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26/05/13

Cuncittina

Quando trasii nella stanza tutto era loddo di sangue.
Era come se ci avissero gettato una sicchiata per fare le pulizie del pavimento e ora a terra era tutto vagnatu che io ci camminavo sopra e le mie scarpe ci lasciavano le impronte.
Ero con Vincenzo che mi aveva chiamato lui al telefono:
"Curri! Curri!" mi aveva detto "Cuncittina non apre alla porta e io ho la sensazione che sia successo qualcosa di lariu"
Cuncittina era stata la nostra prima fimmina. Cioè no insieme che quello nemmeno lei lo voleva ma prima diciamo così era stata la sua zita e poi dopo un po’ la mia che tutto era stato certo per caso ma comunque così era andata.
Ora Cuncittina viveva sola in una vecchia casa di dopo la guerra che era rimasta non si sa come in mezzo ai palazzi nuovi che avevano fatto a Librino e io lo sapevo che quel pezzo di terra lo volevano in tanti e a lei ce lo avevo detto: "Vendila questa casa che con i soldi ci fai la signora" ma lei non aveva voluto ascoltarmi che: Ormai sono vecchia e vogghiu moriri cà!" maveva risposto e cera riuscita pareva.
Vincenzo aveva pigghiato una scala ed era entrato dalla finestra del primo piano che portava alla cucina e io lavevo seguito anche se facevo più fatica di lui a fare queste spittizze acrobatiche. In mezzo al sangue ci guardavamo in silenzio che nessuno sapeva bene che fare. Se continuare e trovare il cadavere o fermarsi e chiamare la polizia macari che forse era questa la cosa migliore.  Alla fine in effetti fu questa la decisione. Che allora rischiavamo non si sa mai di essere accusati noi di quello che era successo. Vincenzo pigghiò il telefono e spiegò ogni cosa poi nassittamo e naddumamu una sigaretta.
"Io quando lho conosciuta non lo sapevo mica come era fatta una fimmina. Cioè lavevo viste le foto e i film e tutte le altre cose ma non lo sapevo lo stesso che una fimmina è tutta unaltra cosa da quello che uno si immagina e anche da quello che ti dicono”
"Io mi ricordo che sparivi e non lo sapevo più dove eri finito che ci mancava sempre uno per la partita al pomeriggio e però non ti volevo chiedere niente che lo sapevo che saresti tornato”
"E' che era una cosa solo mia e poi tannicchia mi vergognavo di questa spittizza che mi sembrava peccato che lei ciaveva dieci anni chiossai di mia e di tia e u zito macari. Poteva essere pericoloso”
"Io invece quando lho incontrata già era muntuata che quello lo zito aveva detto a tutti ai suoi amici che ai masculi quella donna ci faceva vedere le stelle”
“Ma su mancu ciarrinisceva! Cuncittina mi cuntava che lui arrivava che non cerano i suoi e si spugghiava subito di primura e tutto pareva andare bene solo che poi chianceva perché non ciattisava e si rivestiva e non si faceva viriri per mesi.”
“A mia mi piaceva quando che avevamo finito mi accarezza i capiddi come a un picciriddu e sorrideva che pareva una madonna”
“Cummia invece cumannava e io ero il suo pupazzo che non potevo disubbidire e se non facevo come lei diceva non mi voleva più e passava tempo”
"E comu finiu?”
“U sai! Poi ho conosciuto a Francesca”
"Ah vero! Io invece non ci siamo mai lasciati che però non siamo mai stati insieme. Io passavo a prendere un caffè oppure lei mi chiedeva di venirla a trovare e insomma eravamo amici.”
Nella cucina cera silenzio. In tutta la casa non si sinteva nenti.
Noi continuavamo a fumare e a parlare che di spostarsi nuddu ciaveva voglia. E poi quanto arrivò la polizia invece Vincenzo si affacciò alla finestra e si fici viriri mentri quelli scassavano la porta.
Cuncittina era proprio allentrata che lavevano squartata come a un agnidduzzu e quando siamo scesi cera un lenzuolo sopra a quel corpo e però ci niscevano le mani e i piedi e io ci visti una fede nel dito e Vincenzo invece un braccialetto nella caviglia ma di questo poi non siamo sicuri che tutti e due volevamo solo vomitare. 


