17/02/13

"Arrivederci" di Paolo Nori

Qualche settimana fa sono andato a un convegno, a Reggio Emilia, dove si parlava di scuola e di diritti dei bambini e io, che non ne so tanto, di scuola e di diritti dei bambini, ho pensato che avrei letto due favole, ho scritto un libro di favole, per bambini, e mi sembrava che me la sarei cavata così. Solo che poi il giorno prima mi hanno detto che dovevo parlare mezz’ora, e io, parlare mezz’ora, altro che due favole, lì bisognava inventarsi qualcosa, cioè più che inventarsi, con così poco tempo, improvvisare, e allora ho preso su un paio di libri in più, rispetto a quello lì delle favole che comunque l’ho portato con me e una favola poi dopo alla fine l’ho letta anche se non è stato quello, il centro del mio intervento.
Il centro del mio intervento non saprei dire bene, qual è stato, perché quando sono andato sul palco io ero un po’ agitato per delle cose che avevo sentito dire e allora non so, di preciso, quello che ho detto, che quando mi agito io non rispondo esattamente, di quello che dico e poi dopo, per farmi passare l’agitazione, quando tutto è finito, mi succede che mi ripeto nella mia testa un misto di quello che ho detto e di quel che avrei dovuto dire, e il risultato è un po’ un misturotto la cui principale funzione è quella di calmarmi e di convincermi che io, tra tutti quelli che hanno parlato, ero quello che aveva ragione.
Le cose che avevo sentito e che mi avevano fatto agitare erano due, la prima, che bisognava educare e dar dei valori, ai bambini, la seconda, che quelli che non vanno a votare tolgono un diritto anche a quelli che ci vanno, che non ho ancora capito bene cosa c’entrasse, con l’educazione dei bambini, ma pazienza.
Allora quando sono andato sul palco io la prima cosa che ho detto che io, l’unica relazione che ho con la scuola, e con l’educazione dei bambini, è il fatto che c’è una bambina, che ha l’avventura di esser mia figlia, che ha otto anni e fa la terza elementare e che io, nell’universo della scuola il mio ruolo, la mia funzione, il mio punto di vista, sono un ruolo, una funzione e un punto di vista marginali di uno che è il babbo di una bambina che fa la terza elementare e che, a questo proposito, io avevo preso su un libro che io e mia figlia lo stavamo leggendo in quei giorni lì che era un libro di Gianni Rodari che si intitolava Fra i banchi ed era appena stato ristampato da Einaudi ragazzi e da quel libro lì, a Reggio Emilia, a quel convegno sull’educazione ai diritti, ho letto una filastrocca che faceva così: «Ho conosciuto un tale,
 un tale di Macerata,
/ che insegnava ai coccodrilli
/ a mangiare la marmellata. // Le Marche, però,
/ sono posti tranquilli,
/ marmellata ce n’è tanta,
/ma niente coccodrilli. // Quel tale girava
/ per il monte e per la pianura,
/ in cerca di coccodrilli
/ per mostrare la sua bravura. // Andò a Milano, a Como,
/ a Lucca, ad Acquapendente:
/ tutti posti bellissimi,
/ ma coccodrilli niente. // È ancora lì che gira,
/ un impiego non l’ha trovato:
/ sa un bellissimo mestiere,
/ ma è sempre disoccupato», ho letto e dopo ho detto che quella filastrocca lì, sembra che non c’entri niente e invece secondo me c’entra, se avete pazienza. Perché io, ho detto, rispetto a quand’ero piccolo io, la figura centrale della famiglia di quando ero piccolo io, il buon padre di famiglia, cioè il padre giusto e severo, né troppo intelligente né troppo stupido, quello che faceva le cose con la diligenza del buon padre di famiglia, cioè né troppo bene né troppo male, cioè in un modo giusto, con un metro giusto, al quale si adeguava poi tutta la famiglia, i figli, la moglie, i suoceri, le nuore, i cognati, i parenti, gli amici in visita eccetera eccetera, ecco quella figura lì, che spirava autorevolezza, che non aveva bisogno di alzare la voce perché bastava uno sguardo, un sopracciglio alzato, per produrre il silenzio, e l’ascolto, ecco quella figura lì, ho detto, oggi che io non sono più giovane e che è giovane invece mia figlia, che ha otto anni, quella figura li non esiste più, è anacronistica, e se si ripresentasse, se ricapitasse in Emilia in questi giorni un buon padre di famiglia come quelli che ho conosciuto io, con la giacca del buon padre di famiglia, e le abitudini del buon padre di famiglia, fumare in casa, e in macchina, per dire, e iniziare i figli all’uso degli alcolici, ecco secondo me un padre del genere farebbe la figura del di quel signore di Macerata di cui parla la poesia di Gianni Rodari, cioè di uno che sa un mestiere magari bellissimo ma che non serve a niente.
