lunedì, settembre 29, 2008

Alexis De Tocqueville - il primo padrone

"[...] Può tuttavia accadere che un gusto eccessivo per i beni materiali porti gli uomini a mettersi nelle mani del primo padrone che si presenti loro. In effetti, nella vita di ogni popolo democratico, vi è un passaggio assai pericoloso. Quando il gusto per il benessere materiale si sviluppa più rapidamente della civiltà e dell'abitudine alla libertà, arriva un momento in cui gli uomini si lasciano trascinare e quasi perdono la testa alla vista dei beni che stanno per conquistare.
Preoccupati solo di fare fortuna, non riescono a cogliere lo stretto legame che unisce il benessere di ciascuno alla prosperità di tutti. In casi del genere, non sarà neanche necessario strappare loro i diritti di cui godono: saranno loro stessi a privarsene volentieri... Se un individuo abile e ambizioso riesce a impadronisrsi del potere in un simile momento critico, troverà la strada aperta a qualsivoglia sopruso. Basterà che si preoccupi per un po' di curare gli interessi materiali e nessuno lo chiamerà a rispondere del resto. Che garantisca l'ordine anzitutto! Una nazione che chieda al suo governo il solo mantenimento dell'ordine è già schiava in fondo al cuore, schiava del suo benessere e da un momento all'altro può presentarsi l'uomo destinato ad asservirla. Quando la gran massa dei cittadini vuole occuparsi solo dei propri affari privati i più piccoli partiti possono impadronirsi del potere.
Non è raro allora vedere sulla vasta scena del mondo delle moltitudini rappresentate da pochi uomini che parlano in nome di una folla assente o disattenta, che agiscono in mezzo all'universale immobilità disponendo a capriccio di ogni cosa: cambiando leggi e tiranneggiando a loro piacimento sui costumi; tanto che non si può fare a meno di rimanere stupefatti nel vedere in che mani indegne e deboli possa cadere un grande popolo".

(Alexis De Tocqueville, De la démocratie en Amerique, 1840, citato in Umberto Eco, Considerazioni attuali, L'espresso, n. 20, anno LIV, 22 maggio 2008, p. 222)

domenica, settembre 28, 2008

Arendt Hannah - La necessità del pensare

Tuttavia anche il non pensare, che sembra essere una situazione tanto raccomandabile in campo politico e morale, comporta i suoi rischi. Corazzando la gente contro i rischi dell'analisi, li abitua ad accettare immediatamente qualunque regola di condotta vigente in un dato tempo e in una data società. Ciò a cui la gente è abituata, allora, non è tanto il contenuto delle leggi, la cui analisi approfondita desterebbe delle perplessità, quanto il possesso di regole sotto cui sussumere particolari. In altre parole, essi sono abituati a non prendere mai decisioni. Chiunque, per qualsivoglia ragione o scopo, volesse abolire vecchi "valori" o virtù, non incontrerà difficoltà solo che gli si offrisse un nuovo codice, e non avrebbe bisogno né di forza né di persuasione - di nessuna prova sulla superiorità dei nuovi valori rispetto ai vecchi - per rafforzarlo. Quanto più gli uomini rispettavano il vecchio codice, tanto più appassionatamente si abitueranno al nuovo; la facilità con cui tali rovesciamenti avvengono in date circostanze suggerisce in realtà che tutti dormano quando avvengono.

 

La disobbedienza civile e altri saggi - Arendt Hannah -

sabato, settembre 27, 2008

Corteo

Accussì accumenciu a camminari
stancu, senza chiù sogni a dari,
quannu all'improvviso viru na fantasia:
sutta na bannera svintulia,
in menzu a tanti autri, na picciridda
pari russu ciato, poesia,
sta niciula cusidda.
Persa felice ne so cosi,
na stu ventu, ioca ignara
d'ogni inutili turmentu.

Continuo allora chiù leggero ad avanzari.
"Quannu a vecchia spiranza sicca
un ciuri novu arriva"
chista, mi ricu, è la liggi do campari.

mercoledì, settembre 24, 2008

The Animals

Qui, alla finestra, ascolto gli Animals
e ricordo.
Il sole, fra i rami, a tratti è lo stesso,
manca solo la peccaminosa gioia
delle prime sigarette
a riverberarne la luce,
l'eco delle sciocchezze degli amici,
il misterioso merletto
dei tuoi capelli.

sabato, settembre 20, 2008

[Condomini] Saldi

E ora che ci manca do micciu sino alla lumera finalmente lho vista la mia città alle televisioni. Cera il liotru con il cartello vendesi. Le strade o scuru. La munnizza che bruciava. Mancavano i due artisti di questa comparsata. Il milanese cuntafrottuli e sciampagnino u duttureddu pleiboi. Ma di sicuro ciavevano cose importanti da fare che io non li posso sapere oppure capiri.
Di questo silenzio al tempo che si parlava di Napoli io cè lo chiedevo al Cavaliere ma lui annaculiava la testa allargava le braccia e non mi arispunneva.
Parra pocu ormai Arcidiacono. Da quanto sè deciso a mittirisi da parte che allinizio mi ha detto che era solo per un po' ci nesci pocu da ucca. Addirittura lultima vota non vinni nemmeno a dirimi per chi votare e quasi quasi mi mancau il suo suggerimento che io anche solo per cortesia ogni vota ero cuntento di sentirlo e poi cera che qualcuno si interessava veramente di mia.
Ora al comune il sindaco è fascista che lha detto lui stesso che ci piace essere chiamato così. E certo a noi veramente ci sivveva un nuovo podestà che le strade sono come al tempo della guerra quando stava per finire e la genti come allora non lo sa più cosa sono gli stipendi puntuali a fine mese. Manca solo lo sbarco delle truppe e il ritorno a seguito dei mafiosi anche se per questultima cosa già a muta a muta ci hanno pensato.
Io non lo so se ci saranno unaltra vota lamericani oppure qualche arabo arriccutu come a quello che cianno avuto in ferie a Palermo ma di certo cu fussi fussi ciavissa mettiri solo denari e tanti che di pigghiari cà non cè chiù nenti.