Scritto per l'EDS - Non cosa ho veduto, ma come l'ho veduto - proposto da La Donna Camèl - come anche:

- Dove una madre, di Hombre
- Trasposizione di un amore, di Lillina
- Foto di classe, di Pendolante
- Il fazzoletto bianco, di Pendolante
- Povero edipo di Melusina
- L'amore informale di due anime in guerra di Lillina
- Essere nutria oggi di La Donna Camèl
- Il fotografo di Effe

24/05/13

"Una serata in Romagna" di Paolo Nori

Ho sentito per radio che, tra le varie correnti che compongono, oggi, il Partito Democratico, c’è anche la corrente dei veltroniani e mi è venuto in mente di quando, anni fa, un mio amico stava organizzando una serata, in Romagna, sulla letteratura americana, e sarebbero stati presenti Walter Veltroni, Fernanda Pivano e io; e io, che non so niente di letteratura americana, e non ne sapevo niente neanche allora, avevo detto di sì perché sarebbe stata l’occasione per chiedere a Veltroni: «Ma lei, ha detto veramente di non essere mai stato comunista?». Dopo la serata non l’han fatta. Ecco io, quando l’altro giorno ho sentito parlare per radio dei veltroniani, ho pensato che oggi, secondo me, se mi proponessero una cosa del genere, direi di no, perché quella curiosità lì che mi muoveva allora, di sapere se Veltroni aveva detto veramente di non essere mai stato comunista, oggi non ce l’ho più. Cioè, oggi, da quelli lì, ormai, io, e qualcun altro, anche, credo, mi aspetto di tutto. Cioè se, per esempio, il sindaco di una città di provincia promette di far chiudere un inceneritore, e poi lascia tranquillamente che lo aprano, se promette di abbassare l’Imu, e poi la alza, se promette di sovvenzionare un’orchestra cittadina, e poi la chiude, se promette di abbassare le rette delle scuole materne, e poi le alza, se promette di smetterla con il consumo di suolo, e poi continua tranquillamente a consumarlo ecco, oggi, se devo dire come mi sembra, son tutte cose che mi sembra già di saperle prima ancora che succedano; non son neanche notizie, sono conferme delle teorie che un filosofo russo, Aleksandr Zinov’ev, ha tirato fuori quasi quarant’anni fa, nel 1976, quando in un suo libro, Cime abissali, ha formulato alcune leggi sociali tra le quali la legge che «Arrivano gli arrivisti», e la legge che «Tutto quello che è ufficiale, è falso», che è una cosa che a me sembra vera anche per quello che mi riguarda, se penso a quando da giovane scrivevo per esempio dei curricola, devo riconoscere che l’immagine che davo di me in quei curricola lì era un’immagine ufficiale, e falsa, che, a leggere quei curricola lì non mi avrebbero riconosciuto neanche i miei genitori e mi viene in mente che a Parma si dice «Esser falsi come una lapide», e non è neanche una cosa nuova, a pensarci, perché fin dal 1865, Charles Dickens scriveva, in un romanzo che si intitola Il nostro comune amico: «La piazzetta li condusse a un piccolo cimitero: era una piazzetta lastricata, quadrata, con in mezzo un monticello di terra alto quanto il petto di una persona, chiuso da una cancellata tutt’intorno. Qui, a un livello opportunamente e saltuariamente elevato rispetto a quello dei vivi, stavano i morti nelle loro tombe; e queste erano per lo più storte e pendenti da una parte, come se si vergognassero delle menzogne che portavano scritte».

Fonte: Paolo Nori

"L’arte di far finta di niente" di Slawka G. Scarso

L’arte di far finta di niente
va praticata con precisione.
Necessita di forbici minute
e lime tascabili per rifinire
il dettaglio che lascia trasparire
l’essersi accorti di qualcosa.
Richiede poi costanza
e attenta dedizione:
non si può certo far finta
di niente un minuto, e poi
subito ricominciare
a puntualizzare le sfumature.
Solo la pratica attenta,
incessante, permette
di reagire all’occorrenza
nel più silenzioso dei modi.
Di guardare altrove, di restare
con le labbra immobili
ma naturali, come se niente
fosse stato detto,
come se niente
fosse stato notato.
E’ consigliabile se si viene derisi
Raccomandabile con i pedanti
Indispensabile con gli invidiosi.
L’arte di far finta di niente
non vuol dire certo tenersi
tutto dentro. Piuttosto
come sa bene l’attento praticante
di quest’arte da valorizzare
vuol dire che certe cose
non vale proprio la pena notare.

