È notte.
Il lampione disegna una scia di fuoco su questo autunno,
potessi ardere anch'io prima di planare esausto,
prima che venga giorno.
"La poesia è scritta da qualcuno che non è lo scrittore a qualcuno che non è il lettore" - Paul Valéry -
È notte.
Il lampione disegna una scia di fuoco su questo autunno,
potessi ardere anch'io prima di planare esausto,
prima che venga giorno.
Sa che serve a poco, anzi non serve proprio a niente, eppure Alfredo non può fare a meno, a volte, di ripensare a quello che è stato a ciò che ha vissuto. Non rimpiange nulla Alfredo perché gli errori per lui sono come quelle bolle che vengono su mentre la torta è nel forno e magari la torta collassa o non lievita, ma già, a quel punto, quello che doveva accadere e avvenuto e magari il sapore sarà anche buono nella bocca degli altri o lo sputeranno via disgustati. Questo, probabilmente, non ha importanza.
Alfredo ride di questo suo pensare alle torte, alla vita, ma non può non fare a meno di immaginare quelle che si sgonfiano appena tolte dal forno. Cosa mai sarà andato storto? Solo dei pavoni egocentrici? E la ricetta? Meglio non saperlo, pensa, e nel frattempo mette un uovo nella casseruola e attende. Alzando gli occhi un cielo grigio da accarezzare con lo sguardo e alberi e palazzi. Lontano il bagliore di una stanza che si illumina.
“Ma poi perché dovrebbe essere diverso? Perché quello che più non si capisce dovrebbe essere cattivo? Perché ci si dovrebbe muovere sempre avendo di mira solo se stessi, la propria storia?”
Alfredo è ancora più attento, oggi, alle cose, alle persone che incontra, come se solo da quel mondo esterno potessero venir fuori le risposte che cerca.
Il sole ancora scalda e accarezza i corpi e un leggero venticello rende tutto più gioioso. Se non fosse per le strade coperte dalle foglie, per l’assenza dei bambini al parco, delle loro voci, si potrebbe anche pensare a una diversa stagione.
“Forse è proprio questo” pensa Alfredo e riflette, sedendosi sulla panchina, su come sia facile sbagliare quando ci si lasci andare a sommari indizi e sembra quasi più tranquillo per questa sua, in fondo banale, scoperta.
“Forse, invece, continua poi a dire a se stesso, è solo che ogni cosa nel suo fondo rimane uguale pur cambiando ai nostri occhi. Come se allo zigzagare del mondo interessasse poco di mete e obiettivi che stabiliamo, di vincenti e perdenti che creiamo, del nostro stesso fantasticare”
Scuote la testa, Alfredo, e poi si ferma a fissare le forme di una piccola nuvola, il suo nascondersi tra i rami mentre tutto intorno è fruscio e silenzio.
di me tra le strade vuote
di me a raccontare ancora
di me che mangio, che piscio, che bevo
di me che sfuggo il sole
di me incazzato, triste, allegro
di me che ancora cieco
non ti vedo, non mi vedo
“È la verità?” gli chiede il bambino e Alfredo per un attimo dimentica che sarebbe molto più semplice dire “Sì, è così” per poi indicare il piccolo chiosco dove si vendono anche i gelati e con quello i tavolini poggiati uno sull'altro e la piccola saracinesca, da cui si affaccia in genere il proprietario che ogni volta li saluta e conosce già i loro gusti e sorride loro come fossero i soli clienti, i soli viventi, malinconicamente chiusa.
Dimentica e sarebbe invece bastata magari solo una carezza, seguita da un ”non preoccuparti ne troveremo un altro, anzi ora ci andiamo subito perché ricordo che c’è un bar qui vicino. Ecco sì, proprio a quell'incrocio” e così, dopo, prendergli la mano e sentire la sua fiducia, la felicità, mentre lentamente si incamminano.
No, Alfredo dimentica tutto questo e rimane come spossato sulla panchina a guardare lontano, a chiedersi cosa mai sia questa verità anche quella più semplice, anche la più oggettiva e il bambino lo osserva e sorride e aspetta perché, anche se ha fretta, gli vuol bene e inizia a capire la lentezza dei vecchi, di quel vecchio.
Guarda il chiosco e poi torna a fissarlo e non parla, non domanda. Lo aspetta.