Solo che, ho detto, mi viene in mente una cosa che è successa con mia figlia due anni fa, che una volta lei, eravamo a casa sua, non abitiamo insieme (e già questo, di per sé, sarebbe già fuori dall’universo del buon padre di famiglia, mi sembra), e lei, in salotto, camminava sulla spalliera del divano, e io le ho detto «Secondo me non va bene, che fai così», e lei si è fermata, mi ha guardato, ma cattiva, e mi ha detto «Tu non devi dirmi Secondo me, tu devi dirmi Non va bene». Allora, ho detto lì a Reggio Emilia, mi viene forse il dubbio che qualche coccodrillo che vuol la marmellata in Italia, ancora, ce ne siano anche oggi, anche se io, proprio, di marmellata, non son capace, di darne, forse perché quand’ero piccolo io me n’han data talmente tanta, di marmellata, che mi è venuto il diabete, non solo in famiglia, anche a scuola. Io, ho detto, quando ho fatto le elementari ero contro il divorzio, perché ho fatto le elementari il periodo che c’era il referendum sul divorzio e la nostra maestra ci diceva in classe, a una classe di 30 bambini di 10 anni, che noi dovevamo convincere i nostri genitori che era bene che votassero no al divorzio perché il matrimonio era un vincolo indissolubile. Ci faceva venire in classe un frate (scuola pubblica, in Emilia Romagna, nel 1974) che ci diceva che gli uomini non potevano sciogliere i matrimoni, perché nessuno, in terra, poteva sciogliere quello che Dio aveva legato in cielo, e la maestra faceva uscire il frate e poi ci diceva «Ecco, cosa vi avevo detto io?». Quella signora lì, ho saputo trent’anni dopo, era stata lasciata dal marito, e credo che non avesse nessuna colpa, lei, poveretta, credo che fosse lei che aveva patito più di tutti, questo fatto, solo che la violenza che, in conseguenza del suo dolore, aveva fatto a una classe di trenta bambini di dieci anni, io me la ricordo ancora come una violenza insopportabile, ed è forse per quello che quando sento parlare di educare ai valori io penso che ognuno, i valori, dovrebbe trovarseli per conto suo, e mia figlia io credo che dovrà far la fatica, tremenda, mi rendo conto, di costruirselo da sola, l’angolo dei suoi valori, io posso solo accompagnarla, ho detto, e mi è venuta in mente una volta che lei, eravamo in bicicletta, era ancora piccola, avevamo uno di quei seggiolini che si metton davanti, sul manubrio, io non la vedevo in faccia ma sentivo quel che diceva e a un certo punto l’ho sentita dire «Io non le voglio, le righe», e io, non capivo, quel che diceva, le ho chiesto «Che righe?», e lei mi ha detto «Le righe che ci son sulla faccia», e io ho capito che voleva dire le rughe e le ho detto «Ah, va bene, non c’è problema, ci son dei medici che ti addormentano, quando sei grande che cominciano a venirti le righe, ti taglian la faccia, ti cuciono che non si vede niente quando ti svegli hai una pelle liscissima che sei senza righe», le ho detto, e lei ha taciuto un po’ e poi alla fine mi ha detto «No, io le voglio, le righe», e questo è l’unico modo, secondo me, in cui sono capace di influenzare i valori di mia figlia, facendo come se non li influenzavo e mi è venuta in mente un’altra poesia di Rodari, una poesia che è abbastanza famosa che si intitola La mia mucca e che fa così: «La mia mucca è turchina / si chiama Carletto / le piace andare in tram / senza pagare il biglietto. // Confina a nord con le corna, / a sud con la coda. / Porta un vecchio cappotto / e scarpe fuori moda. // La sua superficie / non l’ho mai misurata, / dev’essere