mercoledì, novembre 30, 2011

Lucio Magri sul comunismo

«In una delle affollate assemblee che dovevano decidere se cambiare nome al Pci, un compagno rivolse a Pietro Ingrao una domanda: “Dopo tutto ciò che è successo e sta succedendo, credi proprio che con la parola comunista si possa ancora definire un grande partito democratico e di massa come siamo stati, ancora siamo e che vogliamo rinnovare e rafforzare per portarlo al governo del paese?”.
Ingrao, che già aveva ampiamente esposto le ragioni del suo dissenso da Occhetto e proposto di seguire un’altra strada, rispose, scherzosamente ma non troppo, usando un famoso apologo di Bertolt Brecht, Il sarto di Ulm. Quell’artigiano, fissato nell’idea di apprestare un apparecchio che permettesse all’uomo di volare, un giorno, convinto di esserci riuscito, si presentò al vescovo e gli disse: «Eccolo, posso volare». Il vescovo lo condusse alla finestra dell’alto palazzo e lo sfidò a dimostrarlo. Il sarto si lanciò e ovviamente si spiaccicò sul selciato. Tuttavia — commenta Brecht — alcuni secoli dopo gli uomini riuscirono effettivamente a volare.
Io, che ero presente, trovai la risposta di Ingrao non solo arguta, ma fondata. Quanto tempo, quante lotte cruente, quanti avanzamenti e quante sconfitte, furono necessari al sistema capitalistico — in un’Europa occidentale all’inizio più arretrata e barbarica di altre regioni del mondo — per trovare alla fine una efficienza economica mai conosciuta, darsi nuove istituzioni politiche più aperte, una cultura più razionale? Quali contraddizioni irriducibili marcarono, per secoli, il liberalismo tra ideali solennemente affermati (la comune natura umana, la libertà di pensiero e di parola, la sovranità conferita dal popolo) e pratiche che li smentivano in modo permanente (schiavismo, dominazione coloniale, espulsione dei contadini dalle terre comuni, guerre di religione)? Contraddizioni di fatto, ma legittimate nel pensiero: l’idea che alla libertà non potessero né dovessero accedere se non coloro che avessero per censo e cultura, perfino per razza e colore, la capacità di esercitarla saggiamente; e l’idea correlativa che la proprietà dei beni era un diritto assoluto e intoccabile e dunque escludeva il suffragio generale. Tutte contraddizioni che non tormentarono solo la prima fase di un ciclo storico, ma si erano riprodotte in forme diverse, nelle loro successive evoluzioni e gradualmente si erano ridotte solo per l’intervento di nuovi soggetti sociali sacrificati e di forze contestatrici di quel sistema e di quel pensiero. Se dunque la storia reale della modernità capitalistica non era stata lineare, né univocamente progressiva, anzi drammatica e costosa, perché dovrebbe esserlo il processo del suo superamento? Questo appunto voleva significare l’apologo del sarto di Ulm.

Tuttavia, scherzosamente ma non troppo, proposi subito a lngrao due interrogativi che quell’apologo, anziché superare, metteva in luce. Siamo sicuri che il sarto di Ulm, se fosse sopravvissuto storpiato alla rovinosa caduta, sarebbe rapidamente risalito per riprovarci, e che i suoi amici non avrebbero cercato di trattenerlo? E comunque, quel suo azzardato tentativo, quale contributo effettivo aveva portato alla successiva storia dell’aeronautica?
Questi interrogativi, in relazione al comunismo, erano particolarmente pertinenti e ostici. Anzitutto perché, nella sua costituzione teorica, pretendeva non di essere un ideale cui ispirarsi, ma parte di un processo storico già in corso, di un movimento reale che cambia lo stato di cose esistenti: comportava quindi, in ogni momento, una verifica fattuale, un’analisi scientifica del presente, una realistica previsione sul futuro, per non evaporare in un mito. In secondo luogo perché tra le precedenti sconfitte e gli arretramenti delle rivoluzioni borghesi, in Francia e in Inghilterra, e il crollo recente del «socialismo reale» occorre vedere una differenza pesante. Una differenza che non si misura nel numero dei morti o nell’uso del dispotismo, ma nel risultato: le prime hanno lasciato eredità, magari molto più modeste delle speranze iniziali, dovunque sono avvenute, comunque immediatamente evidenti; del secondo è invece difficile decifrare e misurare il lascito e individuare degni continuatori.
Vent’anni dopo, questi interrogativi non solo non hanno trovato una risposta, ma non sono neppure stati seriamente discussi. O meglio, delle risposte le hanno trovate in una forma molto superficiale e dettata dalle convenienze: abiura o rimozione. Un’esperienza storica e un patrimonio teorico che hanno segnato un secolo sono stati così affidati, per usare un’espressione di Marx, alla «critica roditrice dei topi», che come si sa sono voraci e, in un ambiente adatto, si moltiplicano velocemente.

