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23/12/08

"Pensieri mentre Facebook mi fa cagare" di Piero Vereni

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Sto cercando di ragionare sulle motivazioni per cui le reazioni a Facebook sembrano fortemente emotive non solo da parte della stampa sensanzionalistica ma anche da parte degli utenti.
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Sono circolati in rete testi bellissimi per intensità e profondità di analisi, come quelli di Mariasole Ariot su Nazione Indiana, di Sergio Baratto su Ilprimoamore, e di Andrea Tarabbia, sempre su Ilprimoamore. Si tratta però sempre di testi carichi emotivamente, che sembrano "avercela" con Facebook. Mariasole Ariot dice:
Facebook in effetti, non dice niente.
Più che buco della serratura da cui spiare l’altro, un dito nel buco del mondo che del mondo vuole vedere solo il culo.
Per quanto icastica, questa non è una descrizione accurata di quel che succede in Fb.
Lo sciopero in Egitto del 6 aprile 2008, che ha scosso almeno in superficie il granitico controllo politico di Mubarak, è stato organizzato anche e soprattutto attraverso Facebook, e sono gli stessi protagonisti ad ammetterlo.
Esraa Abdul Fattah, una delle fondatrici del gruppo "6 aprile, il giorno della sciopero" è stata arrestata e trattenuta in carcere per diciotto giorni proprio con l'accusa di aver sobillato la folla, dato che il gruppo al momento dello sciopero aveva più di 70.000 iscritti. La storia del ruolo di Facebook in Egitto (e del timore che il regime ha manifestato per questo sito) è stata raccontata con dovizia di dettagli. Qui c'è un video che racconta in dettaglio l'uso politico di Facebook in Egitto. E' forse il caso più famoso, ma certo non è l'unico e ricordo che in Birmania nell'agosto 2007 la "rivoluzione zafferano" si è appoggiata su un gruppo di Facebook che ha aggregato 440.000 utenti, L'uso politico di Facebook è diventato comune, e se da noi si fanno campagne casarecce sulla Gelmini con o senza palle, appena si esce un poco dal guscio domestico (internet dovrebbe essere lì anche per quello, no?) si vede le l'attivismo è cosa seria, e Facebook sta diventando un suo strumento, soprattutto in paesi dove il controllo dei media da parte del potere istituzionale è forte.
Quindi non si può dire che Fb non dice niente, semplicemente perché non è vero, e quel che dice Fb dipende da cosa gli facciamo dire noi, come per qualunque altra applicazione.
Facebook ha la capacità di aggregare rapidamente un numero altissimo di persone, e questa, secondo me, è la ragione principale del risentimento che solleva. Facebook è cafone.
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Sergio Baratto, nel suo post su Ilprimoamore, ha detto tutto nel primo paragrafo:
All'improvviso ho capito perché c'è molto meno movimento intorno ai blog: si stanno buttando tutti su Facebook. Sono quasi tutti emigrati lì, verso forme meno raffinate e impegnative di cazzeggio. Vorrai mica paragonare lo sforzo di inventarsi un post di X righe a quello di scrivere una frasetta di quattro o cinque parole alla terza persona singolare?
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La tesi di Baratto è assunta in pieno da Andrea Tarabbia:
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Ho l'impressione che questo insistere sulla dimensione simil-Twitter di Facebook, che non è necessariamente la sua principale, serva all'argomentazione distintiva: noi che abbiamo qualcosa da dire (e sappiamo anche come dirla) ci troviamo in imbarazzo in un ambiente a cui possono accedere anche quanti non solo non hanno nulla da dire, ma per di più non maneggiano neppure con scioltezza le strutture per dirlo.
Andarsene da Facebook, allora, diventa un modo per dichiarare la propria distanza dalla folla, che invece non ha nulla da dire e prova a dirlo comunque, per di più male.