venerdì, settembre 19, 2008

Lu Santu Currau

Il Signor Maldido Malebranco, anni cinquantadue e mesi cinque su di un fisico asciutto e ben tenuto, poggiò il tomo sul tavolo, un vecchio libro di psicologia pescato sulla bancarella antistante il civico 124 del Viale dei Corsi, non prima, però, di aver segnato con la matita, era quella trovata sul tavolo dell'architetto Cercaponzi e mai più restituita, il numero della pagina, settecentottantadue, a cui era, faticosamente ma con letizia, arrivato. Poi, dopo aver stirato con lentezza e gusto le corte gambe, chiuse gli occhi, marroni ma cangianti sino al verde in alcune fortunate occasioni, e subito si addormentò.
Quasi subito sognò, anche, ma dell'una e dell'altra occorrenza non serbò ricordo alcuno poiché, quando riaprì gli occhi, nulla, attorno a lui, era cambiato ed anche il vecchio orologio da parete, quel piatto bianco e verde regalo di un ristoratore piemontese con il disegno della mole e le lancette rosse, segnava uno stacco di un solo minuto dalla scena precedente.
Incurante, dunque, di quello che era successo, si alzò per indossare il cappotto, era ancora con la vestaglia da camera beige regalo della sua anziana genitrice, ed uscire. Le sette. Il suo amico cuoco, in realtà il padrone della locanda "Al buon gatto", tal Brentano Geronde, stava di certo già aspettandolo. "Buongiorno Dottor Malebranco, ha scoperto qualcosa oggi?"
Brentano, con ampio gesto, lo invitò ad accomodarsi al tavolo che da sempre gli era riservato. Maldido ebbe, non visto, una lieve perplessità. Il fatto è che egli non si aspettava certo quella domanda, quanto, più opportunamente, un:
"Buongiorno Dottor Malebranco, il lavoro è stato proficuo oggi?"
o, al limite,
"Buongiorno Dottor Malebranco, spero abbia ben lavorato, oggi".
Invece quell’episodio, così poco importante agli occhi altrui, lo mise di malumore. O forse non fu la domanda bensì l'essere stato costretto a pensare per un istante a quell’angustioso problema della sua vita: denominare il proprio mestiere. Perché, di mestiere, Maldido Malebranco era un "detectus". Era stato lui stesso ad inserire la parola sul proprio curriculum vitae in un momento di grazia creativa, ed a farla, poi, propria nei rari momenti in cui era costretto a rivelare l'attività che gli permetteva di vivere. Certo ogni volta la sua risposta era seguita da una seconda immancabile domanda:
"Mi scusi se mi permetto, ma cos'è, cosa fa, un detectus?" ed era a quel punto che Maldido esitava. Come spiegare il suo sezionare immagini, il quotidiano reticolare la vita, immaginaria e reale, altrui?
Per togliersi d'impiccio egli aveva imparato a confessare che, semplicemente, il suo compito era quello di cercare errori storici nei film, eppure questa era solo una parte, forse quella più remunerativa, di ciò che era a lui chiesto.
Già! Perché Maldido Malebranco era noto ad un gruppo ristretto di artisti per la sua capacità di riuscire ad inserire piccoli ma, al loro gusto, essenziali particolari all'interno di ben più dense scene, mentre dei suoi servigi usufruivano anche alcuni investigatori, in quei rari momenti in cui confessavano a se stessi di non aver capito nulla di ciò che i loro occhi vedevano, per non parlare, poi, delle case di produzione che, a torto, credevano di poter piegare la concorrenza disvelando al grande pubblico le "perle" dell'altrui creare. Si guadagnava bene con queste sciocchezze e Malebranco non disdegnava certo il denaro.
Eppure ciò che Maldido amava più d'ogni cosa era il non ricompensato stupore che lo coglieva ad ogni scoperta. Molte di quest'ultime rimanevano sue per sempre: perché non gli sarebbero state rimborsate, o perché troppo simili a quei sogni che difficilmente si riesce a raccontare, oppure solo perché nate in curiose e casuali circostanze.
"Ecco!" ripeteva, allora, più volte, a se stesso; per poi, subito dopo, distogliere lo sguardo da ciò che, fino a qualche attimo prima, lo aveva così tanto interessato. Lo prendeva, in quelle occasioni, una strana e stanca malinconia, e urgente si faceva il bisogno di non vedere, di non sentire, più nulla. A questa necessità era dovuto lo stretto rapporto che pareva unirlo a Dionigi Treschin, il farmacista.
Seduto al suo tavolo Maldido attendeva l'arrivo della prima portata.
Aveva con se la copia di un ritratto fotografico di Ferdinando Scianna e ora osservava quella immagine, l’etnologo e poeta Antonino Uccello, strizzando, a tratti, un po' gli occhi come in una inconsapevole profferta d'amore.
Malebranco non ordinava mai in quel luogo, né si dilungava in vaghi discorsi, voleva solo star tranquillo, e Brentano, da subito, aveva colto i gusti di quel silenzioso avventore; così, da vecchio oste avvezzo a coccolare la buona clientela, si limitava, quando proprio appariva indispensabile, a segnalare al suo ospite le eventuali mancanze nella dispensa.
Quel giorno aveva preparato dei tagliolini ai carciofi, champignon e vongole ed uno zuccotto di carciofi e carote. Come sempre aveva portato a tavola anche una buona bottiglia di vino, un San Severo bianco, ma, anche quello come sempre, neanche un goccio di quel nettare fu versato nel bicchiere di Maldido, semplicemente tutto venne pagato, e, il cibo, consumato.

"Buonasera Malebranco"
"Salve dottore"
Appena sbirciata la foto Treschin si sedette, senza nessun formale invito, accanto a Maldido, ed iniziò a fissarlo.
"E allora?" infine disse.
"Allora cosa?"
Maldido non sembrava gradire molto i modi del farmacista eppure nulla sembrava poterlo distogliere da quella foto, anche le poche parole che Dionigi era riuscito ad estorcergli, erano state pronunciate a capo basso, sulla tavola deserta e con quella immagine tra le mani.
"Non credete valga la pena acquistarlo?"
"Potrebbe"
"Ma se..."
"Oh! Mio buon dottore... ma credete davvero sia possibile che io"
"Insomma! Ditemi almeno qualcosa"
"Poi, vi dirò, poi. Lasciatemi adesso"
Le ultime parole di Malebranco, il loro tono, fecero desistere Dionigi da ogni ulteriore insistenza; si alzò dunque, congedandosi dall'amico per dirigersi verso il bancone. Ad attenderlo c'era un Soleras, anzi il suo Soleras.
"Ti ha detto niente?"
"Nulla"
Brentano guardava ora lui ora Maldido e, nel frattempo, picchettava a tempo sul vecchio legno.

Il Soleras, era forse l'unico vero amore del Dottor Dionigi Treschin.
Invecchiato per venti lunghi anni nelle botti di una tenuta che quest'ultimo, non senza una buona dose di violenta furbizia, era riuscito ad acquistare, esso era il simbolo, sosteneva il farmacista, del mondo intero.
"E' la morte che genera vita- ripeteva spesso- E' l'affinarsi dei sensi con l'età, il crescere di generazione in generazione. Non vede? Pensi al valore simbolico di ogni botte. Una generazione che riversa le proprie conoscenze, le proprie forze, non già in chi verrà dopo di lei, ma verso chi la precede, un mondo in cui è la saggezza dell'anziano a dominare, il suo sacrificio a soddisfare gli dei".
E il suo Soleras, in verità, era davvero speciale. Gli aromi di caramello e di fico secco, d’albicocche e di nocciola, seguiti o inseguiti da quelli di mandorla e dattero, di scorza d'agrume e di cuoio riuscivano a stordire anche il palato meno attento, il bevitore più frettoloso.
Anche Maldido ne era stato affascinato, e, per lungo tempo, aveva cercato di carpirne il segreto, poi, per non dichiarare la propria sconfitta, aveva fatto sua l'ipotesi dell'amico.
"E' proprio vero - aveva pensato- è il gusto della morte", e con questo era riuscito ad archiviare la pratica.

Percorrendo la strada, centocinquantadue metri con un piccolo avvallamento ad iniziare dal novantatreesimo metro e sino al centoventunesimo, che separava il locale dalla sua abitazione, una costruzione singola, cinque vani con giardinetto esterno, sita al civico 4 di Via Luna, Malebranco non poté fare a meno di sorridere. In questi casi egli, generalmente, era il solo ad accorgersene, giacché nessuna increspatura ammorbidiva la sottile striscia delle labbra.
"Sì, era proprio lui" confessò a se stesso.
Il detectus si fermò un attimo portando la mano destra alla tasca per estrarne un piccolo foglio, all'incirca dieci centimetri per quindici, e riguardarlo alla luce del lampione che illuminava l'ingresso della villa del Dottor Caremolli, un vecchio magistrato che abitava proprio a metà strada di quel quotidiano percorso. Quella carta celava un ingrandimento della foto che Maldido aveva portato con se da Brentano.
"Sì, è proprio lui" ripeté alla notte riprendendo, poi, a camminare.

Tutta l'immagine viveva lungo un asse obliquo fatto di linee rette trafugate al mondo reale. Sullo sfondo la porta, ricamata a rettangoli, confessava di dimenticanze o furti, lì, proprio all'altezza della maniglia.
In primo piano Antonino pareva amabilmente confabulare con un invisibile interlocutore, ma le sue rughe, le spalle, lo stesso braccio destro, non ammorbidivano la rigorosa geometria di quell'attimo. Buffo, pensò Malebranco, che proprio lui, l'etnologo e poeta Uccello, posasse su quella sedia di plastica e metallo.
In alto, sulla parte sinistra della foto, appesa non si sa dove una marionetta vestita di stracci, se tali potevano essere definiti quegli indumenti, rievocava il mondo contadino tanto caro all'artista.
Maldido aveva fatto ingrandire l'originale fin quasi a sfocarne le tracce, poi aveva ritagliato la marionetta ripassandone i margini e fissandoli su di un foglio di carta velina; ne aveva anche calcolato l'altezza approssimativa, quarantacinque centimetri, basandosi sulle proporzioni degli oggetti e del soggetto raffigurato. Solo a quel punto era iniziata una ricerca febbrile tra appunti e vecchi testi, quasi tutti già in suo possesso, che lo aveva condotto ad essere certo della primitiva ipotesi.

