Lo scorso anno ero arrivato ad osservare l'intera Valle del Bove, ci eravamo inerpicati tra paesaggi bellissimi e sempre diversi fino ad affacciarsi sul lago di roccia, sul quel foglio perennemente vergato dal dio del fuoco. L'Etna e il suo territorio sono un romanzo mai concluso, un work in progress che muta paesaggi e personaggi incessantemente. Quest'anno, alla fine della stessa valle, sono andato a trovare l'ilice di Carrinu, o di Pantano, un leccio che ha superato il mezzo millennio e che protegge da secoli un vecchio ricovero dei pastori. E' rimasto ben poco dell'antica costruzione, certo si intravedono le mura e si ricostruisce facilmente l'area destinata alle greggi così come si intuisce il sistema che permetteva all'acqua di incanalarsi verso una grande cisterna ancora presente. Fino a non molti anni fa due giganteschi abbeveratoi scavati su blocchi unici di lava permettevano di capire come non fosse esiguo il numero degli animali condotti fino a quelle quote, oggi i massi son scomparsi e non si sa bene chi ringraziare per questa assenza.
L'albero ha rami massicci che si torcono nel vuoto quasi fossero gigantesche viti e garantisce luce e ombra in questo infuocato Agosto. Tutto attorno muretti e terrazzamenti non più curati e quasi riassorbiti dalla natura raccontano di altri mestieri, di altre epoche. Terra di carbonai questa e di pastori e di “massari” e di “fungiaioli”, per secoli, per millenni.
Si raccoglieva la ginestra e si curavano, disboscandoli, i noccioleti a garantire per essi la stirpe più giovane e forte, poi, con pazienza e artigiana esperienza, riposando la notte in un “pagliaro” se ne ricavava l'oro nero da vendere giù alla “chiana”.
Si portavano le bestie a cibarsi dei ricchi doni del vulcano per produrre ricotta deliziosa, latte per gli infanti, formaggio.
Si curavano i ciliegi, i castagni, si “addomesticavano” i peri e i meli della montagna.
Si riusciva a trovare senza che fosse visibile agli occhi degli altri il luogo dove piccoli sollevamenti nascondevano i porcini facendo attenzione a non “zappare” il terreno e lasciando in questo modo la possibilità di ritrovarne altri in successivi passaggi.
L'uomo non era elemento estraneo, nemico, ma natura egli stesso, animale tra animali, vivente tra viventi e su tutto questo c'era la lava, quelle colate che premiavano i buoni e punivano gli atei, quelle colate che distruggeva intere vallate, città, che giungevano al mare.
Era il 1928 quando la folla, in un freddo e piovoso autunno, si radunò per andare in preghiera verso la lava che avanzava rischiando di coprire Sant'Alfio, c'erano tutti: le autorità, il prete, i nobili e il popolino. Non si sapeva più che fare, la preghiera era l'ultima speranza. Annunciato da un boato e da una scossa qualcosa successe, i tre santi miracolosi erano intervenuti, la lava si fermò. Su quel luogo oggi una chiesetta, un tempo sempre aperta, ricorda l'avvenimento. Peccato che la lapide commemorativa posta su un fianco delle mura esterne taccia su quello che la tradizione contadina si tramanda da allora: i miscredenti mascalesi, che avevano continuato a gozzovigliare in quei giorni difficili, furono colpiti dalla collera divina. Pochi giorni dopo il miracolo, infatti, una nuova bocca, più bassa e potente, fece arrivare la lava fino al mare punendo con la distruzione dell'abitato di Mascali quell'oltraggioso atteggiamento dei suoi abitanti.
Caro Dario, rieccoci finalmente!
RispondiEliminaLa tua poetica descrizione del luogo mi fa tanto riflettere. Posti ed immagini così non avremo più il piacere (o dispiacere) di rivederne.
Anche se quella località da te sapientamente descritta lotta con il fuoco tutti i giorni dell'anno, è un piacere degli occhi e dell'anima poterne vedere i suoi colori ed umori. Ben ritrovato e a presto con altre tue cartoline naturalistiche. Ciao.
Ben ritrovata anche a te :-)
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