Fonte : nano pausa, micro lettura

11/05/13

Amo come l’amore ama




Amo come l’amore ama.
Non conosco altra ragione di amarti che amarti.
Cosa vuoi che ti dica oltre a dirti che ti amo,
se ciò che ti voglio dire è che ti amo?

Fernando António Nogueira Pessoa, da Faust (a cura di Teresa Sobral Cunha, traduzione di Maria José de Lancastre), Einaudi, 1989

10/05/13

Amo i gesti imprecisi di Valerio Magrelli

Amo i gesti imprecisi,
uno che inciampa, l’altro
che fa urtare il bicchiere,
quello che non ricorda,
chi è distratto, la sentinella
che non sa arrestare il battito
breve delle palpebre,
mi stanno a cuore
perché vedo in loro il tremore,
il tintinnio familiare
del meccanismo rotto.
L’oggetto intatto tace, non ha voce
ma solo movimento. Qui invece
ha ceduto il congegno,
il gioco delle parti,
un pezzo si separa,
si annuncia.
Dentro qualcosa balla.

Valerio Magrelli (Roma, 1957), da Nature e venature (Mondadori, 1987)

Fonte:  http://ipoetisonovivi.com

09/05/13

"Prima lavatevi la bocca" di Alessandro Gilioli



Alessandra Galli, la presidente della Corte d’appello che ieri ha condannato Berlusconi, era una mia compagna di scuola, al Berchet di Milano, più di trent’anni fa.

L’ultima volta che l’ho vista era in lacrime, poco dopo l’omicidio di suo papà.
Era l’anno della mia maturità, lei si era diplomata l’anno prima e faceva già Giurisprudenza, alla Statale: dove appunto uccisero suo padre.
Anche lei, Alessandra, era in Statale quel giorno. Al bar, mi pare. Era da poco primavera e nei giardinetti della Guastalla, lì accanto, erano appena fiorite le Forsythie gialle.
Non eravamo amici stretti, ma la conoscevo abbastanza. Soprattutto perché durante il liceo stava con un uno dei miei migliori amici, uno di quelli che vedo ancora adesso.
In quegli anni di manifestazioni, occupazioni e cortei, Alessandra si teneva in disparte. Non faceva politica, né come militante né come simpatizzante. Anzi, guardava con un po’ di altero distacco noi che facevamo ‘casino’. Lei studiava e basta. Mi pare che avesse la mezza idea fare la grafica, da grande, prima di decidersi a seguire le orme del padre: a fare della legge e della sua applicazione un culto e una ragione di vita.
Immaginatevi quanto possa essere ‘comunista’ e ‘toga rossa’, poi, una che ha visto il papà ammazzato da Prima Linea.
Ma pensate anche a quanto sia indecente l’accusa di aver emesso, lei, «una sentenza politica per favorire i disegni disgregatori del nostro Paese, con una condanna che non colpisce Berlusconi ma chi l’ha pronunciata» (Brunetta). O di «voler allontanare la stagione della pacificazione negando con ostinazione la verità» (Schifani). O peggio ancora – mio Dio, che cattivo gusto – di essere un giudice «armato fino ai denti, guerrafondaio e inconsapevole della fine della guerra» (D’Alessandro).
Lavarsi la bocca, questo solo dovrebbero fare, questi coprofili del Caimano, prima di parlare di Alessandra Galli.

Fonte: Piovono rane di Alessandro Gilioli

08/05/13

"Poi di chiddu c'era sei chila di robba, sei chila... "

"Ricordo anche un altro particolare. Mentre stavo ultimando il sopralluogo, proprio perché non c'era più nulla da fare, mi posi il seguente interrogativo: può il corpo di una persona ridursi in quel modo, senza la possibilità di trovare una sua parte più consistente?"