In nome di S. M. Umberto Primo, per grazia di Dio e volontà della Nazione Re d'Italia, il Tribunale Penale di Siracusa, sciogliendo le riserbe fatte circa la eccezione di competenza e della cosa giudicata, che rigetta, provvede come appresso:

1. Dichiara Vinciguerra Giuseppe colpevole di essersi impossessato nella notte del 12 dicembre 1889 in Pachino, per trarne profitto e con abuso di fiducia, di una marionetta in legno, di valore non bene determinato, ma oltre le lire Mille, togliendola alla chiesa di S.Corrado ove trovavansi, in pregiudizio e contro il volere dei rappresentanti della stessa, arrecandole danno rilevante.

2. Dichiara il detto Vinciguerra, colpevole di avere nella istessa notte, senza il fine di uccidere, e con due atti consecutivi della medesima intenzione criminosa, causato col revolver, lesioni sul
corpo, che han portato malattia oltre i 20 giorni, in offesa di Brutti Carmelo, contadino, e oltre i 10 giorni, in offesa di Tenebra Carmine, sacerdote.

In tutti i succennati reati, ammette la recidiva specifica.

Visti gli articoli di legge:

CONDANNA

Vinciguerra Giuseppe ad anni 12, mesi 8, e g. 5 di reclusione.

Condanna, inoltre lo istesso Vinciguerra, in relazione alle lesioni e in relazione ai furti, sui danni e nelle spese processuali.

Seduto sulla comoda poltrona del suo studiolo il Barone Li Causi osservava compiaciuto la lunga teoria di marionette che adornava la parete posta di fronte allo scrittoio. Un solo spazio vuoto sul muro e su quello spazio una targhetta: "Lu Santu Currau".
Quel pezzo era certamente costato molto più di quanto avesse previsto, ma non era quello a contrariarlo quanto piuttosto la paura di una delazione che sarebbe potuta costare cara al suo prestigio, tanto più in quei tempi di disordini e crisi di governo, ma la collezione era, finalmente, completa, e nessuno, nessuno, sarebbe riuscito a portargliela via.
Trentanove pezzi perfetti, recuperati in ogni modo sin da quando, semplice gabellota, girava di paese in paese a riscuotere e a punire. Il Barone li aveva fatti trasportare in una grande masseria, trasformata in una delle sue stanze a teatro, e lì aveva disposto le marionette così
come apparivano su di un quadro che da piccolo mirava estasiato e che era posto in una delle sale del Castellotto.
La collezione era stata un dono elargito, con magnificenza e grazia come si leggeva sul lungo nastro rosso posto alla base del dipinto, dal Re in persona ai suoi fedeli sudditi per festeggiare la nascita del piccolo Ippazio Alessandro Filippo Augusto Principe della Prugna e Cavaliere dell'Ordine della S. Castagnola di Vizzini. Li Causi ne conosceva ogni particolare, ogni crepa. Ne ignorava solo la storia, la lunga gestazione. Nessuna fonte l'aveva informato del fatto che quando il quadro era stato ultimato già da tempo il povero Ippazio aveva abbandonato questo mondo. Di lui era rimasta solo quella effige, e forse per un po', in qualcuno, il ricordo.

Una Trinità un po' plebea svolazzava in alto sul fondale di un intenso azzurro. Il tondo arancione del sole ed i raggi che da esso dipartivano, così come le forme arrotondate e le piatte tinte dei monti, davano all'insieme un tocco di fanciullesca falsità che contrastava con la ricchezza e la complessità degli abiti delle marionette. Trentasei santi, e sante, a riempire la scena.
Ben si sarebbe potuto pensare, a guardare da lontano, ad uno di quei turpi racconti della schiava Faecenia, giacché l'ammassarsi di quelle spoglie nulla rendeva al sacro, ma solo all'immondo vizio. Ciò che nel quadro era esplosione di forme e grazia lì era divenuta morbosa messinscena. E quel luogo non ad altro serviva. Il Barone vi conduceva le sue amanti, godendo particolarmente nel privilegiare quelle che egli più riteneva vicine alla fede cristiana, quindi iniziava il rituale.
Scelto il nome della santa, egli illustrava alla vittima prescelta l’azione che di lì a poco avrebbero compiuto servendosi dell'aiuto di quei feticci e fornendo poi alla o alle partecipanti le vesti adatte. A volte arrivava a chiedere, anzi pretendeva, con minacce e violenze se necessario, che fosse la stessa vittima finito il primo amplesso ad indicare e sistemare le marionette ad imitazione dell’azione successiva; e ciò si ripeteva fin quando le forze o la fantasia non lo abbandonavano.

I giornali, anche quelli locali, non avevano fatto tanto baccano attorno alla notizia, c'erano temi ben più importanti: la guerra, l’undicesimo reggimento bersaglieri e Sciara Sciat, le orde nemiche, le reazioni internazionali... eppure in paese non si parlò, per lungo tempo, d'altro.
Il barone era stato trovato nella sua masseria sul palco di uno strano e sconosciuto teatro; vicino al corpo tanti manichini spogli d’ogni indumento erano stati posizionati a guisa di spettatori e tre lunghi ferri, come fulmini retti dall'alto da altrettante marionette, gli erano stati conficcati in corpo. Ognuno di essi aveva mirato ad un ben preciso obiettivo: il cuore, la bocca, le natiche.
Durante le prime indagini furono controllate le informative riguardanti, da un lato, il passato politico della vittima, fiero difensore della legge e dell’ordine contro l’anarchia portata avanti dai Fasci e dal Socialismo e, dall’altro, la sua fama di tombeur de femmes. Più tardi, grazie all’impulso organizzativo dato da alcuni investigatori provenienti dalla città, si passò all’ipotesi di un omicidio compiuto da qualcheduna delle bande che ancora infestavano la zona, infine il caso fu archiviato.
La divisione dell'eredità non fu, invece, impresa difficile avendo, il Signor Barone, già preventivato la propria fine.
Su una parte dei beni, comunque, giunsero, alle orecchie e agli occhi del paese tutto, alcune curiose sorprese; esse, forse, erano il frutto di antiche ed eccessive libagioni del fu Li Causi.

Il giorno Tredici Dicembre dell’anno millenovecentoquindici
Regnando S.M. Vittorio Emanuele III per grazia di Dio e Volontà della Nazione Re d'Italia
Ad istanza della Sig.na Donna Scintilla Corsara, figlia del fu Don Quirino, domiciliata in questo Comune nel quartiere dei Benedettini, possidente, qui intervenendo nella qualità di Erede del fu Barone Carmelo Li Causi in virtù del testamento pubblico del suddetto Barone, rogato nello studio di me notaio il dì due Marzo 1912, da me notaro ben conosciuta la quale Donna Scintilla mentre non ha esercitato, come dichiara, atto nessuno proprio di erede volendo assumere la qualità del nome sudetto con il beneficio dell’inventario, e far procedere alla dovuta dichiarazione, pel suo effetto, il necessario inventario dei beni di essa eredità ai sensi degli articoli 717 e 711 Codice parte prima-