Si rimane lentamente abbarbicati a un'età, a un anno, a un momento, a qualcosa che, ricreata, rimodellata, a nostro piacere diviene il punto zero di un’intera esistenza. A partire da quello possiamo navigare con sicurezza nelle nostre inezie quotidiane, nei nostri sogni, nelle nostre nostalgie. A quel porto poi, invecchiando, torniamo sempre più spesso, quasi sempre a mani vuote, a volte con inaspettati tesori, altre solo sbarcando simulacri o cantando la stanchezza della navigazione. Ecco, in fondo siamo solo i pirati di una immaginaria Tortuga e lì, sull'isola, padroni del nostro fantasticare, intessiamo relazioni e odi, ci prostituiamo e imperiamo, sopravviviamo.
"Questo sì che è coraggio". "Questa sì che è vera ribellione". Urlare:
"Vaffanculo concorrenza!"
dal palco del padrone
il servo e il padrone, la colpa, il timore
"il futuro inizia da te" , competenza, meritocrazia,
il volontarismo magico si è fatto Signore
La vecchia e la bambina - voglio vivere, voglio vivere -
la regina e l'invasore - voglio vivere, voglio vivere -
apostolato e silenzio - dimenticatemi, non dimenticatemi -
mi hai, ti ho, chiesto la verità
"di ieri, di oggi?" ho risposto, hai risposto...
negli occhi Urano imitava Fontana.
Le mascelle sembrano accennare un sorriso beffardo
difficile a farsi per un teschio:
"Qualcuno ti osserverà come tu mi osservi?"
Credo alla casualità degli incontri
agli occhi distratti
ai pensieri
che affiorano lievi come nuvole
alla inarrivabile gioia
dei silenzi
"Il comunismo non è oggetto di libera scelta intellettuale, né vocazione artistica: è una necessità materiale e psicologica."
Lo vedo immobile nuotare sull'asfalto e mi chiedo se mai arriverà alla proda, a quel luogo - dei martiri e degli eroi - così privo della povera gente.
Forse bastava a lui solo imprecare nelle attese, sputare al vento la propria amarezza, sorridere al primo sole.
Vivere.
Questo e altro ti dovrei dire
che la rosa bianca
sfuggita alle sbarre
alla polvere delle auto
è ormai morta
e così anche quel raggio
la luce che ferì allegra lo stretto vicolo
le pietre
è sparito
che ogni parola ogni frase ogni piccolo discorso
esonda placido
in un silenzio che si fa limo
terra fertile
- andrebbe arata prima di farne deserto, ti dico -
che oggi
come ieri
non è ancora domani
Appena sarrusbigghiava NaiuNaiu si sinteva sempri tannicchia in confusione. Si vutava a ritta e a manca. Si stirava tuttu e appoi sarritirava no bagnu pi pisciari ma soprattutto pi taliarisi allo specchio. Avvicinava a nasca o vittru e accuminciava l’ispezione e si tirava a facci che ita e sa munceva e sa sciacquava e alla fine accuminciava a fari mille smorfie che a taliarlu di fora unu avissi arrirutu fino alle lacrime. Erunu facci tristi e felici. Intelligenti e babbasunazzi. Di dumanna e di risposta. Una recita insomma. NaiuNaiu fineva sulu quannu pinzava di averla ritrovata a facci so nmezzu a tutte quelle. A facci giusta. Chidda ca canusceva.
Accussi soddisfatto nisceva do cessu e sassittava pi fari colazione. Una cosa veloce che ciabbastavunu un cafe e du viscotta prima di nesciri per andare a rapiri il negozio. Quella era la sua vita e a lui ciabbastava poco e picca pi iri avanti. U cristianu non l’aveva trovata una fimmina giusta. Una mugghieri. Dei figghi. Oramai a farici cumpagnia ava arristatu sulu nacidduzzu ca cantava appena u vireva passari nella cucina e che poi lo aspettava per avere u manciari novu.
NaiuNaiu scinneva i scali e ci dava una controllata alla posta macari se già laveva vista quando era ritornato la sera prima. La sua era lunica cassetta ancora in ordine del palazzo. Le altre ciavevano lo sportellino che non funzionava oppure erano scassati di supra che serano dimenticati lo chiavi oppure ancora ciava arristatu sulu u chiovu dove un tempo eranp appinnuti. Quella sua no. Il nome era scritto supra a una bella targhetta dorata: Filogamo Barbagallo cera misu e NaiuNaiu ogni volta se lo ripeteva nella testa tutto contento.
La merceria era appena fatti cento metri. Filogamo rapeva a saracinesca addumava i luci e aspittava . Già na matinata spuntava sempri qualche cliente.
“Cinnavi chiacchi?” ciaddumannava a signora Teresina. “Naiu naiu” arrispunneva iddu che quello era diventato il suo canto di battaglia.