Fonti:
http://peppinoimpastato.tumblr.com/
Commissione Antimafia - Comitato di lavoro sul caso Impastato -

Filadelfo Cusumano [fine]

Ora  avvocato lo so che voi state ridendo che non è possibile che uno cunta la storia di quando era nico e andò a sbattere contro un ramo e dice che è importante, ma io sono serio che punto uno non lo so se è vero che tutto quello fu colpa dell’albero e punto due da quel giorno cambiò la mia vita.

Io me ne accorsi solo per caso di questa cosa che poi ci vosi tempo per capirlo davvero.

Il fatto è che quando ci diceva a lei nella mia testa succedeva qualche cosa che io lo sapevo cosa sarebbe successo dopo. Fu così che un paio di giorni dopo quando al mio compagno di classe Ignazio ci arrubbano le figurine e lui si lamentò con me io nella mia testa visti la maestra trovarle nella tasca del grembiule di Ciccio,  il figlio del farmacista,  e questo fatto però avvenne solo a fine giornata che io non potevo saperlo prima. E anche quando Sara se ne andò a studiare a Giarre io lo vidi nascere quel bambino che ci sarebbe cresciuto nella panza e che non era mio anche se poi me la maritai lo stesso a quell’angelo. Oppure quando stavo per partire per l’Africa che la nave era pronta a Palermo io lo visti la fine che faceva arrivata nell’oceano e arristai a casa e mi misi a chianciri che lo sapevo che nessuno mi avrebbe creduto.

Insomma avvocato io mi sono trovato a sapere tante cose e tante volte queste cose non le ho mai potuto dire e altre invece mi sono servite nella vita che a scangiare il bene con il male ci vuole picca se la verità non la si conosce. E anche ora avvocato io ci voglio dire che quel mischino che lei ha fatto condannare io lo so che non l’aveva ammazzata lui a sua moglie. Quello purazzo si era solo innamorato che anche lei ci voleva bene e si erano iniziati a vedere senza fare male a nessuno. Neanche a lei e ai suoi intrallazzi che a loro non ce ne fotteva niente di soldi e di potere. Solo che lei avvocato quando lo ha scoperto non ci poteva passare sopra che gli amici allora non lo avrebbero più preso sul serio. Che dire? Accussì certe volte vanno le cose della vita solo che io lo so, l’ho saputo quando visti la mischinazza, prima di moriri, chianciri a casa di mia moglie Sara che lei, mia moglie, ci faceva le suvvizze e l’aiutava alla sua signora.

Ecco ora che sono morto e che lei lo ha letto questo foglio io ci vulissi dire che quel dolore che sente al petto è il cuore e che tra poco ci conosceremo meglio, ma forse questo non glielo dico che poi lei ci potrebbe anche credere e magari si scanta.  La saluto, saluto tutti.

In fede,

Cusumano Filadelfo di fu Cirino 

05/05/13

Happy Birthday, Karl


"Voi inorridite perché noi vogliamo abolire la proprietà privata. Ma nella vostra società la proprietà privata è abolita per nove decimi dei suoi membri. Ed esiste per voi, proprio perché essa non esiste per quei nove decimi.
Ci rimproverate dunque di voler abolire una forma della proprietà che non può esistere, se non alla condizione di privare di qualsiasi proprietà l’immensa maggioranza della società.
Insomma, ci accusate di voler abolire la vostra proprietà. È vero: la nostra intenzione è proprio quella."

Fonte: Il Manifesto del Partito Comunista (1847)

Filadelfo Cusumano [4]

