piacevole leggibilità per il pubblico più vasto.
Di origine ebraica, come il suo coetaneo e omologo per prestigio e autorevolezza George Mosse, lasciò la Germania all’avvento del nazismo. Nato in Egitto poche settimane prima della Rivoluzione d’ottobre da padre inglese d’origine polacca e madre austriaca, dei quali rimase orfano ancora bambino, non aveva 14 anni ed era già iscritto al partito comunista.
In Gran Bretagna ebbe una lunga carriera accademica, tra Cambridge e il Birkbeck College di Londra, bloccata però per ben 23 anni al gradino iniziale di “lecturer”. Fin dal dottorato lavorò sulle origini della storia del movimento operaio. Militò tutta la vita nel piccolo partito comunista britannico nel quale rimase fino all’89. Non eluse le polemiche sul ruolo e sui crimini dell’URSS ma non soddisfece mai i suoi detrattori che avrebbero preteso abiure complete. Negli anni ’70 si schierò sulla linea degli eurocomunisti e resta celebre la sua intervista del 1977 a Giorgio Napolitano.
Già padre nobile della sinistra intellettuale britannica dopo l’89, nella notte oscura del thatcherismo provò disperatamente a tenere il partito laburista ancorato alla sua storia socialdemocratica. Appoggiò Neil Kinnock, del quale era uno dei principali consiglieri, ma fu infine sopraffatto dalla liquidazione totale blairiana. Memorabile fu la sua critica di Ronald Reagan e del reaganismo. La sua vita sarebbe però stata ancora lunga e continuò fino all’ultimo ad essere –insolito per un marxista- uno degli intellettuali britannici più ascoltati e riconosciuti. Non ho mai conosciuto personalmente l’autore de Il trionfo della borghesia (dovendo sceglierne solo uno non avrei dubbi) ma, tra i grandi storici del XX secolo, è sicuramente con lui che mi sarebbe piaciuto sedere al caminetto a discutere di rivoluzioni e capitalismo, borghesia e socialismo, colonialismo e imperi.


[1] The Age of Extremes: the short twentieth century, 1914–1991, Londra, Michel Joseph, 1994 (ed. it. Il secolo breve, Milano, Rizzoli, 1995).
[2] The Age of Revolution: Europe 1789–1848, Londra, Abacus, 1962; The Age of Capital: 1848-1875, Londra, W&N, 1975; The Age of Empire: 1875–1914, Londra, W&N, 1987. In italiano: Le rivoluzioni borghesi. 1789-1848, Milano, Il Saggiatore, 1963; Il trionfo della borghesia. 1848-1875, Roma-Bari, Laterza, 1976; L’Età degli imperi. 1875-1914, Roma-Bari, Laterza, 1987.
[3] E. Hobsbawm, TO Rangers (Eds), The invention of tradition, New York, Cambridge University Press, 1983.
[4] Bandits, Londra, W&N, 1973; Revolutionaries: Contemporary Essays, Londra, W&N, 1973.
FONTE: Gennaro Carotenuto su http://www.gennarocarotenuto.it
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