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01/10/12

Eric Hobsbawm (Alessandria d'Egitto, 9 Giugno 1917 – Londra, 1 Ottobre 2012)

Per chi, come chi scrive, ha cominciato a riflettere sulla storia, a pensare la storia e a pensare di fare della storia una professione avendo tra i propri riferimenti intellettuali principali quello di Eric Hobsbawm, lo storico britannico scomparso oggi a 95 anni, la morte di questi oggi a Londra lascia un senso di vuoto anche umano, oltre che scientifico e professionale.
Occidentale ma non occidentalista, aveva studiato l’Occidente nel tempo nel quale questo è stato al centro del mondo, motore del progresso, sociale, politico, tecnologico, economico. Irriducibilmente marxista e anti-colonialista aveva sempre percepito (anche nel suo lavoro sul Novecento come l’età degli estremi, tradotto solo in italiano come “secolo breve[1]”, il più noto ma non il più importante) la centralità di questo come un fenomeno storico, non un destino.
La storia per lui aveva continuato ad essere quella che aveva insegnato dalla fine degli anni ’40: una lotta tra il capitalismo e gli esclusi da questo. Una storiografia quella di Hobsbawm, che condivise con EP Thompson, Hill, Raymond Williams e altri storici marxisti, riconducibile alla cosiddetta “people’s history”, traducibile come “storia dal basso” nel contesto della “storia sociale”, che si imponeva in quegli anni come alternativa alla storiografia tradizionale e classista dei cosiddetti “grandi uomini”.
Contrariamente a quanto stanno battendo i giornali, ascrivendolo alla categoria di storico del Novecento, citando sempre e solo la sua opera più nota, Eric Hobsbawm è stato soprattutto un grande studioso dell’800. Aveva spiegato quello che per lui era il “lungo Ottocento”, dalla rivoluzione francese alla prima guerra mondiale, in una trilogia[2] ponderosa, tuttora illuminante nello spiegare la genesi della società di massa, del capitalismo moderno, dell’imperialismo, del nazionalismo e soprattutto il ruolo predominante della borghesia. Resta quello il suo contributo fondamentale, anche se l’individuazione del concetto di “invenzione della tradizione[3]” è tuttora chiave nel rinnovamento della storiografia contemporanea e nel demistificare i processi di costruzione della legittimità delle classi dirigenti e della storia ufficiale. In opinione di chi scrive è quello il più sovversivo dei contributi di Hobsbawm. Più sovversivo di quando ha scritto di banditi e rivoluzionari[4]. Bella penna, quella di Hobsbawm, preziosa per gli specialisti, illuminante e di piacevole leggibilità per il pubblico più vasto.
Di origine ebraica, come il suo coetaneo e omologo per prestigio e autorevolezza George Mosse, lasciò la Germania all’avvento del nazismo. Nato in Egitto poche settimane prima della Rivoluzione d’ottobre da padre inglese d’origine polacca e madre austriaca, dei quali rimase orfano ancora bambino, non aveva 14 anni ed era già iscritto al partito comunista.
In Gran Bretagna ebbe una lunga carriera accademica, tra Cambridge e il Birkbeck College di Londra, bloccata però per ben 23 anni al gradino iniziale di “lecturer”. Fin dal dottorato lavorò sulle origini della storia del movimento operaio. Militò tutta la vita nel piccolo partito comunista britannico nel quale rimase fino all’89. Non eluse le polemiche sul ruolo e sui crimini dell’URSS ma non soddisfece mai i suoi detrattori che avrebbero preteso abiure complete. Negli anni ’70 si schierò sulla linea degli eurocomunisti e resta celebre la sua intervista del 1977 a Giorgio Napolitano.
Già padre nobile della sinistra intellettuale britannica dopo l’89, nella notte oscura del thatcherismo provò disperatamente a tenere il partito laburista ancorato alla sua storia socialdemocratica. Appoggiò Neil Kinnock, del quale era uno dei principali consiglieri, ma fu infine sopraffatto dalla liquidazione totale blairiana. Memorabile fu la sua critica di Ronald Reagan e del reaganismo. La sua vita sarebbe però stata ancora lunga e continuò fino all’ultimo ad essere –insolito per un marxista- uno degli intellettuali britannici più ascoltati e riconosciuti. Non ho mai conosciuto personalmente l’autore de Il trionfo della borghesia (dovendo sceglierne solo uno non avrei dubbi) ma, tra i grandi storici del XX secolo, è sicuramente con lui che mi sarebbe piaciuto sedere al caminetto a discutere di rivoluzioni e capitalismo, borghesia e socialismo, colonialismo e imperi.