Io Notaro Girbini Calogero, residente in questo Comune ho proceduto all’inventario dei mobili ed effetti mobiliari trovati nella masseria ove morì il cennato Barone, sito in questo Comune nel Feudo detto delle Vigne.
Da me Notaro detta Donna Scintilla comparente, alla presenza pure di Maestro Salvatore Incartato di arte falegname, domiciliato in questo comune e nel quartiere della Verza, alla presenza pure del Signor Alfio Alì di arte agrimensore, domiciliato in questo Comune nel quartiere della Verza, alla presenza del Capo Maestro Giuseppe Bisicchia, muratore, domiciliato in questo Comune nel quartiere della Verza, alla presenza di Maestro Gioacchino Percolla di arte caldararo, perito di rame, di ferro, di stagno ed argento, domiciliato in questo Comune nel quartiere della Verza, alla presenza di Tommaso Lucente qual perito di animali e di generi di vino, oglio e di frumento domiciliato in questo Comune nel quartiere dei Benedettini, alla presenza pure di Maestro Luciana Mezzasalma, sartore qual perito di robba, indumenti e biancheria domiciliato in questo Comune nel quartiere dell’Ospedale, alla presenza finalmente di proscritti testimoni all’uopo adibiti quali periti, estimatori e sono da me Notaro pure conosciuti.
Detti periti eletti d’accordo da detta Donna Scintilla per apprezzare a giusto valore gli oggetti seguenti di loro rispettiva perizia, dopo di aver prestato il loro giuramento innanzi questo Giudice del Circondario.
Nel presente atto vanno a decriversi gli oggetti, per come vanno trovandosi nelle stanze rispettive della masseria sudetta.
Segue la descrizione di quanto rinvenuto stanza per stanza, compresi i sottostanti magazzini, stanza del parmento del vino e dell’oglio, stanza della cavallerizza, del teatro e della pagliaia. Vengono rinvenuti :
Sedie di cuoio antiche, sedie di cordicella, arcinanco, buffetta, cantarani,cassa di noce contenente biancheria ( cultre, lenzuoli di tela di cotone, canne di mussolino, canne di damasco di cottone, lenzuola di seta, di marzulla,calzette di filo, bottiglie di cristallo,piatti, bicchieri, marionette in numero di 39 in legno, saliere, cicare di cafè, selle in cuoio, letti con trispiti in ferro, materassi, specchi indorati, padelle, pignate in ferro, cazzarole di rame, quartare di creta, caldare di rame, bacile di rame, candilieri di legno, cannate, farina, noci, tumoli due di mandorle, salme 12 di linosa, coffe per trappito, chianca di legno, biandoni atte per il palmento, scrofine per palmento, paglia per animali, cafisi di rame, una giarra piena di oglio e n° 11 giarre piene di oglio di lino pari a quintali 16 di oglio di lino, quintali 2 di oglio buono, arbitrio con vari anelli in rame, mola di pietra per ulive, legna da ardere, statia di ferro, vomeri, zapponi, accette, botti di vino, filatoio, bisacce da lana, da tela, selloni da lavoro e da passeggio, staffe, capezzoni, briglie, due mule una delle quali di pelo garofalo e l’altra di pelo scuro, una giumenta armentizia di pelo novello e una giumenta di sella di pelo novello.
Nello stipo a muro sito nell’anticamera vecchia, vicino la sala si è trovata una piccola cassettiera con dentro le seguenti cose d’argento:
cocchiaione da brodo, cocchiaione da zuppa, 6 posate di mezza libbra cadauna, cocchiaia alla napolitana, 3 coltelli, 2 fonti d’argento per capezzali, un paio di fioccaglie con diamanti, una spilletta con diamanti.
Inoltre sono stati rinvenuti libri di scuola di umanità e di lettere tutti vecchi.
Il tutto secondo la stima dei singoli periti per un valore di Lire 108.342.
Segue la stima della masseria per un valore di Lire 110.673.
Dichiarano pure detta comparente Donna Scintilla che nella detta eredità del fu Barone non vi sono debiti.
Finalmente la detta Signorina Donna Scintilla dichiara nel presente che non intende pregiudicarsi in quei diritti che gode sopra a detta eredità per effetto del sudetto testamento e per la disposizione della legge.
Ricevutasi la sudetta dichiarazione che la parte ha voluto fare e descrivere nel modo di sopra nel presente atto, si è chiuso il presente atto oggi il giorno sudetto alle ore tre della notte.
Seguono le firme di tutti i presenti e del Notaio Don Calogero Girbini del fu Don Michele

"Maldido... Maldido!"
Malebranco, seduto sulla comoda poltrona della sua scrivania, si risvegliò improvvisamente e subito le sue braccia corsero a rinserrare quelle carte, quelle vite, quei fantasmi che gli appartenevano, che erano suoi, solo suoi.
Nessuno. Nessuno, come sempre. Col tempo quella voce era sembrata divenire più reale, più vicina, quasi un amorevole richiamo alla vita, ma non avrebbe saputo dirci, il famoso detectus, se essa appartenesse ad un uomo o se di donna fosse e neanche rivelarci se il tono di quella chiamata lo affascinasse oppure lo impaurisse.
Quella voce, però, indubitabilmente era e Maldido ormai sembrava quasi attenderlo quel risveglio. Lo chiamava "il sospiro dei miei lunghi dormiveglia". Di esso non aveva fatto mai parola a nessuno poiché in ogni personale memoria, se mai esista una sua realtà collettiva, la menzogna di noi stessi si attorciglia stretta ad innocui brandelli di verità sfuggendo in tal modo ai suoi stretti confini, percorrendo non vista strade ogni volta diverse, consapevolezze cangianti, riempiendo di rumori e voci spazi che vuoti sarebbero altrimenti o vieppiù inesistenti, era l’aver coscienza di ciò che impediva a Malebranco di adagiarvisi felice o, quanto meno, da incolpevole naufrago.

La decisione era presa: avrebbe acquistato quel pezzo di legno per poi cercare di rivenderlo. Con sicurezza si avviò, dunque, verso la farmacia. In testa poche parole e la trattativa già ben disegnata.
Il suono metallico di una campanella annunciò il suo ingresso, con piccoli passi Maldido si avvicinò al grande bancone e lì rimase in attesa. Lo schermo acceso di un computer illuminava un po' più il locale ma Malebranco conosceva bene quell'ambiente e certo non si meravigliò per quel tocco di modernità all'interno di una struttura che pareva essere rimasta quella voluta, un secolo prima, dal nonno di Dionigi. Gli antichi scaffali di legno, quasi nudi nella loro semplicità, ornavano un accogliente semicerchio che aveva proprio nel bancone il suo altare; al di sopra di ciascuna anta una etichetta in metallo annunciava le specialità un tempo in vendita, epperò i vetri, seppur scuriti dal tempo, lasciavano intravedere il necessario e colorato cambio d'epoca.
Proprio dietro al massiccio tavolo centrale stavano, distanziate tra loro da uno scaffale un po' più alto e largo degli altri, due porte. La prima, varcata da Maldido più volte, portava al Magazzino. La seconda, invece, si diceva fosse l'accesso alla segreta garçonnière del farmacista.
Durante l'attesa Malebranco fu attratto dall'intarsio che sovrastava le due ante centrali. Fu sorpreso dalla consapevolezza di non essersene mai accorto prima. Cos'era quel ghirigoro orientaleggiante? Dalla sua fitta trama parevano emergere due lettere, la distanza, però, non ne permetteva l'assoluta certezza
"Le iniziali del nome del committente" - pensò Malebranco - "o forse un dissimulato gesto di narcisismo da parte dell'artigiano..."
Erano comunque già passati parecchi minuti: forzando la propria studiata ritrosia, Maldido oltrepassò il bancone e bussò. Alla porta del Magazzino non ottenne alcuna risposta. Si diresse quindi verso l'alcova del farmacista, poggiando, con più discrezione, le nocche sul legno. Nessun segno di vita.

