Alfredo si rialza. È stata una lunga morte la sua e ora stenta a riprendere confidenza con quel corpo, con il freddo della stanza, con quel senso di fame che fatica a riconoscere. Certo non succede spesso di morire, per fortuna, e a lui in fondo non era mai veramente capitato. Solo a volte dei piccoli mancamenti, amnesie.
La stanza è buia e dalla finestra arriva poca luce. Alfredo si muove a fatica, ma come se già sapesse la posizione, il motivo, raggiunge il vecchio registratore e lo avvia. Dylan canta Guthrie. Ecco si potrebbe ripartire da qui, pensa, come fosse un sorso d’acqua.
Alfredo raggiunge la poltrona e stira le gambe magre, accarezza il ventre molle. Si rende conto solo in quel momento di essere completamente nudo. “E non è forse un rinascere questo?” si dice sorridendo mentre un’armonica, una chitarra e una voce roca rimbalzano tra pareti invisibili, vecchi mobili tarlati. Un piccolo raggio di luce si affaccia sul pavimento impolverato.
“Chi sei?” chiede Alfredo.
“Non mi riconosci?”
“Chi sei?” ripete.
Il raggio è diventato soffio, il soffio ombra e l’ombra corpo.
“Sei contento di essere tornato?”
“Non so, ricordo ancora poco di prima”
“Ci sarà tempo, almeno di me ricordi?”
“No”
La voce tace prima di sparire dentro il raggio di sole che si è fatto luce, dentro la testa e i pensieri di Alfredo che riaffiorano lenti, fiocchi di neve leggeri, impalpabili.
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