[1] The Age of Extremes: the short twentieth century, 1914–1991, Londra, Michel Joseph, 1994 (ed. it. Il secolo breve, Milano, Rizzoli, 1995).
[2] The Age of Revolution: Europe 1789–1848, Londra, Abacus, 1962; The Age of Capital: 1848-1875, Londra, W&N, 1975; The Age of Empire: 1875–1914, Londra, W&N, 1987. In italiano: Le rivoluzioni borghesi. 1789-1848, Milano, Il Saggiatore, 1963; Il trionfo della borghesia. 1848-1875, Roma-Bari, Laterza, 1976; L’Età degli imperi. 1875-1914, Roma-Bari, Laterza, 1987.
[3] E. Hobsbawm, TO Rangers (Eds), The invention of tradition, New York, Cambridge University Press, 1983.
[4] Bandits, Londra, W&N, 1973; Revolutionaries: Contemporary Essays, Londra, W&N, 1973.
FONTE: Gennaro Carotenuto su http://www.gennarocarotenuto.it

11/05/12

"Non c'e' nessuna ondata di suicidi economici" di Gennaro Carotenuto

È proprio vero che c’è un’ondata di suicidi economici in Italia? È proprio vero che si sta ammazzando un numero senza precedenti di bravi imprenditori strozzati dal fisco, da Equitalia, dallo Stato che non rimborsa, dal costo del lavoro troppo alto? In molti cominciano a dubitarne e a pensare che si tratti di una manipolazione mediatica. Il sociologo Marzio Barbagli, ripreso dal Blog di Gad Lerner, afferma apertamente che «non c’è nessuna emergenza suicidi dovuta alla crisi economica».
Come per il caldo o il freddo “senza precedenti”, le rapine in villa o gli stupri commessi da immigrati, sui quali i media dominanti costruirono ad arte la destabilizzazione del governo presieduto da Romano Prodi, anche l’ondata di suicidi di imprenditori sarebbe innanzitutto un fenomeno percepito, mediatico, portato in prima pagina non perché davvero rilevante o perché segni un picco particolare rispetto al passato, ma perché così conviene a fomentare una polemica anti-fisco che sarà l’argomento fondamentale delle destre nella prossima campagna elettorale.

I 38 suicidi di piccoli imprenditori contati dalla Cgia di Mestre dall’inizio dell’anno, sempre penosi, «non rappresentano un’anomalia a fronte delle 1300 persone circa che nello stesso periodo si sono tolte la vita in Italia. I suicidi in questa categoria sociale c’erano anche negli anni passati, più o meno con la stessa frequenza». Sempre secondo Bargagli Italia e Grecia, due dei paesi più aggrediti dalla crisi, avevano e continuano ad avere tassi di suicidi tra i più bassi in Europa. La Germania, che corre come un treno, ha un tasso di suicidi doppio di quello italiano.
Scrive cose simili Daniela Cipolloni su Wired che sostiene anzi che nel 2012 i suicidi attribuiti a motivi economici sarebbero in calo, 0,29 al giorno contro 0,51 del 2010 e 0,54 del 2009. Ogni anno in Italia si suicidano circa 3.000 persone, un numero che circa vent’anni fa era intorno ai 4.000, e la motivazione economica sarebbe marginale nel togliersi la vita. Secondo Stefano Marchetti dell’ISTAT, intervistato da Cipolloni, il suicidio economico è al penultimo posto tra le motivazioni di chi si toglie la vita in Italia. Quasi una persona su due si suicida per motivi di salute e perfino chi si suicida per motivi sentimentali sarebbe il doppio di chi si suicida per problemi economici.
Ovviamente è innegabile che le difficoltà economiche contribuiscano a determinare le condizioni di molti suicidi. Ma non sono gli imprenditori i principali soggetti a rischio. Ben peggio va ai disoccupati. 362 suicidi del 2010, il 12% del totale, era disoccupato. Quindi, parlare di ondata di suicidi causati dalla crisi è una forzatura tendenziosa. Claudio Mencacci, direttore del dipartimento di Neuroscienze dell’Ospedale Fatebenefratelli di Milano, sempre intervistato da Wired, indica tre motivi di riflessione: 1) i suicidi sono innanzitutto persone già con gravi patologie psichiche. Le difficoltà contingenti si innescano su quadri già gravi. Tuttavia, 2) è dimostrato che il parlare troppo di suicidi causi emulazione tra chi è già predisposto. Infine: 3) la cosa migliore che può fare il governo per arginare i suicidi è aumentare i fondi destinati ai centri di salute mentale.
Anche se un tema così delicato merita rispetto e prudenza, è evidente che c’è chi soffia sul fuoco. Una breve in cronaca merita il suicidio dell’operaio cassintegrato, del cinquantenne licenziato, del giovane precario. Finisce in prima pagina chi invece si suicida “per colpa di Equitalia”. Ragioniamo con la nostra testa mentre gli sciacalli politici e mediatici soffiano sul fuoco e forniscono interpretazioni fuorvianti e fanno partire ondate emotive. Siamo già in campagna elettorale. Tutto già visto.