La parola comunista torna certo ancora, in modo ossessivo e caricaturale, nella propaganda della destra più rozza. Resta nei simboli elettorali di piccoli partiti europei, per conservare il consenso di una minoranza affezionata a un ricordo, o per indicare genericamente un’avversione al capitalismo. In altre regioni del mondo, partiti comunisti continuano a governare piccoli paesi, soprattutto a difesa della propria indipendenza dall’imperialismo, e uno, grandissimo, in cui serve a sostenere uno straordinario sviluppo economico, che però va in altra direzione. La Rivoluzione di ottobre è generalmente considerata una grande illusione, in qualche momento e agli occhi di pochi utile, ma nel complesso sciagurata (identificata con lo stalinismo e in una sua versione grottesca), comunque condannata dal suo esito finale. Marx, di recente, ha riconquistato un certo credito, come pensatore, per le sue lungimiranti previsioni sul capitalismo del futuro, ma del tutto amputato dall’ambizione di porvi fine.
Ancor peggio, la dannazione della memoria tende ormai a procedere oltre: a estendersi all’intera vicenda del socialismo e, su per li rami, alle componenti radicali della rivoluzione borghese e alle lotte di liberazione dei popoli coloniali (che, come si sa, anche nel paese di Gandhi, non poterono essere sempre pacifiche). Insomma, «il fantasma che si aggirava» sembra finalmente sepolto: da alcuni con onore, da altri con odio non dimenticato, dai più con indifferenza perché non ha più nulla da dirci.

L’orazione più graffiante, ma a suo modo più rispettosa, a questa definitiva sepoltura l’aveva anticipata uno dei maggiori cervelli avversari, Augusto Del Noce. Quando, anni fa, disse in sostanza dei comunisti: hanno perduto e vinto. Hanno perduto rovinosamente nella loro prometeica ambizione di rovesciare il corso della storia, di promettere agli uomini libertà e fratellanza, anche senza Dio e riconoscendosi mortali. Ma hanno vinto come potente e necessario fattore di accelerazione della globalizzazione della modernità capitalistica e dei suoi valori: il materialismo, l’edonismo, l’individualismo, il relativismo etico. Uno straordinario fenomeno di eterogenesi dei fini, che egli, cattolico conservatore e intransigente, pensava di aver previsto, ma del quale aveva poche ragioni per compiacersi.

Chi però al tentativo del comunismo ha creduto, in qualche modo vi ha partecipato, e solitamente senza dare segnali di allarme, ha il dovere di renderne conto, anche a se stesso, di chiedersi se quella sepoltura non sia troppo frettolosa, se non occorre un altro certificato sul rigor mortis. Abbiamo tutti molti argomenti per aggirare l’ostacolo. Del tipo: sono stato un comunista italiano perché era prioritario per combattere il fascismo, difendere la democrazia repubblicana, sostenere le sacrosante rivendicazioni dei lavoratori; oppure, sono diventato comunista quando il legame con l’Unione Sovietica o l’ortodossia marxista erano ormai in discussione, oggi posso aggiungere una circoscritta autocritica al passato e una forte apertura al nuovo. Non basta? A mio parere non basta, perché non rende conto di un’impresa collettiva che, nel bene e nel male, ha coperto molti decenni, e va considerata e compresa nel suo insieme. Non basta soprattutto per trarne una lezione utile per l’oggi e per il domani.
Sento troppi ormai dire: era tutto uno sbaglio ma sono stati i migliori anni della nostra vita. Per alcuni anni, sotto botta, questo misto di autocritica e di nostalgia, di dubbio e di fierezza, soprattutto tra le persone semplici, mi è sembrato giustificato, anzi una risorsa. Ma col passare del tempo, e soprattutto tra intellettuali e dirigenti, mi pare ormai un accomodante compromesso con se stessi e con il mondo. E torno di nuovo e di più a chiedermi: ci sono argomenti razionali e convincenti per opporsi all’abiura e alla rimozione? O quanto meno ci sono buone ragioni e condizioni adatte per riaprire oggi criticamente una discussione sul comunismo, anziché archiviarla?
A me pare di sì.»

