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30/06/14

21/06/14

"Per leggere, non leggevano" di Simone Ghelli

Il problema era che non leggevano. Per scrivere, ormai sapevano scrivere tutti; ma non leggevano. E soprattutto, pretendevano che li si leggesse. Addirittura si arrabbiavano, se non li leggevi. Ti guardavano con quella faccia delusa, oppure ti fulminavano con lo sguardo. Se non andavi alle loro presentazioni ti cancellavano dalla lista degli amici, senza dare spiegazioni.
Fu così che mi ritrovai infatti a non avere più amici su Facebook: perché non andavo alle loro presentazioni, e neanche li leggevo più. A dire il vero avevo persino smesso di scrivere, pur di svolgere il compito che mi ero prefisso anni prima: rileggere da capo tutti i libri della mia libreria.
Preferii così, piuttosto che continuare a insistere e ad avvelenarmi il sangue; perché per scrivere scrivevano tutti, ma tra loro non si leggevano: peggio, s’ignoravano. Più d’una volta mi ritrovai infatti a questi convegni tra scrittori, che si davano certe arie per non si sa che cosa, se non per il gusto di dare a vedere di saperla più lunga. Mi ricordo infatti bene di questi loschi figuri, spesso un po’ tristi e abbarbicati ai loro libri, che non si curavano che di loro stessi: salivano sul palco, quando c’era, e leggevano sommessamente, come in un rituale privato (e forse, in cuor loro, dovevano sentirsi davvero dei sacerdoti del verbo, o qualcosa del genere). Leggevano il loro e se ne andavano, senza rispetto alcuno per le altrui parole; epperò poi pretendevano che li si leggessero, e anche attentamente, i loro libri, e si lamentavano della carenza dei lettori e della loro ignoranza: ormai hanno altre priorità, dicevano, e s’interessano soltanto al superfluo. Da quale pulpito arrivavano queste prediche, e quanti proseliti che hanno fatto!
Le persone s’iscrivevano in massa ai corsi di scrittura creativa, per i quali pagavano fior di quattrini; e anch’io ne ho fatti, lo ammetto. C’era anche chi sborsava mille o duemila euro pur di vedersi pubblicare i libri, per il gusto di avere anche loro qualcosa da mettersi sotto il braccio per definirsi scrittori; e ne ho visti persino girare per le fiere con in mano il loro romanzo incompreso, e supplicare in ginocchio gli editori purché li leggessero.
Li ho sentiti dire frasi del tipo: «Dopo di questo la letteratura non sarà più la stessa, dovrà pur rendersene conto!»
Oppure la mettevano sul personale: «Qua c’è tutta la mia vita, non può ignorare un fatto del genere!»
Erano nient’altro che richieste di attenzione, e per giunta tutte col punto esclamativo, a onor del genio che animava le loro opere. Allora presi l’abitudine di seguirli, di camminare al loro fianco per l’impervia via che conduce alla fama; e andavo alle fiere apposta per questo: per attenderli al di fuori, e pregarli allo stesso modo.
«L’hai letto questo?» chiedevo. «E quest’altro?»
Scuotevano la testa, si guardavano le mani, mi scansavano come la peste. La sola vista di quei libri li faceva trasalire e sudare freddo, o forse erano i nomi: era la prova che certuni avessero resistito agli assalti del tempo, era questo a farli piombare nel più oscuro sconforto.
Eppure non mi arresi, e spesi persino dei soldi per comprare libri da regalare; ma non li volevano, non c’era niente da fare.
«Ma come,» insistevo, «questo è Camus, non puoi non averlo letto! Preferisci allora Kafka? Dostoevskij? Almeno li conosci i tuoi contemporanei?»
Niente, non volevano niente, ad esclusione di un po’ di attenzione per la propria arte.
«Perché, invece, non mi leggi tu?»
E mi porgevano il malloppo, tutto spiegazzato per gli innumerevoli viaggi e le volte che già l’avevano sfogliato dinanzi a qualche editore annoiato. Ne ho una decina da qualche parte: centinaia di cartelle di cui ho letto poche righe, il tempo minimo per comprendere che avrei girato per ore attorno all’ombelico dell’autore.
Oltretutto, bisogna dire che questa piaga non aveva età né sesso. Essa colpiva indistintamente uomini e donne, giovani e vecchi. Si pubblicavano ad esempio i romanzi dei quindicenni, che a scuola non leggevano neanche più i classici o i libri per ragazzi, perché ormai si vendeva la vita dell’autore, non la storia che era stato capace di costruire. Era sufficiente che si raccontassero episodi di vita vissuta, cose che scandalizzassero per l’età acerba di chi le raccontava: insomma, sesso e violenza, oppure un po’ d’amore adolescenziale, che incuriosiva sempre. Un’altra moda fu poi quella di pubblicare i diari delle persone anziane, preferibilmente se semianalfabete e propense a denunciare i torti subiti o a rendere partecipi gli altri (gli ignoranti lettori) dell’illuminazione che li aveva colti al tramonto. Erano libri pieni di livore e astio contro la specie umana tutta, nel primo caso, oppure traboccavano di un ottimismo stucchevole e condito d’amore universale nel secondo.
