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21/04/14

"io, io quel che posso." di la pupa c'ha sonno

non è periodo per fiori finti. per amori finti. per finti complimenti, accondicendenze, turbamenti.
non so bene per cosa sia periodo, sinceramente, ma di certo non lo è per molte cose per cui lo è stato a lungo, un buon periodo.
per le patatine al gusto lime e pepe rosa, per cui vado matta e che tengo in credenza così ogni volta che la apro posso dirmi “brava aurora che non le mangi”.
per le ballerine, che indosso senza calze e poi viene il diluvio e io sono in giro con le ballerine, senza ombrello, senza meta e piena di freddo e bicchieri di Starbucks.
per i libri, che leggo così tanti fatti pubblici e privati online che la mia quota parole quotidiana l’ho già superata alle dieci di mattina.
per quel vestito bellissimo, perché se ai tu mi invitassi stasera a cena da Manna e lo indossassi, io avrei un vestito bellissimo e tu, tu i soliti jeans sfondati.
per quell’amore che chiunque vorrebbe, perché io un amore che chiunque avrebbe voluto l’ho già avuto, e amore sotto sotto non era. e quindi, se tanto me lo invidiereste, prendetevelo, è tutto vostro.

Fonte:  la pupa c'ha sonno

17/06/13

"Niente da ridere" di Nicola Lagioia

[...] “Il saggio ride se non tremando”, scrive Bossuet. E il comico non ha come propria vocazione la pernacchia al potente di turno presupponendo come sfondo una scenografia immutabile. Il comico, al contrario, spalanca mondi. (Non è un caso che le vignette satiriche abbiano ormai un vero effetto eversivo solo nei regimi totalitari: appunto perché in quei casi provengono semanticamente da un altro mondo rispetto a quelli per esempio dell’Iran o della Corea del Nord). La risata che ci scuote nel profondo arriva a lambire qualcosa del nostro segreto di specie. La Prima guerra mondiale raccontata da Céline, è (linguisticamente) un altro mondo rispetto al racconto ufficiale della guerra. Il mondo comicamente concentrazionario di Kafka esiterà sui libri di Storia solo diciotto anni dopo la pubblicazione della Metamorfosi, ma è tuttavia già presente (in una forma ancora disinnescabile?) oltre una stretta porta collocata in Europa centrale. Le risate di Bene, di Totò, di Artaud, di Cervantes, di Groucho Marx aprono porte verso mondi tutt’altro che inesistenti. Non è l’escapiscmo o l’esotismo anni Novanta (gli inesistenti mondi dell’intrattenimento d’autore). È al contrario (come direbbe Freud, o forse Heisenberg?) il dislivello, la discontinuità improvvisa, il passaggio oltre il quale scopriamo che il mondo – persino nel male – è ben più vasto di ciò che crediamo di vedere.
Una comicità (una narrazione) che mostri (non inventi) l’esistenza di altri mondi rispetto a quello immaginato dal potere (cioè il potere stesso), è la scure che spezza le catene. È un invito al trasloco, all’avventura lanciata verso qualcosa di ben diverso (non contrario e speculare) rispetto all’asfittica stanza del discorso quotidiano. [...]
Fonte: Niente da ridere di Nicola Lagioia

02/06/13

"Confesso che ho studiato" di Popinga

Confesso che ho studiato, che ho speso molta parte della mia giovinezza a leggere libri, a fare esercizi, a riflettere su quanto imparavo. Senza rinunciare al divertimento e agli amici, allo sport, senza rinunciare a un po’ di impegno politico, ho capito per esperienza, prima ancora di conoscerle, le parole che Gramsci scriveva nel 1932 dal carcere: “Occorre persuadere molta gente che anche lo studio è un mestiere, e molto faticoso, con un suo speciale tirocinio, oltre che intellettuale, anche muscolare-nervoso: è un processo di adattamento, è un abito acquisito con lo sforzo, la noia e anche la sofferenza”. Una gran fatica (e un grande investimento e sforzo della mia famiglia), ma premiata dal piacere incomparabile della scoperta, della conoscenza, di una dignità conquistata. 
Confesso che ho studiato anche perché credevo che la conoscenza fosse, com'era sempre stata, un mezzo di promozione sociale, sia per la possibilità che offre di inserirsi più facilmente nel mondo del lavoro, sia perché la cultura è libertà, libertà dai condizionamenti palesi e occulti, libertà di criticare con cognizione di causa, libertà del dubbio. Più si conosce e più ci si accorge di non sapere. Ciò spinge a voler conoscere di più (la cultura è curiosità), ma anche alla critica di ogni verità precostituita, basata sull'autorità o il potere di qualcuno (umano o celeste che sia) o sulla sua diffusione nella società. 
Confesso che ho studiato e mi accorgo che in parte ho vissuto di illusioni. Confesso di sentirmi sempre più estraneo in un paese dove non si premia il merito ma la fedeltà a un potente, un paese popolato di ignoranti vincenti che impongono i loro modelli fatti di soldi, sesso e successo, dove non si investe più in ricerca e istruzione, dove i dati di fatto sono considerati come opinioni alla stregua delle false speranze, dei sogni, delle bufale, scientifiche oppure no, propalati attraverso ogni mezzo di comunicazione, dove un idiota sicuro di sé (come lo sono gli idioti) ha più ascolto e considerazione sociale di un ingegno dubbioso, di uno che esige da sé e dagli altri onestà intellettuale. 
Confesso che ho studiato e sono stanco di dovermi confrontare con cafoni ignoranti in molte situazioni sociali (in posta, a scuola, sul treno, ecc.), sono stanco che la fatica e i soldi investiti per decenni alla fine valgano così poco. Se fossi giovane me ne andrei all'estero, o farei la rivoluzione, finalmente. Ma ho 57 anni e crescono solo la sfiducia e il disincanto. 
Confesso che ho studiato e mi ritrovo cinico e misantropo.
Fonte: Popinga

"La gioia di scrivere"

Piacere. Gusto, Com'è raro sentire usare queste parole. Com'è raro vedere la gente vivere o, a proposito, creare, sottomettendosi a loro. 
Eppure se mi chiedessero di nominare i principali componenti della natura di uno scrittore, le cose che formano il suo materiale e lo spingono lungo la strada per la quale vuole andare, io potrei solo consigliare di seguire il proprio piacere, il proprio gusto.
[...] se scrivi senza piacere, senza gusto, senza amore, senza divertimento, sei solo un mezzo scrittore.
Significa che sei così occupato a tenere d'occhio il mercato o a prestare orecchio al versante avanguardistico, che non sei te stesso. Non conosci neanche te stesso. 
Prima di tutto uno scrittore dev'essere, è, agitato.
Dev'essere una cosa di febbri e entusiasmi.
Senza questa forza, farebbe bene a uscire a raccogliere pesche o a scavare dei fossi. Dio sa che sarebbe meglio per la sua salute.
Quanto tempo c'è voluto perché voi scriveste una storia dove il vostro vero amore e il vostro vero odio finissero sulla pagina? Quand'è stata l'ultima volta che avete avuto il coraggio di abbandonare un pregiudizio che vi è caro e allora la pagina è stata come illuminata da un fulmine? Quali sono le cose migliori e le peggiori della vostra vita, e quand'è che comincerete a sussurrarle o a gridarle?

