Goffredo Riccobono

Goffredo Riccobono viveva molte vite, di alcune aveva piena coscienza, di altre immaginava la presenza, di molte ignorava ogni cosa; tutto ciò non rappresentava certo un problema per la qualità della sua esistenza, giacché è scientificamente dimostrato che questo avviene normalmente per ognuno di noi. Lo stesso Goffredo aveva letto qualcosa su tale fenomeno, un giorno in cui attendeva, impaziente, il proprio turno nella sala d’attesa del medico curante.
“Scopri te stessa” recitava il titolo di quell’articolo, era, infatti, una famosa e storica rivista femminile e il “te stessa” faceva chiaramente intendere l’utenza di riferimento. Di seguito l’estensore usava lo studio di una “prestigiosa università americana” per spiegare e confermare proprio quelle frasi che fanno da prologo al nostro piccolo narrare.
Goffredo Riccobono, alla lettura, si era dapprima stupito che ciò potesse realmente accadere, poi aveva iniziato ad annuire a ogni frase, strabuzzando un po’ gli occhi, così come egli era solito fare a ogni nuova scoperta che lo trovasse curioso spettatore, quindi aveva dimenticato ogni cosa.
Ciò era accaduto non appena la porta dello studio del dottore si era aperta e un “A presto!” aveva accompagnato l’informatrice scientifica che da più di trenta minuti aveva preso possesso dell’attenzione del medico.
Lei, uscendo, gli aveva sorriso, quasi impercettibilmente dietro quel leggero trucco che le illuminava il volto. Egli l’aveva osservata parecchio prima, durante l'attesa, mentre lei trafficava con il suo tablet e rispondeva compulsivamente al cellulare alzandosi e spostandosi nella stanza di quel poco che ai propri occhi rappresentava il necessario rifugio. Goffredo ne era rimasto affascinato. Non che lei rappresentasse il suo modello, ma le sue movenze, le gambe, il piccolo seno, appena intravisto grazie alla scollatura all’americana, le belle spalle da nuotatrice, lo avevano turbato ed eccitato. Aveva chiuso gli occhi e immaginato per un attimo di possederla, lì tra quelle sedie, tra quelle mura, poi li aveva riaperti e un signore con un bimbo in braccio gli aveva chiesto se fosse stato veramente lui l’ultimo in attesa, così come gli era stato detto.
“Sì, sì, sono io” aveva risposto Goffredo e subito dopo aveva scelto proprio quella rivista tra quelle presenti sul tavolino in vetro poco distante dalla sua sedia e iniziato a sfogliarla. Ricordava, Riccobono, di essere stato colpito dalla copertina, una foto in bianco in nero di un’altra Italia, lo squarcio di una nazione che egli ricordava con quella luce per averci vissuto e averne, negli anni, costruito memoria. Ecco in questa foto un gruppo di bambini giocava in strada, una strada quasi priva di auto e di vecchi.
Goffredo Riccobono ripensò subito ai suoi giochi da bambino, ai pomeriggi passati in attesa dei programmi televisivi per i ragazzi, alle immagini di sconosciute contrade, d’italici volti, trasmesse in bianco e nero dalla televisione di stato, poi alzò gli occhi da quell’immagine e si rese conto un po’ meglio che lo attendeva una lunga attesa.

Almeno un gruppo con tre signore, un po’ avanti con gli anni, che tra loro elencavano i propri acciacchi e un po’ in disparte un altro informatore scientifico che attendeva con loro il proprio turno, lo precedevano. “Uno ogni tre pazienti” era la regola di quel luogo ed egli, purtroppo, era arrivato dopo quell’austero e silenzioso signore. Del resto che quella fosse la regola lo si poteva anche leggere su un piccolo foglio A4, stampato di certo proprio dal medico, incorniciato e appeso come memento tra le riproduzioni della Marilyn di Warhol e di un cielo stellato di Van Gogh.
Accanto all’uomo con il bambino sostava anche una bionda un po’ volgare, ma Riccobono non riusciva a comprendere se ella fosse insieme alla coppia o meno. Insomma sperando che nessuna delle tre anziane avesse voglia di parlare ma si limitasse al solito elenco di medicinali da prescrivere e comprendendo anche l’uomo sarebbe andata via più di un’ora piena. Anzi no, certo di più, perché solo allora uscì dal bagno un altro signore, un quarantenne si sarebbe detto, che certo lo aveva preceduto.

Il pallore di quell’uomo strideva stranamente con il corpo tozzo e il volto tondo. Portava una polo bianca e dei jeans alla moda con tagli d’ordinanza finto vissuti, ma Goffredo fu colpito soprattutto dalla lunga serie di puntini che coprivano il collo, il viso e le braccia.
Morbillo? Quarta, quinta, sesta malattia? Scarlattina, forse? O varicella? Tifo? Colera? Sifilide? AIDS?
A ogni assalto della propria, scarsa, memoria medica Goffredo Riccobono perdeva forze guardandosi attorno sempre più disperato. Cercava aiuto, conforto, nei presenti e si sarebbe allontanato volentieri da quel luogo, da quello stanzone, se un improvviso panico non lo avesse lì costretto. Gli altri sembravano non essersi accorti di nulla, solo l’uomo con il bimbo aveva colto il suo sguardo seguendolo fino all’uomo a pois. Goffredo lo vide  stringere con più forza il proprio bimbo e poi allontanarsi come per caso, come avesse solo in uggia il rimanere lì ad attendere. Magari ne fosse stato capace anch’egli.



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