Quando si smette di correre, quando ci si ferma, le cose, gli oggetti, le stesse persone smettono di apparire deformate, scie nel tempo. Ogni cosa diviene un piccolo pianeta e si può partire sicuri alla sua scoperta. Io questo, Giorgio, non lo sapevo. Magari lo avevo solo percepito, magari lo avevo solo immaginato ma continuavo a muovermi senza più pensarci, perché è l'inerzia che ci frega, perché costa più fatica bloccarsi.
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Ha fiori biancastri, piccole foglie e il suo nome ricorda il coraggio, il suo aroma infonde vigore. Era questo l'unico timo che conoscevamo, aggrappato alle rocce, ben saldo con tutti quei rami. Poi venne l'altro, la tua tosse sempre più forte, i dolori al petto. “Timoma” diagnosticò il dottore, nascondendo un po' il viso.
Sull'enciclopedia non c'era molto, leggevamo ripetendo le parole, sfogliando sui tanti rimandi, ingannando la paura: il tumore è inizialmente circoscritto al timo, superata la capsula di rivestimento invade il rivestimento della cavità toracica prima di attaccare direttamente il pericardio e il polmone. Semplici parole; io, allora, scrutavo il tuo torace a spiare il nemico, tu, invece, i miei occhi a cercare il tuo tempo.
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Al limite del giardino una rete in metallo separa questo da una scuola. A volte Giorgio si fa prendere dalla curiosità e si ferma a spiare i piccoli alieni vocianti. Io lo lascio fare, so che starà a debita distanza che più di una volta la sua coda ha rischiato di divenire fune, eppure mi accorgo che è come se non riuscisse a rinunciare al suo bisogno di sbirciare. Quando, poi, mi avvicino guarda me e loro prima di strusciarsi sulla mia gamba e di chiedermi se mi piacerebbe.
“Non lo so, non lo so Giorgio se mi piacerebbe, e a te?”
Lui non risponde, non lo fa mai quando qualcosa lo infastidisce, ma non ho ancora capito cosa sia.
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