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11/07/12

"Sí se puede" - La 'marcha negra' por el centro de Madrid


Oggi, lunedì 18 giugno, è una giornata nuvolosa nelle Asturie, e questo è normale nella “regione verde” della Spagna. A mano a mano che ci si allontana dalla costa, si incrociano prati di un verde intenso, montagne che scompaiono nella nebbia, mentre l’“orbayu”, una sottile pioggerella, leggera come un manto di seta umida, si appropria di tutto ciò che tocca, ricoprendolo con una patina di acquerugiola che è come l’eterno corredo delle Asturie.
Basta allontanarsi dalla costa una trentina di chilometri per arrivare alla regione mineraria, alla cuenca, a città di palazzi stretti l’uno all’altro come Mieres e Langreo che, come tutti i paesi della zona, oggi si sono completamente fermati per uno sciopero di solidarietà con i minatori del carbone.
Siamo nel 2012, l’anno del peggio del peggio della crisi provocata dagli speculatori e dai banchieri, da quel miserabile 1 per cento dell’umanità che si è appropriato del 99 per cento della ricchezza planetaria. È l’anno dello sconforto e del rinchiudersi in sé stessi pensando a come salvarsi, anche a scapito degli altri, è l’anno dell’egoismo e della disumanizzazione generale. Ma nelle cuencas mineras hanno rispolverato la vecchia bandiera della solidarietà di classe. Sì, della Solidarietà di Classe, perché le differenze di classe oggi sono più forti che mai, anche se alcuni sostengono che questa è storia, e che la storia è morta.
La storia è ancora viva nelle cuencas mineras e la percentuale di adesioni allo sciopero è stata del 100 per cento non solo nelle Asturie, ma in tutte le regioni spagnole che hanno miniere di carbone. Lo sfruttamento di carbone e antracite, le miniere e il lavoro degli uomini che scendono nelle oscure profondità della terra, sono sempre stati moneta di scambio per i governanti spagnoli. Già nel 1962, quando la Spagna franchista veniva accettata nella Comunità economica europea, antecedente dell’attuale Unione europea, il dittatore confidava a suo cugino e segretario militare, Francisco Franco Salgado-Araujo, che le miniere di carbone spagnole avevano i giorni contati perché l’Europa voleva favorire quelle del bacino della Ruhr, in Germania, e quelle della Polonia, i cui giacimenti, nonostante la guerra fredda, assicuravano rifornimenti più a buon mercato. La risposta dei minatori fu il primo grande sciopero dopo la sconfitta della Repubblica e l’avvento del regime fascista nazional-cattolico. Nel 1962 i minatori vinsero, conservarono i loro posti di lavoro, anche se le rappresaglie furono brutali.
Cinquant’anni dopo, le vecchie bandiere della Solidarietà di Classe sventolano ancora una volta sotto il cielo grigio delle Asturie, stavolta in difesa del più inalienabile dei diritti: il Diritto al Lavoro. A un lavoro che è come una maledizione, o qualcosa di molto difficile da spiegare, perché la miniera s’infila nelle vene degli uomini scuri del carbone, e si è minatore, figlio di minatore, nipote di minatore, di un’attività che è stata dichiarata «non redditizia» da qualche comodo e immacolato ufficio di Londra o di Bruxelles.
In miniera, al pozzo, si arriva molto presto, i minatori si cambiano tra scherzi, da una catena fanno scendere i loro abiti da lavoro, la tuta annerita, il casco con la lampada, i guanti di sicurezza, le batterie per le lampade, gli stivali dalla punta rinforzata, e poi le catene risalgono portando i vestiti che torneranno a indossare quando usciranno dal pozzo. E a volte una sirena ulula la tragedia e qualche catena non ridiscende più. Questo, sicuramente, «non è redditizio».
