Stamattina leggevo alcuni commenti entusiasti ai versi di un poeta riconosciuto post mortem – “sempre amato lui!”, ma sempre quando, quando faceva la fame e non se lo cagava nessuno? – e pensavo che un poeta che non è ancora arrivato al successo non è considerato “poeta” da nessuno, nemmeno quando scrive o legge i suoi versi. E se lo dice con troppa convinzione che scrive poesie, al massimo si vedrà rispondere quel certo sorrisino di chi ti compatisce o sfotte. Però un bel giorno, se il poeta arriva al successo, generalmente post mortem, vince questo premio: gli viene tolta la pelle della sua vita precedente. Nessuno più che dica che è stato maestro o impiegato o commesso o operaio ecc. Gli viene tolto l’unto del lavoro quotidiano. La poesia, che fino al giorno prima era un lusso per i poveri, diventa l’unica occupazione di una vita. E il lavoro, a meno che tu non possa romanzarlo nella sua bio, sembra quasi sia stato un blando incidente di percorso. Magicamente, sulle pagine web o nei manuali scolastici non si capisce più di che mangiava questo poeta, cosa ha dovuto subire dai suoi capi, gli vengono tolte l’occupazione, la casa, la famiglia, i piatti preferiti, le sue insonnie. Restano soltanto gli amori, meglio se clandestini, qualche litigio letterario, e la bruciante e passione per i versi. Tutto, insomma, si riduce a ben poco, al minimo indispensabile. Così l’uomo che stava dentro il poeta muore e finisce, e il poeta che stava dentro l’uomo diventa una bella copia dell’originale, ma una copia non proprio esatta, diversa, e mai completamente intera. Pronta e lucidata per essere da “sempre amata”.
Fonte: la bella copia
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