Il 27 luglio, sul Corriere della Sera, Pierluigi Battista ha invitato i suoi lettori a dimenticare il Pasolini di “Io so”. Lo conforto: gli italiani non hanno bisogno di simili inviti, già da soli sono bravi a dimenticare i propri intellettuali. Al massimo ne salvano qualche citazione, buona per fare bella figura in un salotto, e tanto basta. L’invettiva di Pasolini di fronte alle stragi di quegli anni (ne sarebbero seguite altre dopo l’articolo del poeta e dopo la sua morte) costituirebbe secondo Battista “l’espressione del peggiore Pasolini, l’esaltazione meno sorvegliata dei vizi che hanno devastato la fibra etica del ceto intellettuale italiano”. Ma soprattutto, sempre secondo la stessa fonte, nelle parole di Pasolini “la ricerca empirica delle prove, e persino degli indizi, diventava esercizio ingombrante, fatica superflua”.
Con queste due citazioni penso d’aver centrato il cuore del commento di Battista e pure il suo principale errore: credere che la ricerca della verità dell’intellettuale debba coincidere (come percorso logico) con quella della Magistratura. Oppure ritenere che le uniche verità sulle stragi che hanno insanguinato l’Italia possano arrivare secondo dinamiche esclusivamente “pratiche” (fatto criminoso, raccolta di elementi e possibili moventi, colpevoli ipotizzati e infine accertati). Peraltro, recentemente abbiamo visto che pure sentenze passate in giudicato non bastano a mettere il sigillo su una verità accertata, se esiste la volontà politica di riscrivere quella data pagina: su Liberazione del 2 agosto Saverio Ferrari, a proposito della strage di Bologna, ha puntualmente descritto i tentativi di ridiscutere l’accertata matrice fascista di quell’attentato.
Il punto è che le sentenze possono essere condivisibili e apparire sensate oppure l’esatto opposto: è tratto distintivo della giustizia umana differenziarsi da quella divina (per chi crede in quest’ultima) non solo per l’assenza della maiuscola o per il suo intrinseco margine di fallibilità. Quel che distingue la giustizia umana è l’assenza di prerogative assolute o taumaturgiche, che invece la società e la politica continuano ad assegnarle, un po’ per semplificazione, molto per affossare la ricerca di altri livelli di responsabilità (del resto Pasolini proprio nel suo “Io so” diceva che “il coraggio intellettuale della verità e la pratica politica sono due cose inconciliabili in Italia”).
Credo che Battista non abbia colto il senso delle parole di Pasolini. No, lui non sapeva i nomi di chi mise una bomba nella banca di Piazza Fontana, sotto il portico di Piazza della Loggia, o ne avrebbe messa un’altra, anni dopo, alla stazione di Bologna. Ma conosceva le logiche del potere, che risponde alla sola legge dell'autoperpetuazione ad ogni costo. Capiva le finalità politiche (neppure univoche) cui dovevano rispondere le stragi, e lo capiva con i soli mezzi con cui è possibile operare un’analisi di questo tipo: quelli dell’intellettuale, che non pretende di supplire con le proprie riflessioni all’azione della Magistratura. A questa spetta un altro compito, altrettanto importante: l’individuazione di responsabilità penali e personali. I due livelli di ricerca non sono sovrapponibili, ma se svolti egregiamente si completano senza contraddirsi. E penso si possa affermare che quanto emerso, seppure con persistenti margini di ambiguità, su Piazza Fontana e le altre stragi (nell’ambito ambito processuale, nelle ricerche degli storici, nella defunta commissione stragi ecc), abbiano dato ragione a Pasolini.
Un’ultima riflessione. Pensavo che l’articolo di Battista sollevasse un dibattito ampio. Così non è stato: fatta eccezione per qualche risposta apparsa su alcuni blog, i media hanno ignorato la questione. Gli italiani, bravi a dimenticare Pasolini, lo sono altrettanto nel dimenticare Battista. Non tutte le conseguenze della sciatteria di un popolo sono negative.