Alla fine si decise, cautamente poggiò la mano sulla maniglia e aprì la porta oltrepassando subito dopo la soglia. Si trovò di fronte ad una piccola stanza malamente illuminata da una finestrella, posta alla sua sinistra, che per posizione e dimensioni gli ricordò quelle raffigurate in numerosi santini seicenteschi. Questi ultimi per lo più descrivevano estasi mistiche illuminate dalla luce divina, orgasmi visivamente appena accennati ma potentemente erotici allo sguardo casto di ogni uomo pio del tempo.
Nulla comunque faceva pensare al favoleggiato boudoir. Sotto i suoi occhi lentamente presero forma una scrivania carica di carte e libri, due dozzinali seggiole in legno, un divano in pelle dalla strana tinta zafferano. Un rapido sguardo al resto della stanza e l'acclarata assenza di ogni segno di vita lo fecero presto desistere da quel suo inutile e poco gentile curiosare.
Richiudendo la porta alle sue spalle il detectus decise dunque di uscire dalla farmacia per farvi magari ritorno in un altro momento della giornata.



giovedì, settembre 18, 2008

[Condomini] La famiglia Ardenti

Io non lo capisco come si può essere accussì fottunati. La signora Nunzia me laveva detto che Rocco era uno di quelli che pigghiavano sempre. Macari un tintu ambo almeno una volta a settimana ci nisceva. Cetto però non lo potevo immaginare che sopra a cinquemila persone che facevano la domanda per becchino pigghiavano proprio a lui nella lotteria.
Allepoca me lo cuntò lui stesso che già si vedeva che si sentiva un signore mentre ci metteva la targhetta nuova sopra i citofoni scassati.
"Totò che ti devo dire ci voleva come il pane questo posto. Aveva una vita che furriavo con la lapa per pigghiare i cartuni. Non cia facevo chiù. Eppoi ora mi nasci un altro figghio. Tu lo sai comè"
Ma chissaccio no saccio comè tutta sta storia. So solo che cerano cinquemila cristiani con cinquemila numeri e ognuno ciaveva cinquemila motivi buoni per vincere. Ci voli culu macari per vurricare i morti. Chistu sacciu. E comunque oggi mi sento la bocca tutta lappusa. Ieri per festeggiare lanniversario della vincita e la nascita di Iano la moglie diRocco mi invitò a cena. Cera talmente robba che si mise anche suo marito a cucinare e quando mi susii dalla tavola mi sentivo chinu come un liafante.
Broccoli affugati. Caponatina. Sarde a baccafico. Pomodori secchi. Ricotta infornata. Spaghetti con la salsa e le melenzane. Pasta al forno. Capretto. Carne di cavallo e un melone rosso gigantesco che pareva un gelato.
Soprattutto cera un cafolo di vino. Pungente sopra alla lingua e forte nella panza proprio come piace a me. Ce laveva dato un suo parente di Pedara che ciaveva ancora la vasca per pistare la racina. Quella nera e niciula che a mangiarla ci stai una vita ma a sucare quello che esce dalla botte ti inchi i cianchi.
Io ci fici tanti brindisi in suo onore. Lo vedevo va che dopotutto la sua era una famigghia che ancora aveva veramente bisogno.
I figghi camminavano quasi a nura casacasa e i mobili di sicuro Rocco laveva scelti nei cassonetti dei quartieri della genti fina quando ancora faceva il vecchio lavoro.
Cirino era il più grande. Faceva il giovine nella carrozzeria dello Zio Santo. Nunzio e Orazio ancora invece erano troppo piccoli ma di scola per tutti non cinnera mancu a parrarini. Ogni tanto prima cerano andati con il padre a cogghiri munnizza ma facevano danno e se capitava che li fermava la polizia Rocco doveva inventare sempre qualche scusa. Ora se capitava si futtevano i ciuri che i parenti lassavano allobitorio per poi rivenderli a prezzo speciale.
Una volta era venuto uno del comune a chiederci notizie a sua moglie. E lei niscennu la minna per allattare u chiù nicu ciaveva risposto la stessa cosa che ieri mi disse a me:
"Ma se i picciriddi non ne mangiano scola chi ci putemu fari?"

mercoledì, settembre 17, 2008

pointillisme

Azzurro su azzurro
che dolce un raggio separa.
Null'altro che rubi attenzione,
null'altro che viva d'intorno,
e sarà forse un istante,
ma dentro
s'arresta.

martedì, settembre 16, 2008

[Condomini] Gabriele Armuzza

Per ogni Natale a Armuzza ciacchiappava la fantasia e precisopreciso per limmacolata mi chiamava per farisi aiutare.
Ora non è che io ciò quaccosa contro il presepio però chiccivoli a farlo? Basta ca uno nesci sinnivà in qualche piazza e con tannicchia di euri si pigghia la Madonna San Giuseppe Il Bambino e macari i pastori di prastica e poi se vuole la grotta e il cielo stellato.
Invece no. Lui savaffari quello più bello del quartiere e ogni anno per questo saccattava una statua come ci sono solo nelle chiese.
Già ciaveva la Sacra Famigghia e i Re Magi e ora aveva accuminciato con lanimali. Per tenere tutta quella processione Armuzza aveva chiuso nella so casa una stanza che apriva solo a Dicembre davanti al prete e accussì mangiava dormiva e si taliava la televisione nellunica che cera rimasta libera. Affarisò comunque.
Io il mio guadagno celavevo e anche questanno accuminciai lentolento a sistemare la pagghia vicino alla grotta di cartone e le luci anche. Prima però ci resi unallisciata allimmo di Armuzza.
Erano gli accordi! Una ripassata per la preparazione del teatro e una per la notte di capodanno quando a volte laiutavo anche a sparare le bombe.
Cetto tanto bene questa bella tradizione finora non maveva portato ma a provare ogni vota non costava nenti e io per qualche giorno mi sinteva veramente più fottunato.

domenica, settembre 14, 2008

Disertori

Canta mio figlio.
La sorella rincorre quel canto
danzando
cadendo
poi in volo riappare
ridendo a virare
sul volto che amo.
Quattro assenti dal mondo noi
quasi arcani minori
inciampiamo.

venerdì, settembre 12, 2008

[Condomini] Jona

Amato è da qualche mese che mi pari sempre più incazzato. Addivintau raro che scherza e quando succede dura poco. Io pensavo che la colpa era di so mugghieri che sinniiu a passare le ferie al mare dai parenti e u lassau sulu ma quando sono andato a trovarlo ho scoperto che non era accussì.
Amato è tannicchia pazzu sì però è gentile e qualche birra ci nesci sempri ad andarlo a trovare.
"Assettiti Totò. Chi ti offro?" mi chiese. Ma era una dumanda tanto per dire che le bottiglie erano già sul tavolo.
Ne pigghiai una e cià fici viriri prima dappizzarici a ucca e lui mi seguì contento.
"Chi ni pensi Totò?"
"Chi ni pensi?! E di cosa?"
"Dellitalia Totò! DellItalia"
"E che cosa devo pensare? Semu ca. Chivvoi riri?"
Cangiau facci Agatino. Accuminciau a fari vuci e a dirimi cose con parole difficili ma che dentro cenerano altre come democrazia e giustizia o resistenza e lavoro.
Non lo sapevo che Amato era comunista. Pecchè lo so che queste sono le parole dei comunisti.
Finita la sfuriata mi pigghiau per un braccio e mi portò davanti al televisore. "Aspetta" mi rissi.
Subito misi un disco e fici partiri un film. Non sapevo che fare. Da un lato ero curioso ma dallaltro accuminciava a farimi paura quel cristiano e comunque decisi di seguirlo per un poco nella sua pazzia.
Le prime immagini erano di una bella città."Si chiama Amsterdam" mi spiegò Amato che quelle furono le uniche parole che disse. Io visti che cerano tanti canali e belle case e anche la voce del bambino che iniziava a raccontare la sua storia era daccordo con me. Jona si chiamava come nel titolo del filmi. Io non lo so se tutto quello che ho visto è vero come c'è scritto alla fine però debbo dire che tante cose mi pari ora di averle più chiare in questa testa di cippu.
C'è un punto che Jona dice che i grandi sono strani perchè certe volte riescono a ridere e a piangere contemporaneamente e un altro dove invece guarda un carusazzu che a tutti i costi ci vuoli fari soprusi. Cè la gente che lo aiuta e quella che non lo vede nemmeno e che se non lo vede è meglio per lui.
Io Jona lho capito subito che era un ebreo ma non credo che questa è la cosa più importante pecchè Jona non è lui. Insomma questo picciriddo è tutta la sua famigghia e questa può essere la mia o quella di Agatino o di un marocchino anche o di uno zingaro. Dallaltro lato invece cè solo gente che urla. Che grida come quando arrivano per portare Jona nel campo e lui riesce a portarsi via solo il suo pupazzo. O che ti fa le riprese e pensa che tutti questi insetti sono uguali e che bisogna solo schiacciarli e per loro non c'è diritto neanche ad una educazione. A una scuola.
Poi cè il campo. Quello dove si sta per vivere. Per mangiare. Per sperare. Il campo dove fare l'amore se uno ci riesce vuol dire anche esistere.
A mia mi passi che quel campo tannicchia ci assomiglia a questo mondo anche se qua forse ancora i picciriddi ci possono fare marameo alla polizia e il mangiare ancora non manca. Per il resto ci hanno insignato a stari cuntenti di travagghiari per un tozzo di pane e a ringraziare i nostri padroni e a farci punire se non facciamo le cose bene.
Si cresce in fretta nel campo e la morte diventa come la vita. E la vita come la morte.
Io non lo so se tutto quello che ho visto è vero come c'è scritto alla fine del film ma la cattiveria può venire anche dal tuo fratello e la bontà dal tuo nemico pecchè questo sono gli uomini e un maiale scannato non ha razza.
Amato non aveva più detto niente dallinizio. Alla fine però mi mostrò tre foto. In una cera un niura abbiata nterra dentro al carcere.In unaltra invece una scritta diceva: "Immigrati clandestini: Torturali!".Nellultima poi cerano due facce e io li ho riconosciuti che avevano la stessa funcia.