Ray Bradbury
La gioia di scrivere in
Lo zen nell'arte della scrittura
Libera il genio creativo che è in te
traduzione di Paolo Nori e Salim Catrina
DeriveApprodi 2000

Fonte: Frammenti Del Tredicesimo Mese

24/05/13

"L’arte di far finta di niente" di Slawka G. Scarso

L’arte di far finta di niente
va praticata con precisione.
Necessita di forbici minute
e lime tascabili per rifinire
il dettaglio che lascia trasparire
l’essersi accorti di qualcosa.
Richiede poi costanza
e attenta dedizione:
non si può certo far finta
di niente un minuto, e poi
subito ricominciare
a puntualizzare le sfumature.
Solo la pratica attenta,
incessante, permette
di reagire all’occorrenza
nel più silenzioso dei modi.
Di guardare altrove, di restare
con le labbra immobili
ma naturali, come se niente
fosse stato detto,
come se niente
fosse stato notato.
E’ consigliabile se si viene derisi
Raccomandabile con i pedanti
Indispensabile con gli invidiosi.
L’arte di far finta di niente
non vuol dire certo tenersi
tutto dentro. Piuttosto
come sa bene l’attento praticante
di quest’arte da valorizzare
vuol dire che certe cose
non vale proprio la pena notare.

Fonte : nano pausa, micro lettura

13/04/13

"Le poesie vanno sempre rilette" di Valerio Magrelli

Le poesie vanno sempre rilette,
lette, rilette, lette, messe in carica;
ogni lettura compie la ricarica,
sono apparecchi per caricare senso;
e il senso vi si accumula, ronzio
di particelle in attesa,
sospiri trattenuti, ticchettii,
da dentro il cavallo di Troia.

Valerio Magrelli (Roma, 1957), da Didascalie per la lettura di un giornale (Einaudi, 1999)


Fonte:  I poeti sono vivi

08/03/13

"Semplice, semplice" di Sciura Pina

Se la mia conoscenza dell’inglese non mi tradisce l‘intervista rilasciata da Beppe Grillo a Time (si sa la stampa italiana è serva del potere e allora ci tocca leggere le notizie in inglese, tedesco, danese e via dicendo) rivela una Weltanschauung (a furia di leggere la stampa straniera se non altro qualcosa si impara) sconcertante.
Il M5s, se comprendo bene le parole del suo fondatore, non pensa di sostituirsi ai partiti, non insegue la maggioranza di senatori e deputati, non vuole un banale 51% ma persegue con pervicacia l’obiettivo del 100%: solo allora il popolo sarà veramente sovrano e il movimento potrà anche sciogliersi.
Oso sommessamente aggiungere che, a quel punto, anche il Parlamento potrà essere sciolto visto che sarebbe composto solo da persone elette su un unico progetto politico e vincolate alla fedeltà al mandato (visto che si mette in discussione anche l’art. 67 della Costituzione).
Quindi basterebbe una sola persona che, a questo punto, avrebbe la responsabilità di portavoce di tutti i cittadini, con un evidente risparmio sui costi della politica.
Su altri costi preferisco calare un velo pietoso.
Ma forse il mio inglese non è così “fluent” come pensavo.
(NB vorrei anche sapere: in attesa del 100% che si fa?)
FONTE: Sciura Pina

23/02/13

"judge a book by its cover" di Fabio Magnasciutti


giudico i libri dalla copertina
superficiale che non sono altro
in libreria
quei libri con titoli a rilievo dorati
non li compro
non li guardo
passo oltre con un indefinibile senso di disagio
mi offendono
perderò un capolavoro
pazienza

le urla
i ringhi
battute frasi azioni
volgari povere primitive
da ripetenti di seconda elementare
mi offendono
offendono secoli di evoluzione del pensiero umano
auricolari nelle orecchie che mi pompano miliardi di decibel
di tutti i discorsi alle poste
sull'autobus
al bar
contemporaneamente
signora mia è un magna magna sono tutti uguali




