“Forse dovremmo anche iniziare a dirci altro” pensava Marisa e nel pensare sorrideva del sorriso di un bimbo.
La fermata dell’autobus era abbastanza vicina. Pochi passi e sarebbe arrivata, poi trenta minuti a guardare il mondo prima degli spogliatoi e delle chiacchiere pre-turno. Marisa non amava molto quel momento, si prestava, però, ad ascoltare. Ogni tanto balbettava un “sì” o un “no”, addirittura, a volte, un “ma pensa”, però si fermava lì che altro non le usciva.
Sull’autobus, invece, si sentiva più a suo agio. Trovava sempre dove sedere e si incantava a guardare fuori. Immaginava le vite dentro le case o il presente dentro le auto affiancate al semaforo. A volte scambiava qualche parola e qualche sguardo con Alfonso, l’autista. C’era quasi sempre lui su quella linea. A Marisa piaceva il leggero profumo di dopobarba che lo accompagnava, le faceva dimenticare la lunga cicatrice che partiva da sotto il lobo sinistro e attraversava il collo dell’uomo prima di sparire sotto la camicia.
Era una cicatrice strana, rilevata, e non sembrava seguire un percorso netto. Come un rosso meandro gli viaggiava sul corpo e tante volte Marisa aveva immaginato di seguirne il corso sulla punta delle dita, per scoprirne la lunghezza, la foce, la storia. Erano pensieri veloci che le donavano piccoli brividi e che sparivano non appena lei trovava posto per sedersi. Alfonso sembrava non essersene mai accorto. Lo sguardo fisso sulla strada, il baffo alla Gable da vecchia locandina.
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