[Condomini] Vincenzo

Vincenzo sta all’ultimo piano. Vicino al cielo.
Quando era nico mi prendeva in giro e nacchiappavamo pecché mi scantavo adaffacciarimi al balcone e mi mettevo con le mani avanti per tenermi meglio.
"Non ce la faccio -ci dicevo- non ce la faccio"
Ora lui cià ancora due punti di un colpo di spada di zorro che ci resi nel braccio. Io invece il puttuso che mi fece la sua pistola a pallini.
Vincenzo è veramente un amico.
Oggi parte per andare a travagghiari al nord.
Ma io non lo voglio salutare.
"Non ce la faccio -ci dissi- non ce la faccio"

giovedì, settembre 11, 2008

[Condomini] Agatino Amato

Agatino Amato scrivi poesie.
Oggi acchianai alla sua casa pecchè ci avevo avuto tutta la notte un male di stomaco tremendo e quanto capita che staiu accussì sua moglie mi fa le nizioni che cè le porto io.
Mentre additta appoggiato al tavolo mi calavo i causi lo vidi che stava davanti a un compiutere e che arrireva da solo.
"Macchiviri fimmini?" ci ho domandato senza pinsari a sò mugghieri.
Ce lo chiesi pecchè io li ho viste queste cose alla televisione e anche nei giornali cè scritto che uno ci può telefonare alle persone e certe volte i cristiani che cianno i cosi i blogghi si maritano tra di loro e poi ci sono macari tutti quelli che fottono come al supercinema "Vittoria" e si fanu viriri dentro al compiutere e si scangiano le fimmine come al mercatino dellusato.
Agatino forse non le sapeva queste cose pecchè tutto serio mi rispose con le seguenti parole:
"No! Sto leggendo i commenti alle poesie che ho mandato in rete".
Poi tutto preso dalle sue cose non mi calcolau chiù.
Io feci finta di niente. Ringraziai la signora e tornai alla mia casa. Però ci pensai tutta la matinata a quelle parole pecchè io quella risposta non lavevo capita per niente.
Che voleva dire? E pecchè arrireva? E che cosa doveva piscari?
Lho detto sempre. Altro che poeta! Quel cristiano o è scemo o fa finta di essiri scemo per non travagghiare.

mercoledì, settembre 10, 2008

Víctor Jara - Ti ricordo Amanda

Ti ricordo Amanda
la strada bagnata
mentre correvi alla fabbrica
dove lavorava Manuel

Il sorriso aperto
la pioggia nei capelli
non importava niente
correvi a incontrarti
con lui con lui con lui con lui con lui
sono cinque minuti
la vita è eterna
in cinque minuti
suona la sirena
si torna al lavoro
e tu camminando
illumini tutto
quei cinque minuti
ti hanno fatto fiorire

Ti ricordo Amanda
la strada bagnata
mentre correvi alla fabbrica
dove lavorava Manuel
Il sorriso aperto
la pioggia nei capelli
non importava niente
correvi a incontrarti
con lui con lui con lui con lui con lui

Con lui che partì per la sierra
che non aveva fatto niente
che partì per la sierra
e in cinque minuti
è morto ammazzato
suona la sirena
si torna al lavoro
molti non tornano
neanche Manuel

Ti ricordo Amanda
la strada bagnata
mentre correvi alla fabbrica
dove lavorava Manuel

martedì, settembre 09, 2008

[Condomini] La legge è legge

Una settimana fa acchianai sopra il treno che dovevo andare a Messina per una visita e maccompagnò Nunzio Andronico.
Io veramente celavevo detto prima a Vincenzo se mi poteva lasciare alla stazione ma giustogiusto quel giorno lui ciaveva un appuntamento con lavvocato per farisi dare i soddi dal suo principale.
Nunzio è una brava persona. Gentile. Educato. Cetto cià anche lui i suoi scatti. Come quando un anno fa ci spaccò una bottiglia nella testa del vigile. E che vigile poi. Il signor Arcifa. Quello che abita al primo piano.
Arcifa sera lamentato sempre che ci tiravano le scocce del melone nel suo balcone e sera fissato con Nunzio pecchè abita con sua madre nella casa sopra alla sua. Accussì penso che quel giorno che gli si presentò loccasione non ci passi vero di vendicarisi.
Nunzio apprincipio cercò di spiegarsi e di prenderlo con il buono. Ma Arcifa non lo voleva capire che non cinnera munita per pagare unaltra multa.
"Pecchè poi?" ci diceva Nunzio "Posteggiai la ritmo sopra la panchina. Ma era un attimo. Non mi viristi che ti salutai e poi trasii nella farmacia?"
Nunzio aveva continuato a stare calmo di fronte allurbano che parlava tutto matelico.
La legge è legge.
Ma non ci visti chiù quando Arcifa ci disse che a lui sti cose non ci interessavano e che dovevano morire di fame quelli che ci sucano la pensione agli altri.
Parlando con me in macchina mi cuntao tutto quello che ci passò nella testa. Andronico lo conosceva bene a quel cristano. Il vigile era nato mortazzo di fame e di niconico ciaccuminciao alliccarici i baddi allonorevole. Che con il suo metro e mezzo mancu se ci portava un cero al giorno a Santaituzza ce la mettevano la divisa. E ora faceva lo spetto e si sentiva il padrone della città.
La trovò vicino al sedile. Si spaccò in mille pezzi contro quella testazza dura. Ma Nunzio mi confessò che il ciauro di vino per un momento ammucciò quello della merda.

Gianni Rodari sul futuro

Gianni Rodari, La storia degli uomini. Con un monologo di Dario Fo sugli ultimi anni -  Gallucci
Se invece di subire la storia gli uomini si uniranno per farla; se sapranno dominare i rapporti sociali come dominano le forze della natura e gli strumenti della tecnica; se avranno fiducia in se stessi, il mondo di domani potrà essere migliore, più giusto e più libero.
Un mondo senza prepotenze, senza fame, senza ignoranza. Un mondo più unito, più fraterno.
Se questo mondo nascerà domani o tra cinquant'anni, o cento, e che aspetto avrà, non sappiamo: ma che altro ci rimane da fare se non lavorare per il suo avvento, costruirlo giorno per giorno, in modo che corrisponda ai nostri sogni?

domenica, settembre 07, 2008

Franco Calamandei ricorda Julius Fucik (Smikhov 23 febbraio 1903, Berlino 8 settembre 1943)

Ho vissuto per la gioia, e per la gioia muoio.
....che la tristezza non sia mai legata al mio nome!
(Julius Fucik 1° maggio 1943)


