"La poesia è scritta da qualcuno che non è lo scrittore a qualcuno che non è il lettore" - Paul Valéry -
01/06/08
Cinque fischietti
"E allora dimmi come potremo riuscire ad ucciderlo senza farlo morire?"
La voce del ragazzo aveva spento l'euforia del piccolo gruppo.
"Semplice!" ribatté Angelo, era lui il capo e nessuno metteva in discussione questo dato di fatto, "Semplice!" ripeté portandosi meccanicamente la mano alla testa per scostare con rapidità i lunghi capelli dal viso.
"Per prima cosa dobbiamo fare finta d'essere come lui. Andare nei posti che frequenta, mangiare quello che lui che mangia, usare gli stessi nascondigli".
"Si, ma poi?" abbozzò timidamente Francesco.
Angelo continuò a parlare senza neanche guardarlo."Poi lo aspetteremo. Ho qui cinque fischietti. Chi per primo lo avvisterà chiamerà subito gli altri".
"Ma se scappa? ". Ancora una volta Roberto aveva interrotto con un dubbio il fantasioso materializzarsi di quel piano di battaglia.
"Se scappa ognuno di noi assumerà le proprie colpe subendo la stessa pena."
La casa era una piccola abitazione di campagna, due stanze appena ed un cucinino in cui muoversi con estrema prudenza.
Il bagno ufficiale era ad una ventina di metri, mimetizzato da maestosi fichidindia; quello più usato si estendeva invece per circa tremila ettari. I ragazzi erano lì dalla fine della scuola. Lunghe giornate di gioco interrotte solo dalle urla dei genitori per l'ora di pranzo o di cena, e dal rito serale del bagno nella gran vasca esterna alla casa.
Angelo era il più piccolo, sette anni appena, ma aveva subito assunto il comando del gruppo forte della sua militanza nel vivaio della squadra di calcio della città e di una lunga gavetta tra le strade polverose del proprio quartiere.
Roberto parlava poco, ma sembrava attendere con certosina pazienza ogni momento utile per mettere in imbarazzo Angelo e buttare giù le sue venti parole quotidiane.
Francesco era l'altro maschietto della fortunata cinquina. Otto anni e mezzo, capelli scurissimi e piedi da gigante su di un corpo sgraziato quanto basta a non far dire alle amiche di sua madre "Come sta crescendo bene, sembra un angelo!".
Carmela e Clotilde erano le due femminucce. Non sempre si univano agli altri tre. Preferivano correre senza meta tra gli alberi od arrampicarsi sui muretti a secco semicrollati. A volte parlavano fittofitto tra loro, indicando qualcuno dei ragazzi e ridendo, ma mai nessuno degli altri era riuscito ad ascoltare quello che avevano da dirsi in quelle occasioni.
Clotilde in realtà si lamentava spesso del suo nome e di quel grasso che le stava spuntando sul petto. "Ma a nove anni è una cosa normale" le aveva detto la mamma, e anche lei lo sapeva che le donne hanno tutte il petto più cresciuto e che ai maschi piace toccarle, ma perchè allora non era spuntato subito?
Aveva sempre pensato che la mamma fosse nata così, con tutti i suoi peli e con quel seno enorme su cui spesso poggiava la testa. Carmela la prendeva spesso in giro per questi discorsi e dall'alto della sua esperienza di ragazzina già fatta, cresciuta a sofficini e tv ("Perchè la mamma fa tardi stasera, e mi raccomando spegni la luce prima di dormire e non aprire a nessuno che più tardi ti chiamo"), deliziava l'amica con i resoconti delle immagini viste durante le pubblicità dei telefoni erotici. Avevano anche provato ad imitare qualcosa di quelle scene, ma non avevano proprio capito che cosa si potesse dimostrare.
Il problema si era presentato improvviso un pomeriggio dei primi d'agosto. Carmela si era abbassata per la pipì, ed un'ombra l'aveva fatta scattare in piedi: spaventata e bagnata. Aveva raccontato l'accaduto all'amica e subito tutti ne erano venuti a conoscenza.
"E' sicuramente un cane" aveva sentenziato Francesco.
"No! No! L'avrei riconosciuto" obiettò Carmela.
"Allora è un topo" decise Angelo, e nessuno seppe trovare altre ipotesi.
In effetti, l'unico cane che erano riusciti a scorgere era quello triste e vecchio dei vicini, un bastardo legato perennemente ad una lunghissima catena che si rifiutava persino di rispondere ai loro (per fortuna sua) imprecisi lanci di pietre. Non c'era altro lì attorno o perlomeno nient'altro che fosse loro visibile.
Ogni ragazzo aveva a disposizione un fischietto e un piccolo sacco di canapa ripescato tra le cianfrusaglie della cucina. Nessun indizio (tranne il luogo d'avvistamento) e neanche un'idea di come si comportasse o di che cosa vivesse un topo.
I primi giorni furono assolutamente infruttuosi ma poi, a poco a poco, iniziarono a credere di saper riconoscere le tracce del passaggio del nemico. C'è da dire che, durante la caccia, a volte, qualcuno di loro incontrava qualcun altro e Clotilde vide parecchie volte l'amica allontanarsi con Roberto in direzione dei limiti della proprietà, ma non aveva avuto il tempo di chiederle se lì avessero trovato tracce più evidenti dell'intruso. Un giorno fu lei stessa a fischiare a perdifiato. Qualcosa si era mosso tra le viti basse ed il muretto di cinta, ma quando arrivarono gli altri non si riuscì a trovare nulla.
Angelo propose per punizione agli altri che Clotilde fosse condannata a dare un bacio sulla bocca a tutti i ragazzi, ma la piccola con una pernacchia ed una risata si allontanò da loro e solo da lontano si sentì la sua voce gridare:
"Presto che tra poco è buio ed anche oggi ci scappa".
Due settimane dopo più nessuno ricordava quel gioco. Avevano scoperto una vecchia cisterna nascosta da canne e fitti rovi, e l'unica tentazione era divenuta quella di esplorarla.
Carmela riuscì a sottrarre, non vista, una corda dal bagagliaio dell'auto della mamma. La botola della cisterna sembrava però pesantissima. Spinsero tutti insieme per una buona mezzora fin quando non riuscirono a vincerne la resistenza. Poi, ad uno ad uno, si calarono nel pozzo, alto un paio di metri, usando la corda legata da Francesco ad un albero vicino. Un fascio di luce illuminò la costruzione. Era stato Angelo a portare, all'insaputa degli altri, una torcia potentissima.
Non seppero mai, purtroppo, in che modo riuscì a richiudersi il buio sulla loro testa.
Settembre 2000
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