La folla cafona è arrivata su Internet: questo il grido di dolore che fa da bordone ai lamenti su Facebook (per evitare malintesi: sto parlando anche e prima di tutto dei MIEI lamenti, del mio terrore di essere confuso con la folla).
Noi, che abbiamo sudato sui sistemi operativi del DOS, che ci siamo iscritti alle BBS prima che arrivasse Internet, che abbiamo provato a trafficare con le copie piratate di Dreamweaver perché volevamo farci il sito nostro (o perché, come me, lavoravamo per case editrici che volevano ci occupassimo di aggiornare i contenuti del sito). Oppure noi che quando è arrivato splinder ci si è aperto un mondo e abbiamo capito che finalmente non avevamo bisogno di elemosinare una colonna nel giornale di provincia, che non dovevamo più fare la fila dall'editore, e che potevamo coltivare il sano, estetico, profondo bisogno di comunicare i nostri profondi pensieri al mondo intero con IL NOSTRO BLOG. E questo blog era la migliore garanzia della nostra assoluta unicità, del nostro essere, in fondo, dei figaccioni incredibili, e potevamo anche fare finta di non esserlo e potevamo giocare a fare i modesti, gli impegnati (tanto c'era il blog a garantire la nostra assoluta figaggionitudine). Eccoci qua, noi, distinti, separati, finalmente e chiaramente riconosciuti anche grazie al generoso incrocio tra competenza tecnologica e volontà di esprimerci, nell'arco di sei mesi ci troviamo sommersi, annichiliti in una folla di buzzurri, geometri del Cepu, sciampiste di Scaltenigo, panettieri lucani, svogliati studenti di Scienze della comunicazione, che porca puttana scrivono sul loro loculo su Facebook che sono diventati fan di Gigi D'Alessio (o membri del gruppo "Aboliamo Gigi D'Alessio") e hanno un numero di lettori che è dieci o venti volte superiore al numero di contatti medio del nostro blog!
In questa folla pacchiana che ci stiamo a fare? Ci siamo entrati come si entrava in un circolo comunque ristretto, e ci siamo ritrovati con la massa, ma massa vera. Non si può fare, così non va.
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Le masse di liceali fankazzisti, impiegati fannulloni, commesse a progetto che diventano fan di Braccobaldo o di Max Gazzè possono farci anche orrore, ma non è che smettono di esistere se noi usciamo da Facebook: continuano ad esserci, a vivere la loro vita ogni giorno (e probabilmente a votare in modo che a noi dà fastidio). Solo che dentro Facebook si rendono visibili anche al nostro sguardo, e vanno a occupare uno spazio di visibilità per il quale pretendiamo di avere la precedenza, e cioè la visibilità degli happy few che accedono alla Rete.
Pensateci un momento: siamo ormai dentro una società in cui l'esistenza stessa dei soggetti è garantita non dal fare, e neppure più dal sentire, ma dalla possibilità di essere riconosciuti dagli altri. Da questo punto di vista, la partecipazione all'Isola dei Famosi (o a qualunque altro reality televisivo) è l'unico evento REALE (e infatti come tale è vissuto da chi vi partecipa) perché è l'unica forma di evento che esiste come atto costitutivo di messa in vista (è insomma un "evento mediatico" in senso tecnico). Ma se l'Isola dei Famosi è la versione plebea della messa in vista, noi happy few avevamo finora goduto del sex appeal selettivo della Rete: i nostri blog, i nostri MySpace, erano la versione certo più elitaria di una comparsata al Grande Fratello, ma con lo stesso obiettivo: esistere in quanto riconosciuti dagli altri.
Ora, con Facebook, vediamo le folle dei fan di Simona Ventura e Maria De Filippi entrare a occupare spazi che pensavamo nostri, e la cosa semplicemente ci "fa vomitare".
Ecco, ci fa vomitare che Internet sia diventata profondamente, paradossalmente, vergognosamente democratica. Che sia diventata di tutti, anche di quelli che, secondo noi (che siamo colti e raffinati) non se la meritano.

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