Alla nostra società questi dovevano senz’altro sembrare dei modi per rendersi più democratica, per dare voce a tutti; che nessuno però ascoltava, e a maggior ragione col passare del tempo, che aumentava il rumore di fondo.
Le persone trovavano sempre il tempo per scrivere, ma mai per leggere. Le scuse erano delle più varie: il lavoro mi porta via troppo tempo; non ho soldi per comprare i libri; non si scrivono più i capolavori di una volta; alla sera sono stanco. Per scrivere, però, sembrava che stessero svegli persino di notte, in ostaggio del loro furore artistico. E anche coi soldi non andava diversamente: per birre e altri vizi ne avevano sempre in abbondanza, ma mai per i libri. Come facessero a scrivere, privi com’erano della necessaria curiosità, è sempre stato per me un gran mistero.
Non andava certo meglio con le biblioteche, dove andavano soltanto alcuni pensionati, e il più delle volte per dormire al caldo e senza troppi rumori. I pochi che chiedevano in prestito i classici, magari per ricordarsi della loro gioventù, venivano guardati con sospetto dagli addetti ai banconi: i quali si erano ormai specializzati in novità, e passavano l’intera giornata ad aggiornarsi sui nuovi titoli sfornati dal mercato.
All’inizio avevano dato la colpa a internet, e c’ero caduto persino io nell’errore. A chi me lo chiedeva, rispondevo: «Io uno di quegli aggeggi elettronici non lo comprerò mai! La letteratura è soltanto quella di carta!»
Sono stato miope, come tutti i miei simili. Ci siamo estinti per miopia, anche se poi per leggere mettevo già all’epoca gli occhiali da riposo. A parte la pessima battuta, devo ammettere che come intellettuale sono stato un fallimento, al pari di tanti altri impegnati a combattere battaglie di retroguardia per difendere le loro posizioni.
Quando hanno cominciato a chiudere le librerie, anche l’esercito degli scrittori ha iniziato a comprendere, ma non si sono ricreduti. Alcuni, i più convinti, si sono gettati anima e corpo nel digitale, ma la maggioranza ha desistito: era l’oggetto libro a interessar loro, il feticcio da mostrare con orgoglio ad amici e parenti.
La produzione di libri calò vertiginosamente, e per un attimo sperai che questo potesse incrementare finalmente il numero dei lettori. Se non scrivono più, mi dissi ingenuamente, forse ricominceranno a leggere. Malauguratamente non andò così, neanche quando crollò il prezzo dei libri. Andavo in giro per librerie e mercatini a fare incetta di copie, dove mi annusavo con i pochi superstiti della mia specie. Sembravamo degli zombie, ma lo stesso eravamo in schiacciante minoranza.
Se le librerie chiudevano, il mio progetto divenne allora quello di crearmene una tutta mia. Riempii casa all’inverosimile: così tanta carta che smisi persino di mangiare pasti caldi per il terrore che potesse prender fuoco tutto. La maggior parte delle cose non potevo neanche lontanamente sperare di leggerla, ma accatastavo libri, accumulavo storie. Certo, confidavo che mi sarebbero servite, ma mai avrei potuto immaginare di arricchirmici così tanto. Di tempo ce n’è voluto, e molto, ma chi ama leggere non ha certo paura del tempo.
Anche oggi, qui fuori della mia porta, è pieno di gente venuta in pellegrinaggio. Mi supplicano di vendergli almeno una copia, anche del romanzo più insulso (non ne ho, ma se proprio dovessi fare una classifica, sarebbero quelli relegati nelle ultime posizioni). Alcuni dicono che non sanno più niente, se non di se stessi. Allora esco fuori, con un libro, uno qualsiasi, e mi metto al centro di un cerchio che formano queste persone assetate di storie, prive ormai di ogni forma d’immaginazione. Mi metto in mezzo a loro e leggo; e se non fosse per me, per i miei occhi stanchi e la voce che si affievolisce, vorrebbero che non mi fermassi mai.
Lo so che a sentirlo oggi sembra tutto così assurdo, ma un tempo non funzionava così. Un tempo le persone non leggevano, né ascoltavano. Scrivevano e basta.
Fonte: minima&moralia