“Mi finiu u sciampu” ci riceva a carusidda. “Naiu naiu“ ripeteva il signor Barbagallo.
“NaiuNaiu mi sevvi na pinna pa scola” ci scappava di diri o picciriddu. “Naiu naiu “ Riceva arrirennu NaiuNaiu per quella scortesia sincera.
Insomma ogni iornu a fine travagghiu Filogamo riscopriva di essere NaiuNaiu e questo lo faceva contento che pensava che se era nato per qualche motivo era per quello.
La strada ora sembra un deserto
eppure sono stato lì dove i frutti sembravano facili da cogliere,
proprio dietro un vecchio muretto di campagna tirato a secco.
Ho visto i giovani ruscelli rinfrescare le calde giornate
di quello che pareva della storia solo un necessario intermezzo.
Eppure ora la strada sembra non aver più niente a lei intorno.
Nessuna vita, se non spettri;
nessun orizzonte, oltre la cartapesta.
Io continuo a camminare, potrei non farlo?
Cerco solo di fissare attento, curioso,
anche questo vuoto, finché posso.
Abbiata na strada a iatta camina attenta e sauta e si ferma e fa ancora qualche passo fino a quannu non arriva alla salvezza.
Alli voti allautri iatti non ciarrinesci questa prodezza. Qualche dubbio. Una esitazione. Forse una strada troppu longa da attraversare. Forse troppu forte la distrazione. La confusione.
Alli voti quannu arriva il pericolo a iattaredda ciarrinesci u stissu a sautari. A salvarsi. Alli voti no.
Accussì i cristiani.
Alli voti alla notti accumenciu a pinsari alle persone che ora non ci sono chiù e mi accorgo che di tanti di questi cristiani non mi ricordo mancu il nome e nemmeno la facci a dire il vero. E questo la maggiore parte delli voti.
Allora mi addumannu cosa arresta di tutti questi. Na me menti certo. Che per il resto forse non ci sù chiù mancu li ossa. E quello che mi arrispunnu è che di loro ciaiu ricordi fatti di sensazioni. Di frasi smuzzicate e di vuci. Di sguardi dati ammucciuni o sparati na facci. Di ciuaru insomma. Dove cè tutto e non cè nenti. Comu una fantasia.
E poi mi rendo conto che di qualcuno di questi non ci trasi mancu laverci passato tanto tempo nsemula. Che a volte è bastato poco. Una gioia. Una malacumpassa. Nvasuni.
Puntuale come la morti poi arriva il pensiero la curiosità di sapiri se la stessa cosa succeri allaltra genti. Immaginare quello che di me arresta in questo mondo. Ancora qualche anno. Qualche decennio forse. Prima di spariri.
Se parlo
se scrivo qualcosa
se ancora la voce riesce
ad attorcigliare i miei confusi pensieri
è solo
perché ti amo
ma non so bene cosa questo significhi
dopo gli anni
dopo le primavere
dopo i tanti ripetuti inverni
allora provo a ripeterne il suono
mille e
altre mille volte
anche ora
anche qui
su questo tuo cuore così simile al mio
prima di scordarlo
Insomma il punto era, per lui, che tutto a questo mondo svanisce e che nella somma dei conti siamo sempre in pari, qualunque sia il nostro agire.
Alfredo aveva chinato il capo, ascoltava poco attento a dire il vero e poi non aveva molta voglia di replicare.
Fuori, oltre la finestra, l’albero si era di nuovo coperto di foglie e un nido era apparso tra i rami. Ancora non era riuscito a vedere a chi appartenesse quella nuova costruzione, ma sapeva che mancava poco a scoprirlo. A stare attenti, poi, si sentiva anche il cane dei vicini giocare sul prato; abbaiava contento al richiamo dei suoi giovani padroni.
“Anche se tutto svanisse io vorrei continuare a stare qui, anzi sono sicuro che continuerò ad essere qui”
L’amico lo aveva guardato stupito.
“Un MacLeod insomma” aveva poi risposto sorridendo.
“Spero di no, solo un fiore invece, o quel miele che stai divorando… buono vero?”
“Sì, sì. In effetti...”
Alfredo aveva lasciato la sedia, il cielo visto da dietro i vetri era quasi finto: solo un enorme foglio azzurro su cui qualcuno aveva spruzzato in basso, a caso, dei colori gentili.
“Credo uscirò ora, vieni con me?”
C‘era una volta un atomo.
E c’era una volta un generale cattivo con una divisa piena di galloni.
Il mondo è pieno di atomi.
Tutto è fatto di atomi: gli atomi sono piccolissimi e quando si riuniscono assieme formano le molecole, le quali a loro volta formano tutte le cose che conosciamo.