no

17/02/13

"Arrivederci" di Paolo Nori

Qualche settimana fa sono andato a un convegno, a Reggio Emilia, dove si parlava di scuola e di diritti dei bambini e io, che non ne so tanto, di scuola e di diritti dei bambini, ho pensato che avrei letto due favole, ho scritto un libro di favole, per bambini, e mi sembrava che me la sarei cavata così. Solo che poi il giorno prima mi hanno detto che dovevo parlare mezz’ora, e io, parlare mezz’ora, altro che due favole, lì bisognava inventarsi qualcosa, cioè più che inventarsi, con così poco tempo, improvvisare, e allora ho preso su un paio di libri in più, rispetto a quello lì delle favole che comunque l’ho portato con me e una favola poi dopo alla fine l’ho letta anche se non è stato quello, il centro del mio intervento.
Il centro del mio intervento non saprei dire bene, qual è stato, perché quando sono andato sul palco io ero un po’ agitato per delle cose che avevo sentito dire e allora non so, di preciso, quello che ho detto, che quando mi agito io non rispondo esattamente, di quello che dico e poi dopo, per farmi passare l’agitazione, quando tutto è finito, mi succede che mi ripeto nella mia testa un misto di quello che ho detto e di quel che avrei dovuto dire, e il risultato è un po’ un misturotto la cui principale funzione è quella di calmarmi e di convincermi che io, tra tutti quelli che hanno parlato, ero quello che aveva ragione.
Le cose che avevo sentito e che mi avevano fatto agitare erano due, la prima, che bisognava educare e dar dei valori, ai bambini, la seconda, che quelli che non vanno a votare tolgono un diritto anche a quelli che ci vanno, che non ho ancora capito bene cosa c’entrasse, con l’educazione dei bambini, ma pazienza.
Allora quando sono andato sul palco io la prima cosa che ho detto che io, l’unica relazione che ho con la scuola, e con l’educazione dei bambini, è il fatto che c’è una bambina, che ha l’avventura di esser mia figlia, che ha otto anni e fa la terza elementare e che io, nell’universo della scuola il mio ruolo, la mia funzione, il mio punto di vista, sono un ruolo, una funzione e un punto di vista marginali di uno che è il babbo di una bambina che fa la terza elementare e che, a questo proposito, io avevo preso su un libro che io e mia figlia lo stavamo leggendo in quei giorni lì che era un libro di Gianni Rodari che si intitolava Fra i banchi ed era appena stato ristampato da Einaudi ragazzi e da quel libro lì, a Reggio Emilia, a quel convegno sull’educazione ai diritti, ho letto una filastrocca che faceva così: «Ho conosciuto un tale,
 un tale di Macerata,
/ che insegnava ai coccodrilli
/ a mangiare la marmellata. // Le Marche, però,
/ sono posti tranquilli,
/ marmellata ce n’è tanta,
/ma niente coccodrilli. // Quel tale girava
/ per il monte e per la pianura,
/ in cerca di coccodrilli
/ per mostrare la sua bravura. // Andò a Milano, a Como,
/ a Lucca, ad Acquapendente:
/ tutti posti bellissimi,
/ ma coccodrilli niente. // È ancora lì che gira,
/ un impiego non l’ha trovato:
/ sa un bellissimo mestiere,
/ ma è sempre disoccupato», ho letto e dopo ho detto che quella filastrocca lì, sembra che non c’entri niente e invece secondo me c’entra, se avete pazienza. Perché io, ho detto, rispetto a quand’ero piccolo io, la figura centrale della famiglia di quando ero piccolo io, il buon padre di famiglia, cioè il padre giusto e severo, né troppo intelligente né troppo stupido, quello che faceva le cose con la diligenza del buon padre di famiglia, cioè né troppo bene né troppo male, cioè in un modo giusto, con un metro giusto, al quale si adeguava poi tutta la famiglia, i figli, la moglie, i suoceri, le nuore, i cognati, i parenti, gli amici in visita eccetera eccetera, ecco quella figura lì, che spirava autorevolezza, che non aveva bisogno di alzare la voce perché bastava uno sguardo, un sopracciglio alzato, per produrre il silenzio, e l’ascolto, ecco quella figura lì, ho detto, oggi che io non sono più giovane e che è giovane invece mia figlia, che ha otto anni, quella figura li non esiste più, è anacronistica, e se si ripresentasse, se ricapitasse in Emilia in questi giorni un buon padre di famiglia come quelli che ho conosciuto io, con la giacca del buon padre di famiglia, e le abitudini del buon padre di famiglia, fumare in casa, e in macchina, per dire, e iniziare i figli all’uso degli alcolici, ecco secondo me un padre del genere farebbe la figura del di quel signore di Macerata di cui parla la poesia di Gianni Rodari, cioè di uno che sa un mestiere magari bellissimo ma che non serve a niente.
Solo che, ho detto, mi viene in mente una cosa che è successa con mia figlia due anni fa, che una volta lei, eravamo a casa sua, non abitiamo insieme (e già questo, di per sé, sarebbe già fuori dall’universo del buon padre di famiglia, mi sembra), e lei, in salotto, camminava sulla spalliera del divano, e io le ho detto «Secondo me non va bene, che fai così», e lei si è fermata, mi ha guardato, ma cattiva, e mi ha detto «Tu non devi dirmi Secondo me, tu devi dirmi Non va bene». Allora, ho detto lì a Reggio Emilia, mi viene forse il dubbio che qualche coccodrillo che vuol la marmellata in Italia, ancora, ce ne siano anche oggi, anche se io, proprio, di marmellata, non son capace, di darne, forse perché quand’ero piccolo io me n’han data talmente tanta, di marmellata, che mi è venuto il diabete, non solo in famiglia, anche a scuola. Io, ho detto, quando ho fatto le elementari ero contro il divorzio, perché ho fatto le elementari il periodo che c’era il referendum sul divorzio e la nostra maestra ci diceva in classe, a una classe di 30 bambini di 10 anni, che noi dovevamo convincere i nostri genitori che era bene che votassero no al divorzio perché il matrimonio era un vincolo indissolubile. Ci faceva venire in classe un frate (scuola pubblica, in Emilia Romagna, nel 1974) che ci diceva che gli uomini non potevano sciogliere i matrimoni, perché nessuno, in terra, poteva sciogliere quello che Dio aveva legato in cielo, e la maestra faceva uscire il frate e poi ci diceva «Ecco, cosa vi avevo detto io?». Quella signora lì, ho saputo trent’anni dopo, era stata lasciata dal marito, e credo che non avesse nessuna colpa, lei, poveretta, credo che fosse lei che aveva patito più di tutti, questo fatto, solo che la violenza che, in conseguenza del suo dolore, aveva fatto a una classe di trenta bambini di dieci anni, io me la ricordo ancora come una violenza insopportabile, ed è forse per quello che quando sento parlare di educare ai valori io penso che ognuno, i valori, dovrebbe trovarseli per conto suo, e mia figlia io credo che dovrà far la fatica, tremenda, mi rendo conto, di costruirselo da sola, l’angolo dei suoi valori, io posso solo accompagnarla, ho detto, e mi è venuta in mente una volta che lei, eravamo in bicicletta, era ancora piccola, avevamo uno di quei seggiolini che si metton davanti, sul manubrio, io non la vedevo in faccia ma sentivo quel che diceva e a un certo punto l’ho sentita dire «Io non le voglio, le righe», e io, non capivo, quel che diceva, le ho chiesto «Che righe?», e lei mi ha detto «Le righe che ci son sulla faccia», e io ho capito che voleva dire le rughe e le ho detto «Ah, va bene, non c’è problema, ci son dei medici che ti addormentano, quando sei grande che cominciano a venirti le righe, ti taglian la faccia, ti cuciono che non si vede niente quando ti svegli hai una pelle liscissima che sei senza righe», le ho detto, e lei ha taciuto un po’ e poi alla fine mi ha detto «No, io le voglio, le righe», e questo è l’unico modo, secondo me, in cui sono capace di influenzare i valori di mia figlia, facendo come se non li influenzavo e mi è venuta in mente un’altra poesia di Rodari, una poesia che è abbastanza famosa che si intitola La mia mucca e che fa così: «La mia mucca è turchina / si chiama Carletto / le piace andare in tram / senza pagare il biglietto. // Confina a nord con le corna, / a sud con la coda. / Porta un vecchio cappotto / e scarpe fuori moda. // La sua superficie / non l’ho mai misurata, / dev’essere un po’ meno / della Basilicata. // La mia mucca è buona / e quando crescerà / sarà la consolazione / di mamma e di papà. // (Signor maestro, il mio tema / potrà forse meravigliarla: / io la mucca non ce l’ho, / ho dovuto inventarla.)», che è una poesia che quando l’ho letta io, da piccolo, mi era piaciuta, e quando l’ha riletta mia figlia, pochi giorni fa, è piaciuta anche a lei, e io non so il motivo per cui ci è piaciuta, da piccoli, però una delle cose per cui mi piace adesso è che dice una cosa che non si poteva tanto dire, a scuola, cioè che quel che si scrive nei temi, di solito, sono cose inventate, cioè relativizza il portato valoriale della scuola, se così si può dire, e per via dei valori, ho detto, io forse a scuola preferirei che a mia figlia le dessero degli strumenti, anziché dei valori. Quando ai diritti, ho detto là a Reggio Emilia, io sentendo gli interventi precedenti mi son reso conto che vi devo chiedere scusa perché ho sentito dire che chi non va a votare priva del diritto di andarci anche tutti gli altri e io, scusatemi, sono vent’anni che sto a casa, quindi sono vent’anni che privo la gente dei loro diritti, e io pensavo, e vi confesso, penso ancora, ho detto là a Reggio Emilia, che fosse e che sia un mio diritto, stare a casa, e devo dire, scusatemi, che da quando, vent’anni fa, ho smesso di credere che qualcuno che andrà in parlamento farà il mio bene, da quando ho cominciato a pensare che il mio bene era bene non delegarlo a nessuno farlo da solo, e che la politica non è una cosa che si fa una volta ogni cinque anni quando si va a votare, ma che la politica si fa tutti i giorni, e che è politica il modo in cui si parla, il modo in cui ci mi muove, che è politica il grado di gentilezza con cui si parla coi propri figli, e coi proprio genitori ecco io, ho detto là a Reggio Emilia, sto molto meglio, da quando ho scoperto queste cose, e queste scoperte, ho detto, coincidono con la scoperta del pensiero anarchico, che qui non ho il tempo di riassumere e ne affido il riassunto a una frase di Pierre-Joseph Proudhon del 1840 che fa così:
Essere governati significa essere guardati a vista, ispezionati, spiati, diretti, legiferati, valutati, soppesati, censurati, comandati da persone che non ne hanno né il titolo, né la scienza, né la virtù. Essere governati significa essere, a ogni operazione, a ogni transazione, a ogni movimento, annotati, registrati, censiti, tariffati, timbrati, tosati, contrassegnati, quotati, patentati, licenziati, autorizzati, apostrofati, ammoniti, impediti, riformati, raddrizzati, corretti. Significa, sotto il pretesto dell’utilità pubblica e in nome dell’interesse generale, essere addestrati, taglieggiati, sfruttati, monopolizzati, concussionati, pressurati, mistificati poi, alla minima resistenza e alla prima parola di protesta, repressi, multati, vilipesi, vessati, taccheggiati, malmenati, fucilati, mitragliati, giudicati, condannati, deportati, sacrificati, venduti, traditi e, come se non bastasse, scherniti, beffati, oltraggiati, disonorati. Ecco il governo, ecco la sua giustizia, ecco la sua morale!
ho letto lì a Reggio Emilia, per via dei diritti, e poi ho detto che io mi ero preparato delle letture dove, più o meno, si parlava appunto del mio ruolo di babbo che non è un buon padre di famiglia, e se c’era ancora tempo ne avrei letta una o due, e loro mi han detto che c’era tempo [...] 