Una volta pronti, camminano verso l’entrata del pozzo, non scherzano più perché l’imboccatura della miniera impone rispetto e timore perfino ai più veterani. Un ascensore metallico, la «gabbia», li fa scendere nell’oscurità densa della galleria principale, e lì si sistemano su un minuscolo treno che li conduce ad altre gallerie secondarie. L’oscurità della miniera è densa e appiccicosa, e sopra le voci dei minatori e il rumore dei loro utensili si impone lo scricchiolio della montagna, il lamento dell’intimità della terra e la sua costante minaccia di crollare. Questo, sicuramente, «non è redditizio».
I minatori avanzano lungo le gallerie secondarie, le loro lampade perforano la spessa oscurità e sbattono contro le pareti di roccia impregnate d’acqua. L’aria si fa sempre più densa, e così arrivano alle vene, alle quali accedono prima in piedi, poi piegati in due, quindi strisciando, e allora si sputano nelle mani e iniziano il loro lavoro di strappare il carbone e l’antracite alle viscere della terra. I picadores vedono scomparire i loro muscoli sotto uno strato di polvere, le punte dei martelli pneumatici hanno aperto i buchi in cui s’infilano le cariche esplosive. A un segnale dell’incaricato della dinamite, tutti gli uomini indietreggiano verso i rifugi, dove si rannicchiano appiccicati gli uni agli altri, proteggendosi le orecchie, finché la detonazione non scuote l’aria e una nube di polvere nera li avvolge. Questo, sicuramente, «non è redditizio».
Quando, alla fine della giornata, escono dalla gabbia che li ha riportati in superficie, i minatori vanno al bar e chiedono un sidro, e il bar vive dei minatori, altri comprano un vestito per la figlia o un libro, e tutti gli affari della regione mineraria vivono sui minatori. Il lavoro di ciascuno di questi uomini permette e rende possibile l’esistenza di molti altri posti di lavoro. Tutto ciò che si fa nelle città e nei paesi della cuenca minera dipende dalle miniere, e considerare questa realtà, certamente, «non è redditizio».
Nel 1985 arrivò al potere il Psoe, il partito socialista, e le miniere di carbone davano lavoro a quasi 53mila minatori. Un ministro socialista, Solchaga, spiegò in poche parole in cosa sarebbero consistiti i grandi cambiamenti che sarebbero venuti: «La Spagna è un paese per fare soldi». E così fu, in effetti. Nel caso delle attività minerarie, la possibilità di fare soldi, di lucro, iniziò a realizzarsi obbedendo ai capoccioni dell’Europa, e la Spagna cominciò a importare carbone. Non si è mai spiegato con precisione perché il carbone che arriva dalla Polonia, o dalla miniera a cielo aperto più grande del mondo, quella di Cerrajón, nella Guajira colombiana, è migliore o meno inquinante del carbone asturiano. E se lo è, non sono mai stati destinati fondi sufficienti a fare ricerche per rendere più efficiente e meno inquinante un settore energetico fondamentale.
Seguendo le istruzioni dei mercati energetici, sia il Partito popolare sia quello socialista si sono caratterizzati per il trattamento demagogico dell’argomento. Se il carbone era definitivamente condannato, si sarebbero dovute sostenere efficaci politiche di riconversione industriale che assicurassero lavori degni e qualificati a coloro che avrebbero abbandonato le miniere. Queste politiche non sono mai esistite, mentre invece sono stati decisi prepensionamenti apparentemente molto generosi, ma senza considerare che l’attività mineraria è una cultura, si eredita, che, anche se suona contraddittorio, i figli dei minatori si sono sempre considerati prosecutori del lavoro dei loro padri. La miniera ti si introduce nel corpo, si impossessa dell’anima, e questa considerazione che non è stata fatta ha impedito di capire che di quei prepensionamenti avrebbero vissuto i figli e i nipoti dei minatori, perché non si esce dalla miniera per prendere il posto del fruttivendolo, del panettiere, del commesso della farmacia o del cameriere che versa il sidro.
