Non ricordo quando ho comprato “2666” di Bolaño, non so nemmeno perché, forse perché era grosso, avevo voglia di un libro grosso, forse perché era un Adelphi, gli Adelphi hanno un bel font, forse perché c’era la Madonna di Guadalupe in copertina. Non sapevo niente del Messico, non sono mai stato in Messico e nemmeno in Cile, non ho mai neppure avuto una particolare predilezione per il Sudamerica o per gli scrittori sudamericani, e Bolaño non l’avevo mai sentito nominare. Ricordo invece quando ho comprato “Infinite Jest” di David Foster Wallace, lavoravo ancora da Feltrinelli e c’era una pila di “Infinite Jest” in mezzo al corridoio, e la guardavo tutti i giorni, non guardavo il singolo libro, guardavo tutta la pila che era composta da tredici copie di “Infinite Jest”, era molto grosso, non lo comprava nessuno, né quello né altri libri di David Foster Wallace. Deve essere buono, quindi, se non lo compra nessuno, pensavo, oppure pericoloso. È anche vero che la Feltrinelli dove lavoravo faceva più che altro un servizio di edicola, la gente veniva a comprare Astra, Gente Mese, Giochi Per Il Mio Computer, venivano i trans-gender a comprare I-D, Details, riviste di moda o design o architettura o arte o tutto insieme che costavano una quarantina di euro, ogni tanto arrivava Lindo Ferretti, sì proprio lui, Giovanni, che comprava dodici-quindici libri tutti in una volta, arrivava vestito da monaco, tipo, con una tunica di panno verde che strisciava per terra, oppure con degli occhiali scuri fatti in casa, cioè occhiali da vista con le lenti dipinte di nero con l’Uniposca, arrivava sempre dopo mezzanotte, all’una o alle due, io facevo il turno di notte, la Feltrinelli chiudeva alle tre di mattina, a volte arrivava alle tre meno cinque e si metteva a gironzolare tra gli scaffali e nessuno aveva il coraggio di dirgli Giovanni, signor Ferretti, come chiamarlo?, mi scusi, dirgli guardi che dobbiamo chiudere, e io aspettavo alla cassa e occhieggiavo la pila di “Infinite Jest” lì, immutata, costava molto, ricordo, ventiquattro euro. Poi un bel giorno l’ho comprato, avevamo lo sconto quaranta percento, mica male, l’ho letto e mi sono licenziato.
Cosa hanno in comune Bolaño e David Foster Wallace? Boh, secondo me niente tranne il fatto che erano persone che non stavano bene, ma quale scrittore sta bene?, oppure che sono entrambi morti giovani, Wallace a quarantasei anni, Bolaño a cinquanta, oppure che sono entrambi morti suicidi – no, questo non è esatto, Bolaño è morto perché necessitava di un fegato nuovo, aspettava il trapianto, il fegato non è arrivato in tempo, ma comunque era uno che beveva, o che aveva bevuto, è anche per questo che gli serviva un fegato nuovo, inoltre fumava parecchio, e in fondo bere e fumare è un modo per suicidarti lentamente, un modo per ucciderti senza volerlo mostrare al mondo in modo plateale – oppure il fatto che se pure in modi diversi erano entrambi dei romantici, Bolaño dà l’impressione di averlo assimilato meglio, questo aspetto della sua natura, forse perché era cileno, poi messicano, poi spagnolo, comunque sembra essere in pace su questo, come dire accetto la cosa anzi la sfrutto per scrivere pagine immortali e pubblicare libri i cui diritti d’autore daranno da mangiare a mia moglie e a mio figlio quando non ci sarò più, Wallace invece da questo punto di vista era messo peggio, non si dava per vinto, chiedeva aiuto alla logica, alla matematica, ma poi continuava a scrivere perché (sono parole sue) ogni storia d’amore è una storia di fantasmi, e né lui né la matematica potevano farci nulla.
Cioè Bolaño era uno tosto, un tipo vissuto, Wallace era più nerd. Entrambi poeti, comunque. Io i loro libri li consiglio anche se non sono libri facili, molti sono libri grossi, altri sono piccoli ma sono comunque infingardi, ti portano in posti che dici boh, non so, mi sembra molto buio qui, sarà pericoloso?, ehi c’è nessuno?, e quando vuoi tornare indietro scopri che ti hanno chiuso lì dentro e hanno buttato la chiave.
Fonte: like falling stars
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