09/01/20

Alfredo

"Lei non ha figli?"
Alfredo abbassa un po’ lo sguardo poi riprende a parlare d’altro.
Gli sembra che quella storia di cui stavano discutendo sia poco plausibile, montata a dovere per dimostrare che nessuno si salva, che tutti sono uguali. L’uomo con cui sta dialogando da più di un’ora riprende allora a elencargli date e avvenimenti, ma Alfredo non lo segue più.
Quando sente la voce di quello spegnersi dice solo:
"Ecco adesso mi è più chiaro" e si alza come si fosse ricordato in quel momento di qualcosa di importante da fare.
"E’ stato un piacere" aggiunge salutando. L'altro lo ferma porgendogli la mano.
"Potremmo vederci domani, lei viene spesso qui?" domanda.
"A volte" risponde Alfredo e si allontana.

Il sole è già andato via e l’aria è più fresca. Alfredo chiude il cappotto e sistema meglio il cappello sul capo. Sull'autobus che lo porta verso casa poche persone: un giovane immigrato che guarda passare le vetrine, una badante con una busta da supermercato sdrucita poggiata a terra tra le gambe, due ragazzi che si annusano innamorati.


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Capita che Alfredo sia molto distratto. E' facile per lui perdersi dietro il contorno di una nuvola o inseguendo una coccinella che lenta si arrampica sul muro. Capita.
E' successo anche oggi, mentre qualcuno gli parlava di catapecchie bruciate, di morti.
"Sono bruciati in due, gli altri li hanno cacciati via. Ci sono i caporali lì... e poi tutte quelle baracche... Come in Africa! Che vergogna!"
Alfredo era altrove. Il fatto è che qualcosa tra i rami dell'albero di fronte a lui pareva brillare e Alfredo non riusciva a stabilire se quel luccichio fosse dovuto a un piccolo raggio di sole che filtrava tra i fitti aghi o ad un semplice riflesso dovuto a qualcosa rimasto impigliato tra i rami, magari un oggetto portato lì dal vento gentile o da un uccello innamorato. Forse era solo una lacrima, una vecchia ferita della pianta oppure lo scherzo di una strana prospettiva che giocava a ingannarlo.
"Cosa ne pensa?" chiese quello e ad Alfredo sfuggì un incauto:
"Dobbiamo vedere, sarebbe meglio guardare con più attenzione"
I due si salutarono poco dopo.


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Alfredo aveva tentato di afferrare qualcosa di utile tra tutte quelle notizie che gli erano piovute in testa come pioggia battente.
Era ancora a tavola. Era stato invitato a cena da una sua vecchia amica e la loro conversazione, fino a quel punto abbastanza piacevole, era stata interrotta da un'espressione di sorpresa sul volto di lei (alla veloce lettura seguita a un bip d'avviso del cellulare) e dall'immediato arrivo (dopo un'affannata ricerca del telecomando) di un torrente di voci a commentare l'ennesima strage.
La televisione era alle sue spalle, ma lui non si era nemmeno voltato a guardarla. Piuttosto aveva atteso paziente che lei si decidesse a ritornare al loro incontro.
"E' incredibile, è incredibile" continuava a mormorare la donna. E poi:
"Ma come fai? Come riesci a non preoccuparti?"
Alfredo aveva alzato le spalle per poi riprendere a cenare da solo.
Il pesce era proprio buono, gli sembrava fosse anche un ennesimo affronto alle vittime e ai carnefici rovinarlo.


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C’è una strada del centro che Alfredo ama percorrere. Un vicolo, piccoli portoni e mura di colori diversi.
Ad Alfredo quella via ha sempre fatto venire in mente i regoli con cui da piccolo avevano tentato di insegnargli la matematica, gli stessi con cui si divertiva a giocare, a inventare ballerine costruzioni sempre sul punto di crollare per essere poi ricostruite.
Lì, in quella via, qualcuno aveva realizzato i suoi sogni.
Certo Alfredo sapeva benissimo che quel curioso aspetto era dovuto a una lunga serie di successioni familiari. Conosceva il fatto che, per uno strano vezzo nobiliare, le divisioni erano state fatte in verticale. Aveva visitato una di quelle abitazioni, come le altre composta da due, altre più, piani con una sola grande stanza per piano… questo, però, non toglieva nulla alla magia di quel piccolo caleidoscopio.
Lui, dopo averla attraversata, dopo aver scoperto ogni volta un nuovo particolare sfuggito alle visite precedenti, chiudeva gli occhi e tornava bambino.


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Il sole è appena tramontato, una luce affiora fioca da dietro i palazzi illuminando ancora un poco il cielo. E’ il vespro.
Alfredo toglie gli occhiali, guarda lontano. Tutto gli appare indistinto, spariscono i contorni. Le luci delle case, delle strade, tremolano come stelle. A volte Alfredo viene così preso da quel paesaggio che raggiunge per un attimo la sicurezza di farne parte. Di essere anch'egli mondo.

Da piccolo una volta la maestra gli aveva chiesto di disegnare con un gessetto la città su di un cartoncino nero.
“Ora ritaglia i contorni escludendo il cielo” gli aveva poi detto lei prima di invitarlo a scegliere un nuovo cartoncino.
“Prova a incollare il primo sul secondo”
“Così?” aveva chiesto Alfredo, guardando il cartoncino arancione scelto.
“Prova a capovolgerlo” aveva suggerito la maestra.