La mamma è fatta di atomi.
Il latte è fatto di atomi.
La donna è fatta di atomi.
Il fuoco è fatto di atomi.
Noi siamo fatti di atomi.
Quando gli atomi stanno insieme armoniosamente, tutto funziona a meraviglia. La vita si basa su questa armonia. Ma quando si riesce a spezzare un atomo… le sue parti colpiscono altri
atomi, i quali colpiscono altri atomi ancora e così via…
Avviene una esplosione terrificane! È la morte atomica.
Ebbene, il nostro atomo era triste perché era stato messo dentro una bomba atomica. Insieme ad altri atomi aspettava il giorno in cui la bomba sarebbe stata lanciata ed essi si sarebbero spezzati, distruggendo ogni cosa.
Ora dovete sapere che il mondo è anche pieno di generali che passano la vita ad ammucchiare bombe. E il nostro generale riempiva di bombe il suo solaio.
“Quando ne avrò tante” diceva “farò scoppiare una bellissima guerra!”
E rideva.
Ogni giorno il generale saliva in solaio e vi portava una bomba fresca.
“Quando il solaio sarà pieno” diceva “farò scoppiare una bellissima guerra!”
Come si fa a non diventare cattivi, con tante bombe a portata di mano?
Gli atomi chiusi nelle bombe erano tristi.
Per causa loro ci sarebbe stata un’immensa catastrofe: sarebbero morti tanti bambini, tante mamme, tanti gattini, tante caprette, tanti uccellini, tutti, insomma. Sarebbero stati distrutti interi paesi: dove prima c’erano casette bianche coi tetti rossi e gli alberi verdi intorno…… non ci sarebbe rimasto che un orribile buco nero.
E così decisero di ribellarsi al generale. E una notte, senza far rumore, uscirono quatti quatti dalle bombe e si nascosero in cantina.
La mattina dopo il generale entrò nel solaio con degli altri signori.
Questi signori dicevano:
“Abbiamo speso un sacco di soldi per fare tutte queste bombe. Adesso vuole lasciarle lì ad ammuffire? Cosa ci sta a fare, Lei?”
“E’ vero” rispose il generale “bisognerà proprio iniziare questa guerra. Se no non riuscirò mai a fare carriera..”
E dichiarò la guerra.
Quando si diffuse la notizia che stava per scoppiare la guerra atomica, la gente impazzì di paura: “Oh, se non avessimo permesso che i generali costruissero bombe!” dicevano.
Ma era troppo tardi. Tutti fuggivano dalle città. Ma dove rifugiarsi?
Intanto il generale aveva caricato le sue bombe su un aeroplano e stava gettandole una per una su tutte le città.
Ma quando le bombe caddero, vuote com’erano, non scoppiarono affatto! E la gente, felice per lo scampato pericolo (non gli pareva vero!), le usò come vasi per i fiori.
Tutti scoprirono così che la vita era più bella senza le bombe.
Così decisero di non fare più guerre. Le mamme erano più contente. Ma anche i papà. Anzi, tutti.
E il generale? Ora che non c’erano più guerre, venne licenziato.
E per utilizzare la sua divisa piena di galloni, diventò portiere in un albergo. Siccome ormai tutti vivevano in pace, nell’albergo venivano molti turisti. Persino i nemici di un tempo. Persino i soldati che una volta il generale aveva comandato a bacchetta.
Il generale, quando entravano e uscivano dall’albergo, apriva la grande porta a vetri e faceva un goffo inchino, diceva:
“Buongiorno, signore.”
E quelli che lo avevano riconosciuto, gli dicevano con la faccia scura scura:
“Si vergogni! In questo albergo il servizio è pessimo!”
E il generale diventava rosso rosso e stava zitto. Perché ormai non contava più nulla.
Sommerso, da ogni lato, da un mare di ipocrita propaganda, metto qui le poche cose che in questi giorni tengo a mente:
- questa, ma nessuna lo è, non è una guerra tra "buoni" e "cattivi";
- questa non è una guerra tra "libertà" e "oppressione";
- questa non è una guerra tra richieste di "giustizia sociale" e negazione delle stesse.
Questa:
- è una guerra tra imperialismi;
- è una guerra tra diversi modelli di organizzazione degli stati borghesi;
- è una guerra in cui nessuno dei popoli coinvolti conquisterà la propria libertà.
Questa, soprattutto, è la guerra con cui il capitalismo mondiale tenta, come sempre ha fatto nella storia, di uscire da una delle più grandi e durature crisi economiche in cui da tempo è piombato.