14/06/14

Natività

Carmelo nesci dalla casa e non lo sa dove vuole andare che per il momento è solo importante prendere aria e camminare e usare lossa e i muscoli.
Sè messo addosso una maglietta nuova accattata al mercato delle robbe usate americane. Cè una specie di orso darreri e davanti invece il marchio di una cosa che deve essere come la cocacola perchè cè stampato un bicchiere pieno vicino al nome e che però dentro cià il colore della merda.
I ginsi sono quelli di tutti i giorni e le scarpette macari che cià fatto ormai quasi due anni con quelle. Tutte blu con la striscia di gomma ianca in punta che non si legge più nemmeno la marca. Ma Carmelo forse non lha mai saputa.
Il cielo è azzurro con le scie. Quelle che ci mettono gli aerei per passatempo che poi venunu le malatie. C'è lha detta Nicola questa cosa che quello è allitterato e usa il computer ma Carmelo non cinni futti nenti che anzi sono belle quelle striscie e accussì decide di seguirne una e comu finisci si cunta.
Alla prima traversa i bidoni della munnizza gli bloccano la strada. Qualcuno forse vuleva giocare allindiani e fare le barricate e ci sono pezzi di vetro per strada e mobili scassati. Carmelo ci furia attorno e prosegue e camina e camina che inizia a surari e non lo sa più dove sta passando. E come se non fosse nessuno nelle strade e anche se ci sono Carmelo non se ne accorge. Cè solo quella striscia nel cielo e quella pisantezza che non se ne vuole andare. Una cosa che gli si è attaccata tra il cuore e locchi e che ci blocca la testa e i pinseri e la vuci macari. Forse lamici ci dicissuru che avrebbe bisogno di una bella sciarriata che coppa oppure di una fimmina. Oppure solo di una bella rummuta. Ma Carmelo non ci ha mai chiesto a nessuno. Non è nel suo carattere.
Per il momento camina e camina e ciauria laria come allanimali e segue la striscia comu sullavissa purtari davanti a una magia. "A Gesù Bambino" pensa allimprovviso. E la grotta cè a dire il vero proprio davanti a lui in mezzo alla sciara che non lo sa nemmeno come ci è finito lì.
I palazzi ci stanno tutti attorno e a Carmelo ci parunu come a giganti che fanno la guardia a quel pezzo di terra che è riuscito a resistere. Si avvicina chiossai che vede movimento davanti allentrata. Sono una para di marocchini ca rommunu lì allingresso e vicino cianno tutte le robbe del mare vestiti e teli e savvaggenti acculurati dalle forme più strane. Sembra che quasi non si accorgono di lui ma poi uno di loro rapi un occhio e Carmelo si accorge bene che quello lo talia e allora ci fa un sorriso comu su vulissi riri “Vengo in pace”. E laltro ci risponde che anche lui sorride. E poi chiuri quellocchio controllore e sembra a Carmelo che saddumisci di nuovo o almeno questa è limpressione.
Dentro alla grotta si sentono cani che abbaiano. A Carmelo non ci sono mai piaciuti i cani che più di una volta è dovuto scappare di corsa per non farisi pigghiare. Però si avvicina lo stesso che è come se non ne potesse fare a meno. Locchi ci stanno un po’ ad abituarisi. Nello scuro camina aleggiu alleggiu fino a quando una voce lo saluta. “Ciao Carmelo” ci fa la voce come se lo conoscesse.
Ora finalmente qualcosa si viri. Una sagoma prima. E poi una persona. Una donna?
A Carmelo ci pari chiossai una carusidda anche se nelle braccia ciavi un picciriddu chiu niuru di lei che ci suca la minna. Non lo sa perché ma casca nterra in ginocchio e accumencia a chianciri.