Fonte:  http://www.paolonori.it/arrivederci/

12/02/13

"Grammatica d’amore: le elisioni e i troncamenti" da Il nuovo mondo di Galatea

E poi capita che devi passare il pomeriggio a scrivere schede di grammatica su elisioni e troncamenti. Ed è difficile, perché non sai proprio come spiegarle, queste robe qua, che son noiose come poche, e poi in una scheda di grammatica risultano ancora più noiose perché bisogna essere freddi e razionali, quando si spiegano cose così. Che non è mica facile spiegarle, poi, le elisioni, con quella storia dell’apostrofo che resta là come una lapide a segnalare la lettera scomparsa, e invece nel troncamento no, non resta nulla, si forma proprio una parola per conto suo, diversa anche se simile alla prima.
Forse bisognerebbe spiegarle facendo il paragone con le storie d’amore: perché l’elisione è come quando lui va via per un po’, perché magari deve fare un viaggio di lavoro, e tu resti là, ad aspettarlo, e senti che una piccola parte di te se n’è andata, ma sai anche che è solo una cosa provvisoria, e poi e tutto ritorna come prima. E allora, mentre sei sola ti coccoli i suoi maglioni, tocchi le cose che ha lasciato, perché sono come un apostrofo che dice che sta per arrivare di nuovo da te.
E invece il troncamento è proprio come quando la storia finisce e lui se ne va per sempre, e tu resti là, priva di un pezzo, un pezzo che prima c’era e adesso non c’è più. E allora non vuoi niente che te lo ricordi, quel pezzo che se n’è andato, manco un apostrofo. Soffri, e dopo un po’ cerchi di dimenticare e di andare avanti, ma non sei più la stessa di prima, perché quel pezzo lì che se n’è andato, è andato per sempre, non ritorna più. E tu sei diventata un’altra parola, senza quel pezzettino: una parola che ha un suo senso, e una sua funzione, che può continua a vivere e a fare le cose. Ma diversa da prima, ecco.

Fonte: Il nuovo mondo di Galatea

06/02/13

Gli eds della Donna Camèl


Da tempo  La Donna Camèl propone sul suo blog degli eds* (uno è ancora in corso) aperti a chiunque abbia voglia di "giuocare" con la scrittura,  riprendo qui i "risultati" di quelli nel tempo realizzati:


- EDS di Halloween

 - Cielo sopra Milano: La fila-Nessun diritto riservato. Con il cazzo che ho la siae.
 - MaiMaturo: Metti una sera al Centro
 - Lillina: Senza titolo
 - Hombre: Post mortem
 - Kisciotte: La Compagnia del Fornello
 - La Carta: The life after*
 - La Donna Camèl: La vecchina

- EDS del ponte

 - Lillina: Scrivere
 - MaiMaturo: La settima repubblica
 - Dario: La Petite Danseuse
 - Hombre: Gianni il cinese
 - La Carta: Tronco lo spirito della pietra, quale ginocchio conosce assenza di danno?
 - La Donna Camèl: Grande pino e terre rosse
 - Contributo anonimo: qui
 - Altro contributo anonimo: Lo scultore


- EDS Scapoli contro ammogliati

 - Melusina: Ho visto un re
 - Dario: Factory 
 - Lillina: Le voci nel silenzio
 - Cielo sopra Milano: Addicted to love
 - Hombre: Sottoposti
 - MaiMaturo: Quelli dell'EdS
 - Giodoc: My Sharona
 - La Donna Camèl: E quando suonano le sirene ti sembra quasi che canti il gallo


- EDS Incipit o della citazione

- Hombre: Tutto quello che non sopporto
- MaiMaturo: Quello che sono disposto a raccontarvi
- Dario: Avanti
- Melusina: Una giornata qualunque
- Lillina: Alter ego
- Mario: Aefula
- Singlemama: La voce - the voice
- Melusina: Ed essi andarono
- La Donna Camèl: 4maggio


- EDS Il nome della cosa

- MagneTICo: C
- Melusina: Storia d’amore e di cerotti 
- Dario: Principesse
- Lillina: Catena di perle 
- La Carta: Carta e corsa 5 
- Hombre: E cenere ritorneremo 

- MaiMaturo: Cera fusa
- La Donna Camèl: C come cioccolato 
- Singlemama: Gisella Clio 

- SpeakerMuto: SpeakerMutismo AKA La centrifuga
- Anonimo: Cinque 


- EDS InterSex - sempre aperto!