JULIUS FUCIK nacque il 23 febbraio 1903 a Smikhov, uno dei più vecchi sobborghi industriali di Praga. Suo padre era operaio metallurgico. A scuola il ragazzo Fucik dimostrò attitudini non comuni, una grande passione per la lettura e soprattutto per la storia. Nel 1921 il figlio dell'operaio di Smikhov si iscriveva alla Facoltà di filosofia dell'Università di Praga.
Fucik iniziò allora lo studio delle scienze sociali e dei classici del marxismo. La conoscenza teorica, unendosi alla coscienza di classe che gli veniva dall'origine operaia, lo portò ben presto ad aderire al movimento socialista, e ad entrare nell'organizzazione studentesca comunista, di cui non tardò a diventare uno dei dirigenti.
Per vivere, intanto, lo studente Fucik doveva fare i più vari mestieri: fattorino, allenatore sportivo, muratore, terrazziere, e perfino uomo-sandwich. Più di una volta egli si trovò in condizione di soffrire la fame. Ma né le umili occupazioni alle quali era costretto per vivere, né la miseria più dura, gli impedirono di continuare a applicarsi allo studio, e di svolgere una intensa attività di militante rivoluzionario, come organizzatore, oratore di comizi, giornalista, nelle condizioni sempre più difficili che la classe dominante cecoslovacca andava creando al movimento operaio.
Le sue prove brillanti e polemiche di giornalista gli valsero, nel 1930, un primo soggiorno nell'Unione Sovietica, con una delegazione di operai cèchi che gli operai della Ghirghisia sovietica avevano invitato a visitare l'U.R.S.S. Il viaggio, iniziatosi in maniera semiclandestina, per il divieto opposto dalle autorità cecoslovacche, durò sei mesi. nel corso dei quali Fucik e i suoi compagni visitarono Mosca, Leningrado, il bacino del Volga, l'Ucraina, il basso Don, il Caucaso, il Tagikistan, il Kazakistan e parecchi altri luoghi.
Di ritorno a Praga, noncurante delle minacce della polizia, Fucik tenne in un anno oltre un centinaio di conferenze, con le quali documentò al pubblico cèco quanto il Paese dei Soviet andava realizzando nel campo sociale e della cultura. Contemporaneamente egli raccoglieva le sue impressioni di viaggio in un grosso volume, "Il paese dove il domani è già ieri", che poté essere compiuto e pubblicato solo nel 1931, perché Fucik, arrestato in occasione d'una riunione politica, dovette scontare alcuni mesi di prigione.
Nello stesso periodo Fucik divenne redattore del Rude Pravo, l'organo quotidiano del partito comunista ceco-slovacco, e attivo collaboratore della rivista Leva fronta, intorno alla quale si raggruppava un'ampia cerchia di intellettuali di sinistra.
Ripetutamente arrestato per i suoi attacchi giornalistici ai gruppi privilegiati, Fucik dovette spesso nascondersi e camuffarsi per sfuggire alla polizia. Nel 1934, minacciato di un nuovo arresto, tornò nell'Unione Sovietica e vi rimase fino al 1936, come corrispondente del Rude Pravo. Le sue corrispondenze dall'U.R.S.S. fecero di lui uno dei giornalisti più popolari in Cecoslovacchia.
Quando Fucik rientrò in patria, la crisi dello Stato borghese cecoslovacco, maldestramente manovrato dagli imperialisti francesi ed inglesi come una pedina nel gioco antisovietico, era ormai prossima. La Cecoslovacchia stava per essere abbandonata a Hitler.
Nell'imminenza dell'accordo di Monaco, Fucik, in una serie di articoli, si adoperò a denunciare all'opinione pubblica cèca le mire aggressive della Germania nazista e la politica pro-hitleriana dei governi di Parigi e di Londra. Firmato l'ignobile accordo, soppressa in Cecoslovacchia la stampa comunista, entrati i nazisti a Praga nel marzo del 1939, cominciate le persecuzioni e gli arresti, Fucik continuò la sua lotta di militante democratico nella clandestinità.
Continuamente braccato dalla Gestapo, egli organizzò insieme con i compagni tutta una rete di giornali e riviste clandestine, che furono un modello del genere, per abbondanza e tempestività di informazioni e per accuratezza tipografica. Al principio del 1941 la sua attività coraggiosa e intelligente di organizzatore lo fece nominare membro del Comitato Centrale del partito Comunista cèco.
Le rischiose pesanti responsabilità di partito non lo distoglievano però dal portare avanti uno studio, che da parecchio tempo aveva in animo, su alcuni aspetti della storia della letteratura cèca. Del resto quello studio era anch'esso un lavoro di partito, un modo di dare armi alla lotta della classe operaia cecoslovacca. Fucik infatti si proponeva di mettere in luce quegli elementi della storia letteraria nazionale che la critica borghese aveva ignorato o sottovalutato, le tradizioni democratiche dei migliori scrittori cèchi, l'importanza di alcuni scrittori popolari che la storiografia delle classi privilegiate aveva preferito passare sotto silenzio. Con questo lavoro egli preparava al proletariato del suo Paese preziosi strumenti filologici per assumere l'eredità culturale nazionale, per divenire classe dirigente anche nel campo della cultura.
Fucik progettava di sviluppare quei suoi studi critici in una vasta opera dal titolo " I dimenticati e coloro di cui non si parla ". Egli portò a termine una prima monografia su Bozena Nemcova, scrittrice e patriota dell'800, un saggio su Julius Zeyer, ed iniziò un ampio studio sul celebre poeta slovacco Jan Neruda. Il manoscritto su Neruda, incompiuto, venne sequestrato dalla Gestapo insieme con le altre carte di Fucik, al momento dell'arresto, e in parte distrutto: ce ne rimangono solo sei capitoli.
Fucik cadde nelle mani dei nazisti nella primavera del 1942. La cronaca della sua prigionia nel carcere di Pankrac, a Praga, delle torture feroci a cui fu sottoposto, è raccontata in questo diario " scritto sotto la forca ", che l'eroico combattente poté tenere e far uscire dalle mura della cella grazie all'organizzazione clandestina comunista la quale tesseva infaticabilmente le proprie fila anche all'interno di Pankrac.
Trasportato in Germania, Fucik comparve dinanzi al
tribunale nazista di Berlino il 25 agosto del 1943. Ai giudici dichiarò: " So che sarò condannato e che la mia vita sta per finire, ma so anche di aver fatto tutto il possibile per la nostra vittoria. Sono certo che vinceremo. Noi morremo, ma altri verranno e continueranno la nostra opera".
Tornando alla prigione dopo la condanna a morte chiese alla compagna Lida Placha che cantasse qualcosa. Lida intonò la Partigiana, e tutti cantarono in coro. Lida e Julius cantavano in cèco, e i comunisti viennesi che erano con loro, anch'essi condannati a morte, cantavano in tedesco. Poi cantarono tutti l'Internazionale.
Colui che fu suo compagno di cella nei giorni precedenti all'esecuzione ha riferito: "Io ero ridotto in uno stato di inebetimento completo. Non riuscivo a pensare più a nulla, nemmeno alla mia famiglia. Fucik, invece, non faceva altro che cantare o raccontare qualcosa. Si comportava come se avesse ancora dinanzi una lunga vita da vivere".
Il 4 settembre una bomba cadde sulla prigione, tutti i detenuti furono fatti uscire in cortile, e Fucik si incontrò con alcuni dei suoi compagni cèchi. Incatenato ai polsi ed ai piedi, in mezzo al cortile, parlò loro a gran voce per scuotere gli animi dall'abbattimento in cui molti erano caduti. Parlò della forza morale dei cittadini sovietici, della sconfitta che i nazisti avevano subito davanti a Mosca ed a Stalingrado, disse che l'U.R.S.S. non avrebbe deposto le armi finché il fascismo non fosse annientato:
"Se a occidente venisse aperto un secondo fronte, la guerra finirebbe certamente prima. Alcuni di noi, forse, avrebbero la speranza di non morire. Ma ricordiamoci che siamo soldati i quali combattono nelle retrovie del nemico. Se dobbiamo morire, moriamo con la convinzione che vinceremo ".
L'8 settembre 1943 Julius Fucik veniva impiccato.
Nella letteratura di testimonianze, di memorie, di cronache e di diari, uscita dalla Resistenza contro il fascismo, questo "Scritto sotto la forca" di Fucik resterà un esempio unico. Gli uomini passati per le prigioni e le camere di tortura della Gestapo e delle Brigate Nere, per i campi di concentramento, ci hanno reso conto di quella tremenda esperienza a libertà riacquistata, quando le mura del carcere o le barriere di filo spinato si erano ormai riaperte dinanzi a loro. Oppure, se da qualcuno. dei tanti per cui prima della liberazione venne la morte, dei tanti che non sono sopravvissuti, ci è giunto un messaggio, uno scritto, è stato un messaggio di poche righe, un testamento di poche parole, splendente spesso di tutta la forza d'animo e di tutta la lucidità che può avere un uomo, ma suggellato dallo spietato laconismo che è proprio dell'uomo in punto di morte. Fucik è l'unico che, al cospetto della morte, già crudelmente lacerato dalle torture, sia riuscito a discorrerci a parole spiegate, ad esprimerci la sua esperienza di moribondo per pagine e pagine, per migliaia e migliaia di righe, a dichiararci la fiducia che lo sostiene, in maniera cosi diffusa e circostanziata da cancellare l'ombra della morte completamente e lasciarci l'immagine di una vitalità appassionata e trionfante.
Per serbare questa straordinaria condizione di equilibrio e di serenità là dove tutto si adopera a confondere l'uomo e precipitarlo nell'angoscia, Fucik non ha bisogno di reprimere nulla di sé, di imporre il silenzio a nessuno dei suoi affetti, neppure i più intimi e segreti. Le pagine in cui parla della moglie, della sua Gusta, dell'amore che li ha resi completi l'uno nell'altra e felici, sono la testimonianza di un animo il quale non si nasconde affatto il valore inestimabile di ciò che la morte gli toglie. Ma in quello stesso animo gli affetti individuali, per quanto intensi e esigenti, non sono più divisi dall'impegno sociale, l'amore per una sola donna è tutt'uno con l'amore per tutti gli uomini, con l'amore della libertà e della giustizia. Fucik non ha nulla da temere dall'immagine dell'amata, dal ricordo della sua tenerezza, della sua carezza, del suo respiro: non ha da temere che il dolce nome di Gusta gli tolga anche solo un poco di forza sotto il bastone dei torturatori e dinanzi alla forca. Quel nome al contrario, e naturalmente, lo ricondurrà al nome della patria, al nome dell'umanità oppressa, della dignità umana calpestata, che occorre difendere e riaffermare, anche a costo di sofferenze, ed anche accettando la morte.
Di dove ha tratto Fucik una così esemplare coesione fra il suo fervido e sensibile cuore di individuo e la sua intelligenza, la sua volontà di cittadino, di uomo in mezzo agli altri uomini? È' forse il risultato soltanto di una superiore integrità di carattere, di una personalità fortunata e generosa? No, Fucik non sarebbe stato quale questo diario ce lo presenta, se il suo cuore e la sua volontà, le sue doti naturali, non fossero state formate dalla classe operaia, non avessero trovato la propria unità ed il proprio mordente attraverso l'ideologia e la pratica del partito della classe operaia, non si fossero sentite fino all'ultimo sostenute e guidate dal suo immenso e cosciente organismo. Fucik non è mai solo: anche quando è più isolato e indifeso, fra le mani dei carnefici che dentro le quattro spoglie pareti della camera di tortura infieriscono sopra il suo corpo, egli avverte intorno a sé il grande esercito dei compagni che gli comunica energia ed a cui deve rendere conto. E nello scrivere clandestinamente, su minuscoli frammenti di carta, le sue note di prigioniero, a nulla egli pensa meno che a farne delle meditazioni con se stesso, delle confessioni solitarie, un bilancio spirituale. " Scritto sotto la forca" fu concepito come una relazione di esperienze da trasmettere ai compagni, uno strumento per l'azione: da consegnare a coloro che avrebbero continuato la lotta.
Da ciò deriva che nel diario di Fucik manchi completamente, come ho già accennato, quella morbida compiacenza, quel mal dissimulato indugiarsi a compatire la propria sorte, che negli altri documenti del genere capita invece spesso di scoprire. Da ciò deriva il vigore immediato e operante del diario di Fucik, il fatto che nessuna parola in esso suoni retorica. Quando, al momento di avviarsi verso la morte, il figlio dell'operaio meccanico di Smikhov scrive l'ultima riga delle sue note, " Uomini...vegliate! ", egli sa di non adoperare una formula, perché gli uomini a cui il suo saluto si rivolge ben conoscono a che cosa debbano vegliare, e come, con quali mezzi, con quali metodi, rendere attiva ed efficiente la propria veglia. Anche per noi il saluto di Fucik, tutto il suo diario, valgono come un incitamento concreto all'azione, un elemento di guida in questa lotta che vuol costruire nel nostro tempo la giustizia per cui Fucik e tanti altri hanno dato la vita
Testo di: FRANCO CALAMANDREI