Mi spostai un poco avanti per vedere se c’erano altre strade per scinniri nel bosco, ma non ne trovai nessuna e così mi fici quei gradini di corsa che non la volevo perdere alla mia amica e arrivai presto in un piccolo spazio tra gli alberi che sembrava come a un cerchio verde pieno di sole.
Sara si era assittata lì,  in mezzo all’erba alta con le gambe incrociate e la gonna bella sistemata per non piegarla.  Guardava fisso davanti a lei come se ci fosse qualcosa, ma io non vedevo niente neanche piegandomi per guardare dove guardava lei e allora mi ci misi davanti che con l’ombra la coprivo tutta e aspettai di sapere. Sara  però continuava a non parlare. Aveva solo questi occhi fissi e una calma che non le avevo mai visto.
Non lo so quanto durò questo momento che il tempo certe volte non lo puoi calcolare e ti passa davanti che possono essere minuti oppure ore senza che c’è differenza.  Quello che so è che a un certo punto io ci misi la mia mano davanti agli occhi e lei sembrò riprendersi e mi diede la sua di mano e io,  io mi arrivò dentro una energia, una forza che non avevo mai avuto prima. Una specie di scossa che dalle dita passò alla mano, al braccio, a tutto il corpo e non potei fare a meno di chiudere gli occhi e di sentirla tutta quella forza. E poi quando li ho riaperti eravamo nella trazzera e Sara mi taliava preoccupata che io ero sdraiato a terra e nella mia mano c’era sangue e altro sangue mi gocciolava da sopra l’occhio. Lei mi indicò un ramo sopra di me e poi si mise a ridere.
Anche Sara sera macchiata il vestitino di sangue e così in silenzio siamo ritornati a casa che quella storia non aveva senso e io non avevo nemmeno provato a raccontargliela, anche se me la ricordo bene anche oggi, anche se a ripensarla mi sembra di sentirla di nuovo quella forza. E sarebbe bello.

04/05/13

Filadelfo Cusumano [3]

Quando successe il fatto era una mattina di maggio che a scuola ci avevano fatto uscire prima per via che mancavano l’acqua e la luce. C’era stata l’ordinanza del sindaco disse la maestra e poi ci ittò fuori dalle stanze. L’Etna buttiava a intervalli regolari che di lì a poco ci sarebbe stata l’eruzione, ma questo ancora non lo sapevamo.
Io e Sara ne avevamo approfittato per cambiare percorso che nelle campagne, la settimana prima, avevamo scoperto una piccola trazzera. Noi non ci avevamo mai fatto caso a quella a causa del fatto che era pieno di more, i contadini però in quei giorni avevano levato tutte quelle piante che forse avevano intenzione di seminare qualcosa e così era venuta fuori quella striscia di pietre antiche. Noi comunque eravamo curiosi, prima però eravamo passati a lasciare i libri e i quaderni nella casa del massaro Nino che con quelli non era possibile muoversi bene e a prendere le armi che conservavamo.
La trazzera era bella lunga e faceva tutta delle curve strane per finire poi davanti a un fosso. A  guardare bene si vedeva che proprio lì c’erano dei gradini che scinnevano di assai anche se erano ammucciati dalle piante. C’erano castagni antichi e giovani e quercie, lecci,  cerri, pini in quel pezzo di terra che si vedeva dall’alto. Era tutto ammiscato e fitto fitto come se gli uomini non ci passassero da secoli .
Io guardavo tutto con meraviglia e tannicchia di scantazzo anche che qualcosa mi diceva che era meglio tornare a casa. Sara invece aveva già iniziato a scendere che quasi non si vedeva più la testa a causa dei rovi che si univano al muretto per fare una specie di arco nella scinnuta.

Filadelfo Cusumano [2]

Alla caccia ci andavo con Sara Tricomi, la figlia del massaro Nino. Sara ci aveva un anno meno di mia e però eravamo nella stessa classe che sua madre ci aveva fatto fare la primina dalle suore. La maestra a Sara la trattava come a una principessa che la picciridda ogni fine settimana le portava il bendidio dalle campagne dove lavorava il padre.
Io con Sara facevamo la strada insieme e passavamo dalle case e dalle terre che ci piaceva correre sopra alla pietra lavica e acchianare nei rami degli alberi più alti. Il pomeriggio poi io andavo nella sua casa a giocare che le nostre madri si conoscevano e le famiglie macari.
L’arco l’avevo lasciato dentro al baule grande di vimini che lei teneva nella sua stanza e insieme giocavamo nel cortile e nel giardino che ci divertivamo. Lei però non voleva mai essere salvata nelle cose che ci inventavamo e così finiva che nelle nostre storie eravamo quasi sempre due guide apache. Come quelle dei fumetti accattati la domenica davanti alla chiesa.
Lei si era fatta una fionda potente con la camera d’aria della bicicletta e io l’avevo anche aiutata che ero bravo con il coltello ma lei con quella era proprio diventata esperta  che certe volte riusciva anche a battermi quando qualcosa si muoveva in mezzo alle foglie. Però questa sua spittizza se la doveva tenere ammucciata che a sua madre non ci piacevano quei giochi da masculazzo e appena poteva ci controllava a tutti e due dalla finestra che così si sentiva più tranquilla.