- Melusina: All’ombra dell’ultimo sole
- Hombre: Puzzle
- MaiMaturo: Gli sguardi del cuore
- Lillina: Tentar non nuoce 
- Orsa Bipolare: Kronos e Kairos 
- SpeakerMuto: Al pensiero
- Melusina: Paolino
- Singlemama: E’ un gioco
- La Donna Camél: Sono io
- Dario: Se lavessi saputo prima
- Kisciotte: Tira più un pelo di ca…
- Lillina: Nuovo inizio


- EDS Attesa

- SpeakerMuto: Ti aspetto
- Hombre: Faccio lo sborone
- firulì firulà: E tu come stai?
- Lillina: Anime
- Dario: Ombre di fiori sul mio cammino

- Chiagia: In-attesa
- firulì firulà: Quanto manca alle nove
- firulì firulà: Credevo, e invece
- La Donna Camèl: Quanto a me
- Pendolante: Il melo
- MaiMaturo: E se

- Melusina: God save the Queen 
- Melusina: Notte prima degli esami


- EDS 33 - sempre aperto!

- Melusina: Metropolis
- Pendolante: 33 minuti 
- SpeakerMuto: Il regalo di compleanno (V.M. 18)
- Lillina: Pane al pane
- la Donna Camèl: Il festival degli ormoni
- Dario: Gianni e Cettina 

- La Carta: Prova prova sa sa sa 
- MaiMaturo: Fast and Furia

- EDS Paura!

- Melusina: La guardiana di oche
- Lillina: Vite malate
- MaiMaturo: 0.10.35
- Hombre: Wonderwall

- Dario: I guerrieri del caos
- Pendolante: Il collega

- Hombre: Cimici 
- MaiMaturo: Il prescelto 
- La Donna Camèl: Gatto nero
- Pendolante: Racconto banale



* Esercizi di Scrittura (eds) con (lontana?) somiglianza agli  Esercizi di stile (Exercices de style), scritti dal francese Raymond Queneau

24/01/13

"Bolaño, Wallace, Lindo Ferretti e la Feltrinelli" di Antonio Koch

Non ricordo quando ho comprato “2666” di Bolaño, non so nemmeno perché, forse perché era grosso, avevo voglia di un libro grosso, forse perché era un Adelphi, gli Adelphi hanno un bel font, forse perché c’era la Madonna di Guadalupe in copertina. Non sapevo niente del Messico, non sono mai stato in Messico e nemmeno in Cile, non ho mai neppure avuto una particolare predilezione per il Sudamerica o per gli scrittori sudamericani, e Bolaño non l’avevo mai sentito nominare. Ricordo invece quando ho comprato “Infinite Jest” di David Foster Wallace, lavoravo ancora da Feltrinelli e c’era una pila di “Infinite Jest” in mezzo al corridoio, e la guardavo tutti i giorni, non guardavo il singolo libro, guardavo tutta la pila che era composta da tredici copie di “Infinite Jest”, era molto grosso, non lo comprava nessuno, né quello né altri libri di David Foster Wallace. Deve essere buono, quindi, se non lo compra nessuno, pensavo, oppure pericoloso. È anche vero che la Feltrinelli dove lavoravo faceva più che altro un servizio di edicola, la gente veniva a comprare Astra, Gente Mese, Giochi Per Il Mio Computer, venivano i trans-gender a comprare I-D, Details, riviste di moda o design o architettura o arte o tutto insieme che costavano una quarantina di euro, ogni tanto arrivava Lindo Ferretti, sì proprio lui, Giovanni, che comprava dodici-quindici libri tutti in una volta, arrivava vestito da monaco, tipo, con una tunica di panno verde che strisciava per terra, oppure con degli occhiali scuri fatti in casa, cioè occhiali da vista con le lenti dipinte di nero con l’Uniposca, arrivava sempre dopo mezzanotte, all’una o alle due, io facevo il turno di notte, la Feltrinelli chiudeva alle tre di mattina, a volte arrivava alle tre meno cinque e si metteva a gironzolare tra gli scaffali e nessuno aveva il coraggio di dirgli Giovanni, signor Ferretti, come chiamarlo?, mi scusi, dirgli guardi che dobbiamo chiudere, e io aspettavo alla cassa e occhieggiavo la pila di “Infinite Jest” lì, immutata, costava molto, ricordo, ventiquattro euro. Poi un bel giorno l’ho comprato, avevamo lo sconto quaranta percento, mica male, l’ho letto e mi sono licenziato.
Cosa hanno in comune Bolaño e David Foster Wallace? Boh, secondo me niente tranne il fatto che erano persone che non stavano bene, ma quale scrittore sta bene?, oppure che sono entrambi morti giovani, Wallace a quarantasei anni, Bolaño a cinquanta, oppure che sono entrambi morti suicidi – no, questo non è esatto, Bolaño è morto perché necessitava di un fegato nuovo, aspettava il trapianto, il fegato non è arrivato in tempo, ma comunque era uno che beveva, o che aveva bevuto, è anche per questo che gli serviva un fegato nuovo, inoltre fumava parecchio, e in fondo bere e fumare è un modo per suicidarti lentamente, un modo per ucciderti senza volerlo mostrare al mondo in modo plateale – oppure il fatto che se pure in modi diversi erano entrambi dei romantici, Bolaño dà l’impressione di averlo assimilato meglio, questo aspetto della sua natura, forse perché era cileno, poi messicano, poi spagnolo, comunque sembra essere in pace su questo, come dire accetto la cosa anzi la sfrutto per scrivere pagine immortali e pubblicare libri i cui diritti d’autore daranno da mangiare a mia moglie e a mio figlio quando non ci sarò più, Wallace invece da questo punto di vista era messo peggio, non si dava per vinto, chiedeva aiuto alla logica, alla matematica, ma poi continuava a scrivere perché (sono parole sue) ogni storia d’amore è una storia di fantasmi, e né lui né la matematica potevano farci nulla.
Cioè Bolaño era uno tosto, un tipo vissuto, Wallace era più nerd. Entrambi poeti, comunque. Io i loro libri li consiglio anche se non sono libri facili, molti sono libri grossi, altri sono piccoli ma sono comunque infingardi, ti portano in posti che dici boh, non so, mi sembra molto buio qui, sarà pericoloso?, ehi c’è nessuno?, e quando vuoi tornare indietro scopri che ti hanno chiuso lì dentro e hanno buttato la chiave.

Fonte: like falling stars

21/01/13

Occhio del coniglio di LaDonnaCamel


Basta. È arrivato il momento di mandarlo per la sua strada e di ritornare libera. Libera di scrivere altro. Libera di giocare. Libera di fare a modo mio. Mi rendo conto che mancano dei passaggi di causa-effetto tra le premesse (le frasi citate) e le mie conclusioni: pazienza. Chi mi conosce sa che l'ellissi è la mia.

Dalla prossima domenica - che è anche la befana e mi si addice, ogni domenica pubblicherò un capitolo del romanzo che si intitola L'occhio del coniglio. Sono trentadue in tutto, andremo avanti fino all'estate: deciderlo oggi è più casuale che significativo. Sarà di domenica perché è una cosa da dilettante e non da professionista, sarà gratuito e libero. Liberato, per la precisione.
Poi vediamo.