09/06/14

08/06/14

La Tachipompa tradotto da Martina Volpe

Edward Page Mitchell (1852–1927) non è un nome noto tra chi non è appassionato di fantascienza d’epoca. Anche tra gli appassionati non è famoso quanto Jules Verne o Herbert George Wells e, temo, nemmeno quanto il recentemente riscoperto Albert Robida. Forse è più conosciuto per essere stato dal 1903 caporedattore del Sun di New York, all’epoca un giornale che rivaleggiava con il Times.

Fu proprio sul Sun che Mitchell pubblicò i suoi racconti, ma a causa del buono stipendio come giornalista non cercò mai un successo editoriale come scrittore di narrativa. Un po’ il contrario della storia di Robert Anson Heinlein, che povero in canna scrisse il primo racconto per un concorso, sperando nel premio di 50 dollari. La fame può essere un buono stimolo a impegnarsi nella scrittura e la pancia piena uno a considerarla un hobby secondario, tristemente.

Suo collega giornalista fu quel Garrett Putnam Serviss che ancora oggi ricordiamo per Edison’s Conquest of Mars (1898), un seguito non autorizzato de La Guerra dei Mondi (1897) di Wells, in cui l’umanità sferra un attacco contro Marte per annientare col genocidio la minaccia marziana per sempre. Sarebbe meglio dire seguito legittimo della versione statunitense, pesantemente modificata da Serviss, e non autorizzata da Wells, Fighters from Mars. Effettivamente “ricordiamo” è una parola grossa, ma tra gli appassionati di fantascienza ottocentesca lo si conosce abbastanza. Un romanzo che ha degli aspetti interessanti, a livello storico, e che mi piacerebbe vedere prima o poi in italiano.

Poco interessato alla notorietà come scrittore, Mitchell finì nel dimenticatoio, conosciuto solo dai più attenti studiosi della storia della fantascienza, fino a quando Sam Moskowitz ripropose al pubblico i suoi racconti nel 1973 accompagnandoli con le informazioni biografiche sull’autore. Fu grazie a quella raccolta che il grande pubblico statunitense scoprì La Tachipompa, del 1874.

La Tachipompa fu il suo primo racconto pubblicato e ha dietro una storia curiosa. Nel 1872 Mitchell venne ferito all’occhio sinistro, mentre era in treno col finestrino aperto, dalla cenere rovente della ciminiera. L’occhio perse la vista, momentaneamente. Settimane dopo anche l’occhio destro divenne cieco, per oftalmia simpatica. Quando l’occhio sinistro guarì, il destro rimase cieco e dovettero rimuoverlo chirurgicamente, sostituendolo con uno di vetro. Durante la degenza post-operatoria ideò e scrisse La Tachipompa.

Ciò che incuriosisce de La Tachipompa è la sua ingegnosità: propone al pubblico il problema della velocità infinita ottenuta per piccoli incrementi partendo da sistemi di riferimento sempre più veloci. In questo caso, locomotive sopra altre locomotive, in serie di decine, centinaia o infinite.