sabato, settembre 06, 2008

[Condomini] Vera Alagna

Scinniu dalla machina che saranno state le due di notte. Era una decappottabile ianca. Tutta lucida come a un cesso pulito.
Con le cosce belle in mostra e landatura menza mbriaca Vera fici il giro dellauto per andare a salutare il masculo di turno. Pareva cuntenta. La visti accalarisi vicino allo sportello e sospirare qualcosa mentre quello per ricambiare il saluto continuava a darici con la sinistra una bella lisciata no culu. Lei sembrava non farci caso poi però sembrò incazzarisi quando con la destra lautista tento di farici accalare la testa fino a dentro alla machina. Non disse mancu pio però. Si allontanò senza vutarisi e sinniiu verso la sua casa.
Pinsai che era sempre bella come una carusidda. In silenzio minniii al pianerottolo per accendere le luci delle scale che così a lei ci veniva più facile inzittare la chiave del portone e poi mi misi ad aspettare la lucetta dellascensore per sentirmi più tranquillo. Quando però capii che aveva scelto di acchianari le scale a piedi me ne rientrai. Non volevo farmi trovare lì come a un mammaluccu.

Nosacciu su prima maveva visto. Sacciu sulu che allimprovviso sintii le sue unghie dietro la porta che mi chiamavano. Rapii di cursa.
Non cera mai stata con me. Con tutto il palazzo forse ma con me mai e ora invece senza dire una parola aveva iniziato a vasarimi. Era proprio lei. Lì con la porta mezza aperta e uno scemo che mutanni che non la faceva entrare.
Io continuavo a essere come incantesimato. Non ci riuscivo a dire niente e a lei sembrava che ciandava bene proprio così.
Con le mani dietro alla schiena mappoggiai alla cornice della porta dellingresso mentre Vera stava già accuminciannu a cercare qualcosaltro con la lingua. Ci stesi du secunni a veniri. Senza spustarimi chiurii locchi e finalmente accuminciai a parlare.
Ci cuntai tutte le cose. Di come lavevo desiderata. Di come ci vulevu bene. Di tutti i sogni che avevo fatto.
Quannu accalai locchi per guardarla però non cera più nessuno. Mi vutai cunfusu. Nenti. Solo la porta aperta e la luce delle scale addumata. Chiu nenti.

giovedì, settembre 04, 2008

Primo Levi sulla scrittura

Primo Levi, La chiave a stella
[...] cosi può capitare che uno scriva con entusiasmo una pagina, o anche un libro intero, e poi si accorga che non va bene, che è pasticciato, sciocco, già scritto, mancante, eccessivo, inutile; e allora si rattristi, e gli vengano delle idee sul genere di quelle che aveva lui quella sera, e cioè mediti di cambiare mestiere, aria e pelle, e magari di mettersi a fare il montatore. Ma può anche capitare che uno scriva delle cose, appunto, pasticciate e inutili (e questo accade sovente) e non se ne accorga o non se ne voglia accorgere, il che è ben possibile, perché la carta è un materiale troppo tollerante. Le puoi scrivere sopra qualunque enormità, e non protesta mai: non fa come il legname delle armature nelle gallerie di miniera, che scricchiola quando è sovraccarico e sta per venire un crollo. Nel mestiere di scrivere la strumentalizzazione e i segnali d’allarme sono rudimentali: non c'è neppure un equivalente affidabile della squadra e del filo a piombo. Ma se una pagina non va se ne accorge chi legge, quando ormai è troppo tardi, e allora si mette male: anche perché quella pagina è opera tua e solo tua, non hai scuse né pretesti, ne rispondi appieno.

martedì, settembre 02, 2008

train

L'oscillare vacuo delle anime
obbliga i viaggiatori all'oblio:
c'è ancora tempo.
Poi la pioggia di baci
senza nome
o il rapido infittirsi delle disperate
attese.
Ancora soste

fino all'onesta banchina.