un po’ meno / della Basilicata. // La mia mucca è buona / e quando crescerà / sarà la consolazione / di mamma e di papà. // (Signor maestro, il mio tema / potrà forse meravigliarla: / io la mucca non ce l’ho, / ho dovuto inventarla.)», che è una poesia che quando l’ho letta io, da piccolo, mi era piaciuta, e quando l’ha riletta mia figlia, pochi giorni fa, è piaciuta anche a lei, e io non so il motivo per cui ci è piaciuta, da piccoli, però una delle cose per cui mi piace adesso è che dice una cosa che non si poteva tanto dire, a scuola, cioè che quel che si scrive nei temi, di solito, sono cose inventate, cioè relativizza il portato valoriale della scuola, se così si può dire, e per via dei valori, ho detto, io forse a scuola preferirei che a mia figlia le dessero degli strumenti, anziché dei valori. Quando ai diritti, ho detto là a Reggio Emilia, io sentendo gli interventi precedenti mi son reso conto che vi devo chiedere scusa perché ho sentito dire che chi non va a votare priva del diritto di andarci anche tutti gli altri e io, scusatemi, sono vent’anni che sto a casa, quindi sono vent’anni che privo la gente dei loro diritti, e io pensavo, e vi confesso, penso ancora, ho detto là a Reggio Emilia, che fosse e che sia un mio diritto, stare a casa, e devo dire, scusatemi, che da quando, vent’anni fa, ho smesso di credere che qualcuno che andrà in parlamento farà il mio bene, da quando ho cominciato a pensare che il mio bene era bene non delegarlo a nessuno farlo da solo, e che la politica non è una cosa che si fa una volta ogni cinque anni quando si va a votare, ma che la politica si fa tutti i giorni, e che è politica il modo in cui si parla, il modo in cui ci mi muove, che è politica il grado di gentilezza con cui si parla coi propri figli, e coi proprio genitori ecco io, ho detto là a Reggio Emilia, sto molto meglio, da quando ho scoperto queste cose, e queste scoperte, ho detto, coincidono con la scoperta del pensiero anarchico, che qui non ho il tempo di riassumere e ne affido il riassunto a una frase di Pierre-Joseph Proudhon del 1840 che fa così:
Essere governati significa essere guardati a vista, ispezionati, spiati, diretti, legiferati, valutati, soppesati, censurati, comandati da persone che non ne hanno né il titolo, né la scienza, né la virtù. Essere governati significa essere, a ogni operazione, a ogni transazione, a ogni movimento, annotati, registrati, censiti, tariffati, timbrati, tosati, contrassegnati, quotati, patentati, licenziati, autorizzati, apostrofati, ammoniti, impediti, riformati, raddrizzati, corretti. Significa, sotto il pretesto dell’utilità pubblica e in nome dell’interesse generale, essere addestrati, taglieggiati, sfruttati, monopolizzati, concussionati, pressurati, mistificati poi, alla minima resistenza e alla prima parola di protesta, repressi, multati, vilipesi, vessati, taccheggiati, malmenati, fucilati, mitragliati, giudicati, condannati, deportati, sacrificati, venduti, traditi e, come se non bastasse, scherniti, beffati, oltraggiati, disonorati. Ecco il governo, ecco la sua giustizia, ecco la sua morale!
ho letto lì a Reggio Emilia, per via dei diritti, e poi ho detto che io mi ero preparato delle letture dove, più o meno, si parlava appunto del mio ruolo di babbo che non è un buon padre di famiglia, e se c’era ancora tempo ne avrei letta una o due, e loro mi han detto che c’era tempo [...] 

Fonte:  http://www.paolonori.it/arrivederci/

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