Due serate passate fuori, ché a volte bisogna uscire per quanto sia
comodo rifugiarsi in un buon libro, una piccola cena, un bicchiere di
vino.
Nonostante il caldo,
non è poi moltissima la gente in strada. In centro una coppia
francese fotografa i luoghi un po’ a caso e si rincorre divertita
tra vie quasi deserte. Avranno poco meno di trentanni.
Lei è molto carina
e desiderabile nel suo vestitino leggero che la fascia con
precisione. I colori dell’abito sono delicati ma non spenti, i
capelli ribelli le coprono spesso il viso e lei li ricaccia indietro
un po’ sbuffando, un po’ ridendo. Ha questo piccolo vezzo di
portarsi spesso le mani in testa ad acciuffare quelle giovani onde e
per un attimo farne un piccolo fiume di luce prima di lasciarle di
nuovo andare.
Lui è indubbiamente
di origini indocinesi. A tratti ha un fare serioso.
Parlano ora e i loro
occhi non vedono che l’altro, poi riprendono a camminare.
L’uomo sembra
volersi un po’ atteggiare a interessato turista, quasi a nascondere
il suo star bene. Si lascia andare a un sorriso pieno, innamorato,
solo quando si accorge che lei lo sta filmando da qualche minuto
mentre lui continuava a camminare distratto e stupito col naso
all'insù.
Due serate, due
concerti, o meglio un quasi concerto e una commemorazione, o ancora
di più un piccolo viaggio discorsivo-musicale sul sud degli Stati
Uniti (il Delta blues, le armi, i due milioni di “schiavi” morti
nella traversata atlantica) e il ricordo, sbiadito nella calca della
serata, di centomila vittime a Hiroshima per mano della stessa
nazione. “In God We Trust”
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