02/05/13

Filadelfo Cusumano

Io Filadelfo Cusumano di fu Cirino, santaffioto per parte di padre e catanisi per parte di mia madre, con la presente scrivo che mi voglio liberare di un peso che mi grava e mi è gravato assai nella mia vita e dico a chi lo troverà di consegnare al mio avvocato questa mia confessione non appena sarò morto che lui la potrà leggere a tutti e farne memoria.
Io nascii in una casa vicino alla "Castagna la navi" che fu un incidente quello. Mio padre non ci arrivò a portare mia madre fino all’ospedale a Giarre che il suo compare con la macchina arrivò tardi e allora l’aiutarono le vicine che già erano state avvisate, ma quella nascita forse segnò la mia vita che sarà stato per questo che me ne andai a lavorare al porto quando arrivò l’età.
Ora io non voglio annoiare a nessuno che cunto la mia infanzia che di sicuro fu come a quella di tanti altri. Per tirare avanti la famiglia mio padre andò da certi parenti in Germania e io arristai nella casa con mia madre e mia nonna Teresa che a quel tempo mio nonno Filadelfo era già morto. Invece non li ho mai conosciuti i genitori di mia madre che quelli quando seppero che lei era incinta la ittarono fuori dalla loro casa per la vergogna a causa della sua età che era ancora una picciridda.  Però ogni tanto li sentivo nominare ammucciuni in qualche discussione e a volte sentivo mia madre che chianceva senza farsi vedere dopo questi fatti. Una volta pensai anche che fossero loro che si erano riconciliati quando due vecchi tutti allicchitiati vennero a fare visita a nonna Teresa. Si assittarono a prendere il caffè e a mangiare i rami di napuli che ero stato mandato a comprare dalla Zia Santina, la vecchia del negozio dei dolci. Per me avevano portato un arco dellindiani ma questo lo scoprii solo la mattina dopo che era il tempo dei defunti e io trovai l’ossa dei morti e i fichi secchi e quest’arco per l’appunto che ne fui felice. Quando se ne sono andati nonna Teresa disse che erano parenti suoi e io non li ho più visti a quelli.
Con quell’arco io ci davo la caccia alle zazzamite e ai suggiteddi e qualche soddisfazione me la sono levata nel tempo che sono diventato pure bravo e veloce.

01/05/13

Buon Primo Maggio



Una camicia di colore scuro, sporca di polvere, fotografata tra le macerie. Sul tessuto, l’etichetta verde acceso, inconfondibile: “United Colors of Benetton“, recita la scritta. Dalle macerie del Rana Plaza, il palazzo di otto piani alla periferia di Dacca, in Bangladesh, che lo scorso mercoledì si è sbriciolato uccidendo almeno 381 operai, cominciano ad affiorare le prime verità. Le fabbriche tessili che avevano sede nel palazzo, e i cui dipendenti lavoravano in assenza delle più elementari condizioni di sicurezza, producevano capi di abbigliamento per conto di multinazionali occidentali, tra cui a quanto pare Benetton. L’azienda veneta aveva in un primo primo momento negato legami con i laboratori venuti giù nel crollo, ma lunedì, dopo la pubblicazione delle foto, su Twitter è arrivata una prima ammissione: “Il Gruppo Benetton intende chiarire che nessuna delle società coinvolte è fornitrice di Benetton Group o uno qualsiasi dei suoi marchi. Oltre a ciò, un ordine è stato completato e spedito da uno dei produttori coinvolti diverse settimane prima dell’incidente. Da allora, questo subappaltatore è stato rimosso dalla nostra lista dei fornitori“.