Improvvisamente erano sparite porte, finestre, strade e palazzi. Un indistinto nero su cui la donna aveva applicato polverosi punti di luce subito sfumati dai polpastrelli delle sue dita lunghe e sottili. Alfredo si accorse per la prima volta che la maestra non portava lo smalto sulle unghie.


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Alfredo cerca le chiavi di casa, gli occhiali, il portafoglio, le caramelle alla menta che porta sempre con sé, i fazzolettini di carta. Si muove da una stanza all'altra e si siede e si rialza e di nuovo controlla di avere tutto.
Quando finalmente esce di casa un sole festoso lo accoglie, lo abbraccia, lo accompagna verso il parco.
“Alfredo! Alfredo!”
Qualcuno continua a chiamarlo da lontano, ma lui non si ferma e allora la voce lentamente sparisce fin quando non ne rimane che un rivolo nella mente.
Alfredo si ferma all'edicola. Gira lentamente gli occhi tra tutte quelle copertine sapendo già che non acquisterà nulla, che prenderà il solito giornale e con quello proverà a trovare un luogo dove sostare tra ombra e luce.
Alfredo si siede e sfoglia con attenzione le pagine prima di iniziare a leggere e ritorna indietro e inizia e smette e riflette su come sia strano il fatto che i giornali parlino così tanto di televisione, poi ricorda che lui la televisione ha smesso di guardarla già da tanti anni.


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La bimba, seduta a cassetta sulla diligenza di plastica, tira le redini di quattro cavalli neri e ride sballottata da sussulti automatizzati, sempre uguali agli occhi degli adulti, per lei sempre diversi.
La madre è poco lontana. Gli occhi e le mani sul cellulare, parla degli acquisti e dell’amante con l’amica forzando le parole fino a farne una trama rumorosa di menzogne.
Ragazzini si esplorano su una delle panchine poste di fronte ai negozi, gli altri sedili sono quasi tutti terra di conquista di vecchi abbandonati o di mariti che fumano insofferenti.
Alfredo non ricorda bene perché sia finito lì, o meglio lo sa ma la cosa ha perso per lui ogni importanza. Vorrebbe abbandonare subito quel luogo, ma è contro la sua natura fuggire. Cammina lentamente allora, le mani dietro la schiena e un cappello leggero a proteggere dal sole che scalda la pista.
Ovunque voci e pessima musica in sottofondo. La gente è accaldata, i maglioni mattutini spariscono attorno ai fianchi degli adolescenti o si affacciano, timidi, dalle borse delle signore. La primavera, improvvisa, è arrivata.


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Alfredo ama la gente, tutte le persone che incontra o conosce, anche se spesso questo amore somiglia a quello dell’etologo per le sue creature.
Il fatto è che ad Alfredo piace osservare gli umani. Passerebbe ore a spiarne i movimenti, a sentirne le parole, a immaginarne l’anima. Tutto questo avviene senza che egli dia alcun valore morale alle azioni sviluppate dal suo oggetto di studio. Alfredo è sempre pronto a giustificare, a razionalizzare qualsiasi scelta, qualsiasi pulsione.
Certo questo tirarsi fuori nel momento dello sguardo non gli impedisce, quando egli stesso rientra negli osservabili, di criticare, di esprimere giudizi, di partecipare attivamente al proprio presente, poiché anche il suo vivere è un personalissimo caso di studio.


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Alfredo cammina. E’ sulla via principale della città in questa giornata di luce. Il suo passo è lento: non ama correre Alfredo. E poi correre verso cosa, verso dove?
Qualcuno lo supera urtandolo, gli arriva addosso distratto, ma lui non se la prende troppo. Vuole solo arrivare in piazza, sedersi un po’ a leggere il giornale, guardare passare la gente. Non lo fa da tempo. Ultimamente al massimo è andato al parco più vicino.
Quando finalmente lo spazio si allarga, scopre che sono sparite tutte le panchine. Per sedersi ora bisogna utilizzare le sedie ai tavoli dei bar o i pochi gradini che portano al piedistallo del barbuto. Alfredo scarta quest’ultima possibilità. Non ha più l’età e non c’è più spazio tra quei ragazzi che a gruppetti giocano a definirsi. Così decide di tornare verso la fermata del bus, verso casa.
All'angolo della piazza, sul lato opposto a quello da cui è arrivato, un tavolo con delle bandiere. Fanno firmare i passanti, distribuiscono volantini “contro il degrado”.
L’autobus è in ritardo.


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E’ mattina.
Ora Alfredo ascolta alla radio Alice Sara e nel frattempo pulisce le sardine acquistate il giorno prima, in offerta, al supermercato.
Sembravano ancora fresche e lui aveva proprio voglia di pesce.
Sotto le sue dita i piccoli animali si aprono delicatamente e con pazienza Alfredo toglie loro le viscere, la lisca, la testa appuntita.
Nella cucina piena di sole Chopin lo accompagna e tutto pare abbia un senso, una dolcezza infinita.
Anche quelle povere vite, a cui ha già chiesto perdono, brillano. Sul tavolo un bicchiere, dei biscotti, una bottiglia ancora chiusa di vino.

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