19/01/13

"Autenticità" di Paolo Nori

Ho molti quaderni, mi piace molto usare i quaderni, delle volte ne compro talmente tanti che poi non so cosa scriverci, e allora ci scrivo «Ma quanti quaderni, che ho», oppure ci scrivo «Non so cosa scriverci, su questo quaderno», mi diverto così.
Adesso sto provando a scrivere un romanzo e gli appunti che prendo li prendo su un quaderno dove dentro ho trovato un pezzetto di carta che dice: «Questo prodotto è stato realizzato con tecniche artigianali. Qualunque “difetto” esso presenti non è da considerarsi tale ma una conferma della sua autenticità».
E mi è venuto da pensare a una cosa di uno scrittore russo che mi piace molto, che si chiama Daniil Charms (Pietroburgo, 1905, Leningrado 1942), e che negli anni 30 del secolo scorso scriveva: «All’osservazione: “In quello che ha scritto ci son degli errori”, rispondi: “Sembra sempre così, in quello che scrivo».
Che è una cosa che mi piace molto, è che mi piacerebbe di poter dire anche delle cose che scrivo io, solo che non ci credo.
Io, quello che credo, che i difetti delle cose che scrivo (e dei miei quaderni), non siano da considerare una conferma della loro autenticità.
Che autenticità, poi, io, di preciso, non so bene cosa vuole dire. Secondo me, non è una questione di autenticità o di falsità, è una questione di sapienza o di ignoranza; che io, se devo stare da una parte, mi viene da scegliere l’ignoranza.
Perché, senza voler parlare male di una categoria, che le categorie non esistono, ma i professori universitari, anche quelli bravissimi, a me sembra che tendano a parlare delle cose che sanno come cose che si sanno, che son state scoperte, e, quindi sono disinnescate, pastorizzate, microfiltrate, non c’è più stupore, si possono bere senza nessun pericolo di infezione.
Che da un certo punto di vista è anche normale, chissà quante volte le han ripetute, quelle cose lì, però, da un altro punto di vista, non so, la legge di gravità, ma anche la ruota, e anche la leva, e anche gli scolapasta, per dire, a guardarli con un minimo di sforzo, a dedicare loro un po’ di attenzione, sono tutte cose stupefacenti. Anche i denti d’oro, mi viene in mente adesso. Che i denti d’oro, uno potrebbe chiedersi, sono autentici? Ecco, questo è un bel problema, secondo me.
 
Paolo Nori

12/01/13

"Dieci buone ragioni " di Giulio Mozzi

Dieci buone ragioni per smettere di scrivere:

1. Non ne hai più voglia.
2. Quello che avevi da dire, l’hai detto.
3. Niente di ciò che scrivi ti soddisfa più.
4. Hai sempre più forte la sensazione che la letteratura non serva a niente.
5. Hai dieci progetti impiantati e non vieni a capo di nessuno.
6. Rileggi ciò che hai scritto vent’anni fa e hai l’impressione di avere che fare con un estraneo, con una persona che non esiste più.
7. Le cose che non t’importano più che tanto ti vengono facili: sei diventato un vero professionista.
8. Ogni volta che ti metti a lavorare su quel romanzo al quale stai lavorando da otto anni, finisce che ti metti a piangere.
9. Ti domandi sempre più spesso se quello che scrivi potrebbe fare del male a qualcuno che ti è caro.
10. Non sei felice.


Dieci buone ragioni per continuare a scrivere:

1. Ne hai voglia.
2. In fondo, finora ti è venuto benino.
3. Ti sembra che dire e ridire sempre le stesse cose sia come penetrare in un luogo misterioso a perdita d’occhio, dove si scoprono ogni volta cose vecchie e cose nuove.
4. Provi molta gratitudine verso certe opere che hai lette, e che – così ti pare – ti hanno fatto del bene.
5. Continuano a venirti in mente immaginazioni di opere che potresti fare, da solo o con altri, o addirittura far fare ad altri: non sei più uno scrittore ingenuo, lavori per progetti.
6. A volte, mentre scrivi, ti emozioni.
7. A volte, mentre scrivi, hai la sensazione di essere un atleta che prova e riprova sempre la stessa acrobazia, nella speranza di realizzare l’esecuzione perfetta – o di ripetere l’esecuzione perfetta, quella che gli capitò per caso il 17 febbraio 1991.
8. Quando ti càpita di leggere quello che scrivevi tanti anni fa, ti accorgi che c’erano in te del bene e del male che oggi sono diventati invisibili: e tu vuoi vederli.
9. Immaginare il mondo è l’unico modo che possiedi per saperne qualcosa.
10. Sei giunto alla disperazione calma, senza sgomento.