Ripreso da: Nazione Indiana

sabato, novembre 19, 2011

Kajal

Ancora nebbia.
Ora nasconde ogni cosa,
ogni cuore,
ma è in questo smarrire
il riverbero del mondo
che scopro la timida sua grazia:
quasi fosse un segreto regalo
questo perdersi,
quasi fosse solo per me,
suo unico spettatore,
il muto sussurro dei baci,
l'amore.

mercoledì, novembre 16, 2011

Prima nebbia

A sera i lampioni tracciano,
sulla lunga fila di alberi,
tetti di luce, 
disabitati villaggi
dell'anima.

domenica, novembre 13, 2011

"Sto faticando: preparo il mio prossimo errore"

Franco Matticchio sul blog dell'Indice dei Libri del Mese
Il signor Keuner percorreva una valle, quando improvvisamente notò che i suoi piedi affondavano nell’acqua. Allora capì che la sua valle era in realtà un braccio di mare e che si avvicinava l’ora dell’alta marea. Si fermò subito per guardarsi attorno in cerca di una barca e finché ebbe speranza di trovarla rimase fermo. Ma quando si persuase che non c’erano barche in vista, abbandonò questa speranza e sperò che l’acqua non salisse più. Solo quando l’acqua gli fu arrivata al mento abbandonò anche questa speranza e si mise a nuotare. Aveva capito che egli stesso era una barca.
Bertolt Brecht, Le storie del Signor Keuner 

sabato, novembre 12, 2011

Giovanni Giudici - Tanto giovane -

"Tanto giovane e tanto puttana":
ciài la nomina e forse non è
colpa tua — è la maglia di lana
nera e stretta che sparla di te.

E la bocca ride agra:
ma come ti morde il cuore
sa chi t’ha vista magra
farti le trecce per fare l’amore.

 Giovanni Giudici, Tanto giovane, da "La vita in versi"

venerdì, novembre 11, 2011

Le mirabolanti avventure del ragioniere Saladino (intersezioni 5)

Giorgio era un carboncino bagnato, una macchia nera sull'asfalto.
Era passata da poco l'autoinnaffiatrice e lui ne era rimasto sorpreso, meravigliato, mentre girovagava per il quartiere, mentre, incauto, trotterellava felice. 
Giorgio non sapeva ancora di chiamarsi Giorgio e neanche io quel giorno, non così però quel cartellone sotto cui si era riparato, non quell'attore americano tanto famoso che da lì  sembrava guardarlo benevolo, enorme in quel suo viso di padre.
Insomma io non potevo mica lasciarlo lì. Non passava mai nessuno a quell'ora in quella strada e poi forse solo con lui avrei imparato a giocare con le ombre, a capire: le ombre sbarazzine dai mille riflessi e quelle sazie di mistero sul basolato, le ombre vive, guizzanti,  degli irrequieti o le tristi di desiderio degli innamorati. 
Giorgio è sempre lì pronto a saltellare sui miei pensieri, aggrovigliato alle mie paure, ai miei sogni. Balza da un luogo all'altro, da una stanza all'altra e non rinuncia a sorridere o a parlarmi come si fa ai bambini per spiegare, per dire. Credo mi voglia bene anche, ma so che non potrebbe mai ammetterlo. Non è nel suo stile, nel suo vivere. 
Giorgio è quello che non ho, quello che non vorrei, tutto quello che mi è indispensabile.

giovedì, novembre 10, 2011

Potrei con questa uccidere, con la sola gioia

Vittorio Sereni, Appuntamento a ora insolita

La città-mi dico- dove l’ombra
quasi più deliziosa è della luce
come sfavilla tutta nuova al mattino….
“……asciuga il temporale di stanotte” – ride
la mia gioia tornata accanto a me
dopo un breve distacco.
“Asciuga al sole le sue contraddizioni”
- torvo, già sul punto di cedere, ribatto.
Ma la forma l’immagine il sembiante
-d’angelo avrei detto in altri tempi-
risorto accanto a me nella vetrina:
“caro- mi dileggia apertamente- caro,
con quella faccia di vacanza. E pensi
alla città socialista ?”.
Ha vinto. E già mi sciolgo: “Non
arriverò a vederla” le rispondo.
(Non saremo
più insieme dovrei dire.) “Ma è giusto,
fai bene a non badarmi se dico queste cose,
se le dico per odio di qualcuno
o rabbia per qualcosa. Ma credi all’altra
cosa che si fa strada in me di tanto in tanto
che in sé le altre include e le fa splendide,
rara come questa mattina di settembre…..
giusto di te fra me e me parlavo:
della gioia.”
Mi prende sottobraccio.
“Non è vero che è rara, – mi correggo- c’è,
la si porta come una ferita
per le strade abbaglianti. E’
quest’ora di settembre in me repressa
per tutto un anno, è la volpe rubata che il ragazzo
celava sotto i panni e il fianco gli straziava,
un’arma che si reca con abuso, fuori
dal breve sogno di una vacanza.
Potrei
con questa uccidere, con la sola gioia….”
Ma dove sei, dove ti sei mai persa ?
“E’ a questo che penso se qualcuno
mi parla di rivoluzione”
dico alla vetrina ritornata deserta.