Era un problema serio per l’epoca: la velocità infinita è ottenibile? Fu solo nel 1905, 31 anni dopo questo racconto, che Einstein pubblicò le sue prime memorie sulla Relatività Speciale e dimostrò che la massima velocità ottenibile nel vuoto è quella della luce (semplificando molto). Le locomotive di Mitchell, avvicinandosi alla velocità della luce, avrebbero sofferto sempre maggiormente gli effetti relativistici di contrazione della lunghezza e dilatazione del tempo.

Basterebbe questo racconto a far entrare Mitchell nella storia della fantascienza, ma non produsse così poco. Anzi, a mio parere questa non è nemmeno l’idea più interessante che ebbe. Dentro tutti i sette racconti proposti nell’antologia La Tachipompa e altre storie si nascondono idee innovative per l’epoca.

Tra chi ha una conoscenza poco approfondita della storia della fantascienza nel Lungo XIX Secolo, quando nacque, è comune l’errore di pensare che tante idee rese famose da Wells siano state portate al pubblico di quell’epoca per la prima volta da lui. Questi racconti di Mitchell nel mondo anglosassone, esattamente come le opere di Albert Robida in Francia, erano tutt’altro che ignoti al pubblico. Wells incluso, probabilmente.

Nulla di male nel fatto che Wells abbia scritto, in modo diverso, di idee già esplorate da altri: dire la propria su qualcosa di già sentito, dandogli un tocco personale diverso, è il motore dell’evoluzione nella narrativa. Quanti hanno scritto ispirati da Heinlein, da Doyle, da Asimov o da Omero? Talvolta imitandoli un po’, pure? Tantissimi, senza dubbio, ma come non attribuiamo ai successivi autori un qualche primato sulle idee di Heinlein o di Asimov, così non andrebbero attribuiti primati storici di pubblicazione a certe opere di Wells.

Prendiamo due delle sue opere più famose, La macchina del tempo (1895) e L’uomo invisibile (1897). Entrambi sono di solito citati come le prime opere in cui apparvero una macchina (non un trucco magico o uno svenimento o un viaggio extracorporeo/sovrannaturale) per viaggiare nel tempo e un uomo reso invisibile con mezzi scientifici.

L’orologio che andava all’indietro (1881) parla proprio di una macchina per viaggiare nel tempo e, ciliegina sulla torta, include anche dei paradossi temporali. Per chi lo ha letto: pensate alla fine di Harry e al testamento che gli assegna l’orologio, oppure a chi era zia Gertrude e al professore hegeliano.

Per avere il primo uomo invisibile noto della fantascienza, non per mezzi magici, ecco L’uomo di cristallo (1881). In questo caso trovo interessante sottolineare l’inizio dell’opera in cui il protagonista sbatte, al buio, contro l’uomo invisibile e usando quella che Sherlock Holmes chiamerebbe la “scienza della deduzione” ottiene una enorme quantità di informazioni corrette da pochi elementi ben notati: rumori, voce, tatto e azioni. Ricorda moltissimo certe scene nelle storie su Sherlock Holmes di Arthur Conan Doyle, per esempio l’analisi dell’orologio che effettua ne Il segno dei quattro (1890).

Talvolta le intuizioni di Mitchell non precedono solo la fantascienza, ma il futuro in generale, come accadde con Albert Robida e il suo Le Vingtième Siècle (1883). Prendiamo per esempio Lo Spettroscopio dell’anima (1875) in cui il dottor Dummkopf, tra le sue varie invenzioni in lavorazione, parla di bottiglie per catturare i suoni e rivenderli. Per esempio per poter vendere a meno di un dollaro le migliori opere liriche e teatrali che costerebbe dieci dollari sentire dal vivo. Tanto per ricordarlo, solo due anni dopo, nel 1877, venne realizzato il primo fonografo a cilindro Edison. Il mondo in cui vendere registrazioni di esibizioni dal vivo era ancora molto distante.