Fonte: http://vibrisse.wordpress.com

17/07/12

"Incognito" di Raffaele Birlini

La letteratura, come qualsiasi attività umana, necessita di riconoscimento. L'appagamento dell'autoreferenziale fa capo a capacità critiche e risorse di autostima chiamate a superare la forza dirompente dell'ostracismo, l'arma sociale preferita nelle società umane che nemmeno le scimmie sono così crudeli da utilizzare. Puoi essere l'orologiaio più capace del mondo e non trovare non dico acquirenti per le tue sveglie, ma nemmeno esperti in materia disposti a fare pubbliche ammissioni. Ci vuole una grande forza interiore per fare a meno del riconoscimento pubblico, ufficiale, è rivoluzionario l'atteggiamento del fuori concorso, di chi non partecipa alla competizione perché non condivide le regole o denuncia la soggettività delle premiazioni. Perché se fai orologi puoi dimostrare che i tuoi sono più precisi, ma non puoi dimostrare nulla se scrivi, canti, reciti, fotografi, pensi, fai cultura.
È facile paragonare all'onanismo la pratica di chi non rivolge la sua produzione a un pubblico. È facile paragonare a facili costumi chi dà via la sua produzione gratuitamente. Il paragone col sesso è calzante: se lo fai per te stesso non va bene, se lo fai gratis al primo che passa non va bene, se lo fai a pagamento col primo che passa è già più accettabile, e in fondo è quello che fanno tutti coloro che hanno successo. È raro che qualcuno venga riconosciuto per un lavoro non espressamente finalizzato a gratificare un acquirente ben identificato, che sia l'adolescente con soldi in tasca per comprare canzoni d'amore, che sia il partito politico che vuole modificare i comportamenti sociali, che sia il cittadino medio che occupa una fascia di mercato lasciata scoperta. Se invece pensate davvero che la cultura sia un fiore spontaneo allora vi lascio tranquilli a brancolare nei dolci pascoli dell'ingenuità.
Prendete per esempio il testo di una canzone di un cantautore famoso, di quelli che gli danno le lauree honoris causa, che ogni tanto salta su qualcuno a dire che dovrebbero insegnarle a scuola. Sembra un testo fantastico, pieno di emozione e sentimento, di una profondità abissale in grado di far piangere i sassi, lo è fino a quando non immaginate che l'abbia scritto un liceale brufoloso sconosciuto, uno che si comporta male, dice le parolacce e fa il buffone. A quel punto ditemi che non andate in tilt. Non c'è il personaggio sul palco, vestito così, coi capelli così, il tatuaggio, il trucco, oppure con l'aria normale del bravo ragazzo, insomma non c'è materiale per dargli un riconoscimento ufficiale. Se il vostro cameriere scrivesse una poesia e ve la mostrasse voi lo guardereste come si guarda un cane finito sotto la macchina. La stessa poesia riportata in tv e sui giornali, citata da giornalisti e trasmessa alla radio diventa un capolavoro.
Non è colpa di nessuno. È così che funziona. Il pubblico, tranne rare eccezioni, non è in grado di giudicare da sé il valore di opere culturali. La gente si appoggia al riconoscimento ufficiale. Una volta questo riconoscimento veniva dall'alto, c'era un establishment, un'intellighenzia che decideva chi riconoscere. Nelle dittature venivano riconosciute solo opere grate al Partito, il resto era underground, era dissidenza, era rivoluzionari-reazionari che rischiavano galera, tortura, campi di rieducazione e condanne a morte. Adesso l'underground è diventato nazional-popolare, adesso il riconoscimento è dato dalle copie vendute e non dai premi della giuria, adesso sei scrittore perché il tuo libro è stato pubblicato, lo sei ancora di più se hai venduto tante copie. Adesso ci sono case discografiche, case editrici, vere e proprie industrie commerciali che non hanno nulla di culturale ma fanno un investimento sull'autore, analizzando le preferenze di mercato, programmando la sua carriera a tavolino, comprando la popolarità dell'autore adottato e inserito nella scuderia aziendale a suon di promozione e visibilità mediatica.
Ecco perché io ho scritto qui sul web, in questi anni, solo per mio figlio, per dimostrargli che non ho mai avuto paura di mostrarmi per quello che sono, che non ho niente da nascondere, mio figlio è il mio unico pubblico, l'unico pubblico che mi sia mai interessato. Ecco perché non me ne frega niente, in fondo, di essere riconosciuto dal mondo quando parlo del mondo, dell'economia, della filosofia, dell'arte, e me ne tornerò presto a farmi gli affari miei, a giocare a gw2, fare passeggiate, dedicarmi a hobby privati che non necessitano né aspirano ad alcun riconoscimento pubblico, tornerò a far finta che non esista questo baraccone mediatico e neppure i clienti che gli danno modo di funzionare. Perché anche l'amore ha bisogno di riconoscimento per esistere, non puoi dire di aver sperimentato l'amore se hai sempre e solo amato te stesso, perfino un dio non sarebbe tale senza qualcuno in grado di riconoscerlo come tale. Ma anche pretendere di essere dio è superbia, foss'anche dio a pretenderlo, il risultato è che siamo liberi, e per me essere libero e avere la capacità di rendermene conto è più che sufficiente, anche a costo di dover bastare a me stesso.

Fonte: Titolo a caso di Raffaele Birlini

24/06/12

"10 modi per imparare a essere poveri ma felici" di Andrea Pomella recensito da Alberto Cellotto

"10 modi per imparare a essere poveri ma felici" di Andrea Pomella

Recensioni rapide #6
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"Recensioni rapide": due paragrafi fissi dove cerco di rispondere brevemente alle domande "che libro ho davanti?" e "perché vale la pena/non vale la pena avvicinarlo?" (solitamente resto su quelli che vale la pena). 
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Pregiudizialmente non acquisterei mai un libro con un titolo simile. E in effetti non è un libro che ho scelto io. Tuttavia, questo 10 modi per imparare a essere poveri ma felici di Andrea Pomella (Laurana, pp. 144, euro 11,90, con una nota di Marco Rovelli) è un libro che vale la pena avvicinare. Il titolo non è felice perché suona troppo self-help. E questo non è un libro tra i tanti della categoria self-help. Ho dovuto ricredermi perché tratta argomenti quasi tabù ed estremamente complessi con una scrittura drammaticamente semplice ed efficace. Inutile nascondere che si tratta, a suo modo, di un instant-book figlio della crisi, figlio del senso di depauperamento che viviamo, degli anni passati (e forse dei tempi presenti) vissuti davvero al di sopra delle nostre possibilità. E la sua tempestività è forse la caratteristica da salutare con più attenzione. Questo non è un libro di facili consigli, come quel titolo potrebbe lasciare intendere. Molto meglio prendere a esempio alcuni titoli delle 10 tesi di Pomella per capire come si dipanerà il suo ragionamento (Custodire anziché consumare, Non nascondere i segni della povertà, Diffidare dei sogni di fortuna, Nascere dalla parte giusta del Mediterraneo, Nessuno lontano dalla verità può dirsi felice). Ed è un ragionamento che evita accuratamente certe secche dove è facile incagliarsi quando si discute di povertà e ricchezza, PIL e felicità, nuove e vecchie forme del capitalismo mondiale.

Ecco, se anche voi superate la resistenza del titolo o se invece magari siete attirati proprio dal titolo, sappiate che questo libro finisce per essere una lettura "arricchente" per un motivo semplice e originale: non vi troverete favolette o storielle trite sulla povertà. Sarete avvicinati da una prosa che evita facili piagnistei e guarda coraggiosamente in faccia la nostra condizione, i nostri desideri, le nostre paure il relazione al tema fondante della povertà e al neanche tanto velato terrorismo che si insinua in qualsiasi occorrenza della parola denaro. Marco Rovelli, nella nota iniziale, ricorda il "discredito sul denaro" che secondo Simone Weil avrebbe potuto essere la leva di una nuova stagione. Senza necessariamente parlare di discredito, basterebbe riscoprire la natura del denaro, il suo piano denotativo di "moneta di scambio" prima ancora delle incrostazioni delle sue connotazioni menzognere. Ragionare in modo molto "spiccio" sul denaro, questo forse basterebbe. Semplicemente risalire al motivo della sua nascita. Aggiungerei riscoprire persino le virtù di una scienza oggi tanto demonizzata, la finanza, che invece dovrebbe ritornare a essere linfa e non droga. Avremmo dovuto partire a far questo molto tempo fa, prima che persino un gruppo rock arrivasse a cantare "Money it's a crime / Share it fairly but don't take a slice of my pie / Money so they say / Is the root of all evil today / But if you ask for a rise it's no surprise that they're giving none away...". La chiave del ragionamento non è tanto nel denaro allora, ma nel riconoscere la complessità che muove da quelle due parole richiamate indirettamente anche dal titolo. Povertà e felicità. Potremmo ripartire anche da Seneca, se volessimo, e non basterebbero 10 modi, 10 anni, 10 tesi a restituire questa complessità che anche questo saggio, nella sua brevità, prova felicemente a scandagliare.
qui il blog di Andrea Pomella