mercoledì, novembre 09, 2011

"È troppo tardi per risparmiare quando si è arrivati alla feccia"

  Morte di Seneca
 Autore :Peter Paul Rubens
  Anno: 1614 .
 Museo:Alte Pinakothek (Munich)

Fa' così, caro Lucilio: rivendica a te il possesso di te stesso, e il tempo, che finora ti veniva sottratto apertamente, oppure rubato, oppure ti sfuggiva, raccoglilo e conservalo. Convinciti che le cose stanno così come ti scrivo: una parte del tempo ci viene portata via, una parte ci viene rapita furtivamente, una parte scorre via. La perdita più vergognosa, tuttavia, è quella che avviene per la nostra negligenza. E se vorrai far bene attenzione, ti accorgerai che gli uomini sprecano gran parte della vita facendo il male, la massima parte non facendo nulla, la vita intera facendo altro.

Chi mi troverai che fissi un prezzo al tempo, che dia valore ad un giorno, che si renda conto di morire ogni giorno? In questo infatti c'inganniamo, che vediamo la morte dinanzi a noi: ma gran parte di essa è già passata, tutto il tempo che abbiamo dietro le spalle lo possiede la morte. Fa' dunque, caro Lucilio, quello che mi scrivi di star facendo: afferra e tieni stretta ogni ora; dipenderai meno dal domani se ti impadronirai saldamente dell'oggi. Mentre rinviamo al futuro, la vita se ne va. Tutto il resto, o Lucilio, appartiene agli altri, solo il tempo è nostro; la natura ci ha dato il possesso di quest'unico bene fuggevole e malsicuro, e da questo possesso ci scaccia chiunque lo voglia. Ma la stoltezza dei mortali è tanto grande, che accettano di farsi mettere in conto, se li hanno ottenuti, oggetti insignificanti e di nessun valore, comunque sostituibili con altri, mentre nessuno ritiene di essere debitore di alcunché per aver ricevuto in dono il tempo; eppure questo è l'unico bene che neanche chi è riconoscente può restituire.

 Lucius Annaeus Seneca, Epistulae morales ad Lucilium


lunedì, novembre 07, 2011

Ripensare il territorio

Il CIRF (Centro Italiano per la Riqualificazione Fluviale) promuove un diverso approccio ai temi legati al territorio:
Secondo il CIRF è "l'insieme integrato e sinergico di azioni e tecniche, di tipo anche molto diverso (dal giuridico-amministrativo-finanziario, allo strutturale), volte a portare un corso d'acqua, con il territorio ad esso più strettamente connesso ("sistema fluviale"), in uno stato più naturale possibile, capace di espletare le sue caratteristiche funzioni ecosistemiche (geomorfologiche, fisico-chimiche e biologiche) e dotato di maggior valore ambientale, cercando di soddisfare nel contempo anche gli obiettivi socio-economici". Un'azione relativa a un corpo idrico, quindi, si può secondo noi definire di "riqualificazione fluviale" solo se ha come obiettivo il miglioramento dello stato ecologico; non si tratta pertanto di realizzare piste ciclabili lungo l'alveo (è un'azione che soddisfa l'obiettivo "fruizione" e che spesso riduce sensibilmente il valore dello stato ecologico), né di "ripulire" i fiumi da vegetazione o sedimenti (azioni finalizzate al conseguimento dell'obiettivo "riduzione del rischio idraulico", sebbene nella pratica il risultato sia spesso di direzione opposta).
Non va infine confusa con l'ingegneria naturalistica, che costituisce una classe alternativa di tecniche di intervento -generalmente di stabilizzazione dell'alveo o delle sponde- che, a seconda dell'obiettivo per cui vengono utilizzate, a volte possono essere utili per riqualificare a volte, al contrario, possono peggiorare lo stato ecologico dei corsi d'acqua.
La vision della riqualificazione: invertire la tendenza al degrado, quindi non peggiorare più, ma migliorare ovunque sia possibile, verso uno stato più prossimo a quello naturale, ottenendo almeno, nei molti casi immersi in un contesto antropizzato, un miglior compromesso tra l'ecosistema fluviale e le attività umane. 
Fonte: Centro Italiano per la Riqualificazione Fluviale