Rimanendo a tema di scoperte future, è interessante anche l’ucronia (per noi) ambientata nel 1936 di La Figlia del Senatore (1879). Con un veicolo sotterraneo si coprono in meno di un’ora i 700 km che separano Boston da Washington. Nella casa del politico Wanlee è mostrato come un oggetto comune il termoelettrodo che è, semplicemente, una stufetta elettrica. C’è la musica trasmessa via cavo direttamente da Parigi. Ci sono persino delle pastiglie capaci di nutrire un uomo per settimane, come quelle di certa fantascienza di 60 anni fa sulla vita nell’anno 2000.

Degna di nota l’animazione sospesa per mezzo di ibernazione, trattata con molta più intelligenza che in tanta fantascienza successiva: sapendo che il corpo non può essere congelato nelle sue funzioni o morirebbe, Mitchell immagina che le funzioni corporee siano solo molto rallentate e che il corpo, come in un coma profondo, si consumi un po’ alla volta per sostenersi. Altro che gente surgelata e risvegliata secoli dopo perfetta come prima (invece che ridotta a carne morta, con le molecole esplose per la dilatazione dell’acqua), per Mitchell perfino dieci anni in ibernazione possono ridurre un uomo sano in un moribondo consumato.

Passiamo a L’uomo più intelligente del mondo (1879) dove appaiono, a quanto fino ad adesso noto, la prima intelligenza artificiale creata dall’uomo e il primo cyborg. In questo caso un cyborg con un corpo umano e un cervello artificiale, non l’opposto. Curiosamente questo cyborg, il barone Savič, nella traslitterazione anglosassone del racconto originale ha lo stesso cognome dello scopritore del Teorema di Savitch, una pietra miliare della teoria della complessità computazionale in informatica.

La paura che il protagonista ha di questa intelligenza artificiale, così grande da poter un giorno dominare il mondo secondo il suo creatore, ricorda certi timori alla Terminator. Non che Terminator fosse particolarmente originale, per sentire parlare di intelligenze artificiali che si ribellano e poi di macchine che prendono il controllo degli USA e cacciano gli umani, basta risalire a opere di W. Grove come A Mexican Mystery (1888) e al suo seguito The Wreck of a World (1889), però è sempre un piacere notare come ciò che pensiamo originale del XX secolo sia spesso solo la riproposizione di idee del XIX secolo.

Infine l’ultimo racconto che chiude la raccolta, il più sopra le righe del gruppo, L’uomo senza corpo (1877). Qui le idee fantascientifiche degne di apprezzamento sono ben due: una testa separata dal corpo che continua a vivere e il teletrasporto. Dei due la testa in sé è l’elemento meno interessante visto che sopravvive e parla più per “magia” (perché sì, insomma) che per mezzi scientifici, a differenza di quelle del classico sovietico La testa del professor Dowell (1925, inedito in italiano) di Aleksandr Romanovič Beljaev. Passando al teletrasporto, non solo si tratta del primo noto nella fantascienza, ma anche del primo caso di un teletrasporto che finisce male. Molti decenni prima della scena iniziale del primo film di Star Trek.

Altri racconti di Mitchell, non presenti in questa raccolta, meritano anche loro attenzione. I sette racconti qui presenti possono essere letti in lingua originale in questa pagina e molti altri in quest’altra, grazie al progetto Gutenberg. Se questa prima raccolta avrà successo, sarebbe bello selezionare altri racconti per farne una seconda. Sta a voi decidere, comprandola, e nel frattempo potrete leggerli in inglese.

Una piccola curiosità finale sui racconti di Mitchell. Pubblicandoli sul Sun, impaginati in mezzo ad altri articoli, c’era il rischio che venissero scambiati per notizie reali, in particolare nel caso di racconti come Lo Spettroscopio dell’anima che hanno un taglio giornalistico e perfino un inizio conforme (“Boston, 13 dicembre”). Per ridurre al minimo il rischio, i protagonisti vennero spesso dotati di nomi buffi o un po’ stupidi: il nome del geniale scienziato tedesco Dummkopf, nella sua lingua, indica un idiota.

Fonte:  http://www.vaporteppa.it
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