La polvere è ancora sospesa nell’aria, le grida risuonano strazianti, i soccorritori cominciano ad arrivare. Fin dai primi istanti successivi alla tragedia, gli attivisti accorsi a Savar, il sobborgo a 25 km a nord est di Dacca dove sorgeva il palazzo, parlano di capi di abbigliamento prodotti per grandi marchi occidentali rinvenuti tra le macerie ancora fumanti. Tra questi anche articoli firmati dall’azienda di Ponzano Veneto. Che prontamente smentiva: “Riguardo alle tragiche notizie che provengono dal Bangladesh – si legge in una nota diramata il 24 aprile – Benetton Group si trova costretta a precisare che (…) i laboratori coinvolti nel crollo del palazzo di Dacca non collaborano in alcun modo con i marchi del gruppo Benetton”.

Le foto, però, raccontano un’altra verità: scattate e pubblicate dall’Associated Press, ritraggono una camicia di colore scuro griffata Benetton tra i calcinacci, accanto a quello che pare la commessa di un ordine. Non solo: l’agenzia France Press fa sapere di aver ricevuto dalla Federazione operai tessili del Bangladesh documenti contenenti un ordine da circa 30mila pezzi fatto nel settembre 2012 da Benetton alla New Wave Bottoms Ltd, una delle manifatture ingoiate dal crollo. La dicitura “Benetton” appariva anche sul sito internet dell’azienda, all’indirizzo www.newwavebd.com, ma fin dalle ore successive al crollo la pagina non è più accessibile e in rete ne resta solo una copia cache. “Main buyers” (Clienti principali), si legge in alto a sinistra; più in basso, sotto la dicitura “Camicie uomo-donna”, l’elenco degli acquirenti: tra questi, numero 16 della lista, figura “Benetton Asia Pacific Ltd, Honk Kong“.

Nell’elenco altre tre aziende italiane: la Itd Srl, la Pellegrini Aec Srl e la De Blasio Spa, ma non è chiaro se al momento dell’incidente vi fossero ancora rapporti di lavoro in corso. La Pellegrini, anzi, specifica che le ultime commesse con la ditta bengalese risalivano al 2010. Un’altra ditta, Essenza Spa, che produce il marchio Yes-Zee, ha confermato di essersi rifornita al Rana Plaza. Ammissioni sono quasi subito arrivate anche dall’inglese Primark, dalla spagnola Mango (che ha confermato di aver ordinato merce per 25 mila pezzi), mentre France Presse ha rinvenuto indumenti griffati dall’americana Cato. La lista però è molto più lunga: la Clean Clothes Campaign, ong con sede ad Amsterdam, ha fatto sapere che la britannica Bon Marche, la spagnola El Corte Ingles e la canadese Joe Fresh hanno tutte confermato di essere clienti delle manifatture crollate. Un’altra società, l’olandese C&A, ha spiegato a France Press di non avere più rapporti con il Rana Plaza dall’ottobre 2011. L’ultima ad ammettere legami commerciali con il Rana Plaza è stata Benetton, che tuttavia assicura: “Un programma di verifiche a campione controlla in modo continuativo tutta la nostra catena di fornitura globale, per assicurare che tutti i fornitori diretti e indiretti lavorino in conformità con i nostri standard in tema di diritti, lavoro e rispetto ambientale”.

Bassi costi di produzione e pochi obblighi da rispettare: comprare in Bangladesh conviene. In un paese in cui l’industria tessile impiega circa 3 milioni di persone, in prevalenza donne, e crea ricchezza quasi esclusivamente per le multinazionali che comprano a prezzi stracciati i suoi prodotti, lo stipendio medio di un operaio si aggira sui 410 dollari l’anno. Ma le fabbriche della morte non si fermano mai. Secondo una stima dell’International Labor Rights Forum, oltre mille operai tessili hanno perso la vita in Bangladesh dal 2005 in incidenti causati dalle scarse condizioni di sicurezza dei laboratori. L’ultimo episodio a novembre, quando 112 persone morirono nel rogo della Tazreen Fashion Limited, a Dacca. Anche quella fabbrica riforniva aziende italiane.
Fonte: http://www.ilfattoquotidiano.it
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