La letteratura, come qualsiasi attività umana, necessita di riconoscimento. L'appagamento dell'autoreferenziale fa capo a capacità critiche e risorse di autostima chiamate a superare la forza dirompente dell'ostracismo, l'arma sociale preferita nelle società umane che nemmeno le scimmie sono così crudeli da utilizzare. Puoi essere l'orologiaio più capace del mondo e non trovare non dico acquirenti per le tue sveglie, ma nemmeno esperti in materia disposti a fare pubbliche ammissioni. Ci vuole una grande forza interiore per fare a meno del riconoscimento pubblico, ufficiale, è rivoluzionario l'atteggiamento del fuori concorso, di chi non partecipa alla competizione perché non condivide le regole o denuncia la soggettività delle premiazioni. Perché se fai orologi puoi dimostrare che i tuoi sono più precisi, ma non puoi dimostrare nulla se scrivi, canti, reciti, fotografi, pensi, fai cultura.
È facile paragonare all'onanismo la pratica di chi non rivolge la sua produzione a un pubblico. È facile paragonare a facili costumi chi dà via la sua produzione gratuitamente. Il paragone col sesso è calzante: se lo fai per te stesso non va bene, se lo fai gratis al primo che passa non va bene, se lo fai a pagamento col primo che passa è già più accettabile, e in fondo è quello che fanno tutti coloro che hanno successo. È raro che qualcuno venga riconosciuto per un lavoro non espressamente finalizzato a gratificare un acquirente ben identificato, che sia l'adolescente con soldi in tasca per comprare canzoni d'amore, che sia il partito politico che vuole modificare i comportamenti sociali, che sia il cittadino medio che occupa una fascia di mercato lasciata scoperta. Se invece pensate davvero che la cultura sia un fiore spontaneo allora vi lascio tranquilli a brancolare nei dolci pascoli dell'ingenuità.
Prendete per esempio il testo di una canzone di un cantautore famoso, di quelli che gli danno le lauree honoris causa, che ogni tanto salta su qualcuno a dire che dovrebbero insegnarle a scuola. Sembra un testo fantastico, pieno di emozione e sentimento, di una profondità abissale in grado di far piangere i sassi, lo è fino a quando non immaginate che l'abbia scritto un liceale brufoloso sconosciuto, uno che si comporta male, dice le parolacce e fa il buffone. A quel punto ditemi che non andate in tilt. Non c'è il personaggio sul palco, vestito così, coi capelli così, il tatuaggio, il trucco, oppure con l'aria normale del bravo ragazzo, insomma non c'è materiale per dargli un riconoscimento ufficiale. Se il vostro cameriere scrivesse una poesia e ve la mostrasse voi lo guardereste come si guarda un cane finito sotto la macchina. La stessa poesia riportata in tv e sui giornali, citata da giornalisti e trasmessa alla radio diventa un capolavoro.
Non è colpa di nessuno. È così che funziona. Il pubblico, tranne rare eccezioni, non è in grado di giudicare da sé il valore di opere culturali. La gente si appoggia al riconoscimento ufficiale. Una volta questo riconoscimento veniva dall'alto, c'era un establishment, un'intellighenzia che decideva chi riconoscere. Nelle dittature venivano riconosciute solo opere grate al Partito, il resto era underground, era dissidenza, era rivoluzionari-reazionari che rischiavano galera, tortura, campi di rieducazione e condanne a morte. Adesso l'underground è diventato nazional-popolare, adesso il riconoscimento è dato dalle copie vendute e non dai premi della giuria, adesso sei scrittore perché il tuo libro è stato pubblicato, lo sei ancora di più se hai venduto tante copie. Adesso ci sono case discografiche, case editrici, vere e proprie industrie commerciali che non hanno nulla di culturale ma fanno un investimento sull'autore, analizzando le preferenze di mercato, programmando la sua carriera a tavolino, comprando la popolarità dell'autore adottato e inserito nella scuderia aziendale a suon di promozione e visibilità mediatica.
Ecco perché io ho scritto qui sul web, in questi anni, solo per mio figlio, per dimostrargli che non ho mai avuto paura di mostrarmi per quello che sono, che non ho niente da nascondere, mio figlio è il mio unico pubblico, l'unico pubblico che mi sia mai interessato. Ecco perché non me ne frega niente, in fondo, di essere riconosciuto dal mondo quando parlo del mondo, dell'economia, della filosofia, dell'arte, e me ne tornerò presto a farmi gli affari miei, a giocare a gw2, fare passeggiate, dedicarmi a hobby privati che non necessitano né aspirano ad alcun riconoscimento pubblico, tornerò a far finta che non esista questo baraccone mediatico e neppure i clienti che gli danno modo di funzionare. Perché anche l'amore ha bisogno di riconoscimento per esistere, non puoi dire di aver sperimentato l'amore se hai sempre e solo amato te stesso, perfino un dio non sarebbe tale senza qualcuno in grado di riconoscerlo come tale. Ma anche pretendere di essere dio è superbia, foss'anche dio a pretenderlo, il risultato è che siamo liberi, e per me essere libero e avere la capacità di rendermene conto è più che sufficiente, anche a costo di dover bastare a me stesso.
Fonte: Titolo a caso di Raffaele Birlini