11/05/12

"Non c'e' nessuna ondata di suicidi economici" di Gennaro Carotenuto

È proprio vero che c’è un’ondata di suicidi economici in Italia? È proprio vero che si sta ammazzando un numero senza precedenti di bravi imprenditori strozzati dal fisco, da Equitalia, dallo Stato che non rimborsa, dal costo del lavoro troppo alto? In molti cominciano a dubitarne e a pensare che si tratti di una manipolazione mediatica. Il sociologo Marzio Barbagli, ripreso dal Blog di Gad Lerner, afferma apertamente che «non c’è nessuna emergenza suicidi dovuta alla crisi economica».
Come per il caldo o il freddo “senza precedenti”, le rapine in villa o gli stupri commessi da immigrati, sui quali i media dominanti costruirono ad arte la destabilizzazione del governo presieduto da Romano Prodi, anche l’ondata di suicidi di imprenditori sarebbe innanzitutto un fenomeno percepito, mediatico, portato in prima pagina non perché davvero rilevante o perché segni un picco particolare rispetto al passato, ma perché così conviene a fomentare una polemica anti-fisco che sarà l’argomento fondamentale delle destre nella prossima campagna elettorale.

I 38 suicidi di piccoli imprenditori contati dalla Cgia di Mestre dall’inizio dell’anno, sempre penosi, «non rappresentano un’anomalia a fronte delle 1300 persone circa che nello stesso periodo si sono tolte la vita in Italia. I suicidi in questa categoria sociale c’erano anche negli anni passati, più o meno con la stessa frequenza». Sempre secondo Bargagli Italia e Grecia, due dei paesi più aggrediti dalla crisi, avevano e continuano ad avere tassi di suicidi tra i più bassi in Europa. La Germania, che corre come un treno, ha un tasso di suicidi doppio di quello italiano.
Scrive cose simili Daniela Cipolloni su Wired che sostiene anzi che nel 2012 i suicidi attribuiti a motivi economici sarebbero in calo, 0,29 al giorno contro 0,51 del 2010 e 0,54 del 2009. Ogni anno in Italia si suicidano circa 3.000 persone, un numero che circa vent’anni fa era intorno ai 4.000, e la motivazione economica sarebbe marginale nel togliersi la vita. Secondo Stefano Marchetti dell’ISTAT, intervistato da Cipolloni, il suicidio economico è al penultimo posto tra le motivazioni di chi si toglie la vita in Italia. Quasi una persona su due si suicida per motivi di salute e perfino chi si suicida per motivi sentimentali sarebbe il doppio di chi si suicida per problemi economici.
Ovviamente è innegabile che le difficoltà economiche contribuiscano a determinare le condizioni di molti suicidi. Ma non sono gli imprenditori i principali soggetti a rischio. Ben peggio va ai disoccupati. 362 suicidi del 2010, il 12% del totale, era disoccupato. Quindi, parlare di ondata di suicidi causati dalla crisi è una forzatura tendenziosa. Claudio Mencacci, direttore del dipartimento di Neuroscienze dell’Ospedale Fatebenefratelli di Milano, sempre intervistato da Wired, indica tre motivi di riflessione: 1) i suicidi sono innanzitutto persone già con gravi patologie psichiche. Le difficoltà contingenti si innescano su quadri già gravi. Tuttavia, 2) è dimostrato che il parlare troppo di suicidi causi emulazione tra chi è già predisposto. Infine: 3) la cosa migliore che può fare il governo per arginare i suicidi è aumentare i fondi destinati ai centri di salute mentale.
Anche se un tema così delicato merita rispetto e prudenza, è evidente che c’è chi soffia sul fuoco. Una breve in cronaca merita il suicidio dell’operaio cassintegrato, del cinquantenne licenziato, del giovane precario. Finisce in prima pagina chi invece si suicida “per colpa di Equitalia”. Ragioniamo con la nostra testa mentre gli sciacalli politici e mediatici soffiano sul fuoco e forniscono interpretazioni fuorvianti e fanno partire ondate emotive. Siamo già in campagna elettorale. Tutto già visto.

25/04/12

25 Aprile 2012

Primavera di Liberazione
Tratto dal Corriere dei Ragazzi nº 16 del 20 aprile 1975.
corrierino-giornalino.blogspot.it
Ma è proprio necessario?
Qualche giorno fa, mentre aspettavo il mio turno in un negozio, una signora che, per ingannare il tempo, stava leggendo il manifesto affisso dall’Amministrazione Comunale per la celebrazione del 25 Aprile mi apostrofa (evidentemente in quanto parte dell’amministrazione comunale): “Ma è proprio necessario continuare a celebrare il 25 Aprile visto che è una storia vecchia, che nessuno più ricorda e che non interessa a nessuno?” [...]
Sciura Pina
Buon 25 aprile Chi non abita a Milano quando sente nominare Piazzale Loreto corre col pensiero a quello che successe "dopo", con gli appesi a testa in giù.[...]
Alberto Cane blog
25 aprile 1945 : vittorie, illusioni, sconfitte e speranze
Siccome appartengo ad una specie ormai in via di estinzione, confesso di essere un po’ imbarazzato a rappresentare simbolicamente una storia lontana anni luce dalle versioni con cui viene raccontata oggi da molta letteratura e dalle fiction televisive.[...]
Associazione Marx XXI
25 aprile 1945 a Ventimiglia e Bordighera
I partigiani entrano in Ventimiglia.[...]
Adriano Maini
Scegliere la parte
Occorre essere attenti per essere padroni di se stessi e scegliersi la parte dietro la Linea gotica [...] la mia piccola patria dietro la linea gotica sa scegliersi la parte. (C.S.I.)
Qualche giorno fa scrivevo della difficoltà di far parte – sicuramente di una maggioranza, ma sempre più anche di una minoranza.[...]
La Botte di Diogene – blog filosofico
Caduti come una grandinata sotto un temporale estivo...
Quante volte, io abito in Emilia Romagna, dietro la curva di un sentiero di campagna, su un muro scrostato, da una lapide semisommersa dai rovi, mi sono venuti incontro, incollandomi a quelle due date – nascita e morte – i partigiani? [...]
falilulelablog
Liberazione 67 anni fa, con un sussulto di orgoglio e di dignità e con il sacrificio di molti, nasceva l'Italia democratica. [...]
Writer
...nella notte lo guidano le stelle…
Felice Cascione [Imperia, 2-5-1918 – Alto, 27-1-1944 ]
Nazione Indiana
Questo è il fiore del partigiano morto per la libertà!
Tornata dalla braciolata del 25 (in realtà la tradizione vuole che si faccia il 1 maggio ma quest’ann0 lo famo strano!) volevo scrivere due cazzatelle avvenute nei giorni scorsi. Poi ho ragionato su questa data [...]
Diario di una camionista priva di morale
Continua...
Spicchi di Limone
25 aprile
La parola...
“I treni della felicità”, 1945-1952
In questo 25 aprile 2012, è importante ricordare anche le piccole storie che ci hanno fatto e ci fanno grandi.[...]
VDBD – Viadellebelledonne