In mancanza di una soluzione coerente, i minatori si aggrapparono ai loro posti di lavoro e l’attività iniziò a essere sovvenzionata dall’Unione europea. Oggi, nel 2012, i minatori si sono ridotti a poco meno di ottomila, distribuiti in quarantasette impianti. E la produzione è caduta da 20 milioni di tonnellate a poco più di 8,5 milioni. La politica energetica europea aveva deciso di farla finita con le sovvenzioni pubbliche al settore minerario alla fine del 2014, ma la pressione esercitata dai minatori ha fatto sì che fosse prolungata fino al 31 dicembre del 2018. Secondo i calcoli degli imprenditori e dei minatori, questi anni basterebbero per far riflettere l’Europa se sia stato logico aver ridotto la produzione globale europea di carbone a 130 milioni di tonnellate mentre se ne importano allo stesso tempo 160 milioni all’anno, però a «prezzi competitivi», vale a dire carbone prodotto con costi del lavoro inaccettabili per qualunque lavoratore europeo o statunitense.
I minatori sostengono, e a ragione, che il carbone è una riserva strategica, autoctona, il che garantisce il rifornimento e, la cosa più importante, assicura qualcosa di molto ambìto dal mercato: una riserva strategica nazionale.
A tutte queste considerazioni deve aggiungersi che i minatori stanno difendendo l’esistenza delle città e dei paesi delle cuencas mineras. Il piccolo e medio commercio, i servizi, tutto ciò che costituisce la vita, la quotidianità di un insediamento umano. E questo, certamente, «non è redditizio».
Il governo spagnolo guidato da Mariano Rajoy, ossessionato da un’impossibile riduzione del deficit, ha imposto una serie di tagli sociali, nella sanità, nell’educazione, ha imposto riduzioni salariali, riforme del lavoro che rendono più facili i licenziamenti, ma con una grande generosità nei confronti degli speculatori e delle banche. L’ex ministro Solchaga non si sbagliava; la Spagna è un paese per far soldi, e gli speculatori l’hanno fatto, hanno guadagnato come non mai. Basti segnalare che le banche spagnole più forti, parte dell’anonima multinazionale chiamata “Mercato”, che ha usurpato funzioni statali e ha screditato la politica, sollecitava denaro alla Banca Centrale Europea all’1 per cento di interesse e, con quei soldi, invece di aprire linee di credito per la piccola industria e l’artigianato, comprava debito pubblico spagnolo al 5, 6 e 7 per cento di interesse annuo.
Proseguendo su questa linea di tagli a tutto ciò che beneficia i lavoratori, e mentre la Spagna accettava un salvataggio delle proprie banche per 100 miliardi di euro, il governo tagliava il 63 per cento dei fondi destinati a preservare l’attività mineraria fino al 31 dicembre 2018. Ciò vuol dire chiudere le miniere, ammazzare un’attività, una cultura del lavoro, e condannare le città e i paesi delle cuencas mineras all’esodo dei loro abitanti.
Mai uno sciopero dei minatori è stato tanto giusto e necessario. Oggi si compiranno 22 giorni di sciopero. Ci sono diversi minatori rinchiusi per protesta nel fondo dei pozzi. Oggi le Asturie, la parte migliore delle Asturie, resistono ancora una volta. Oggi la parola Sciopero acquista un significato nuovo, e il successo dimostrato dal 100 per cento della partecipazione, con tutte le attività della regione paralizzate, evidenzia che la Solidarietà di Classe è ancora viva e che le sue bandiere sventolano ancora.
Sono nato in Cile, ma vivo nelle Asturie. Questi minatori sono i miei concittadini, sono la mia famiglia e sono orgoglioso della loro lotta e della loro volontà di combattere. Stanno offrendo una lezione di dignità.
Viva i minatori! Puxa Asturies!
Luis Sepúlveda 

Fonte Articolo: Asturie, viva i minatori!