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21/06/14

"Per leggere, non leggevano" di Simone Ghelli

Il problema era che non leggevano. Per scrivere, ormai sapevano scrivere tutti; ma non leggevano. E soprattutto, pretendevano che li si leggesse. Addirittura si arrabbiavano, se non li leggevi. Ti guardavano con quella faccia delusa, oppure ti fulminavano con lo sguardo. Se non andavi alle loro presentazioni ti cancellavano dalla lista degli amici, senza dare spiegazioni.
Fu così che mi ritrovai infatti a non avere più amici su Facebook: perché non andavo alle loro presentazioni, e neanche li leggevo più. A dire il vero avevo persino smesso di scrivere, pur di svolgere il compito che mi ero prefisso anni prima: rileggere da capo tutti i libri della mia libreria.
Preferii così, piuttosto che continuare a insistere e ad avvelenarmi il sangue; perché per scrivere scrivevano tutti, ma tra loro non si leggevano: peggio, s’ignoravano. Più d’una volta mi ritrovai infatti a questi convegni tra scrittori, che si davano certe arie per non si sa che cosa, se non per il gusto di dare a vedere di saperla più lunga. Mi ricordo infatti bene di questi loschi figuri, spesso un po’ tristi e abbarbicati ai loro libri, che non si curavano che di loro stessi: salivano sul palco, quando c’era, e leggevano sommessamente, come in un rituale privato (e forse, in cuor loro, dovevano sentirsi davvero dei sacerdoti del verbo, o qualcosa del genere). Leggevano il loro e se ne andavano, senza rispetto alcuno per le altrui parole; epperò poi pretendevano che li si leggessero, e anche attentamente, i loro libri, e si lamentavano della carenza dei lettori e della loro ignoranza: ormai hanno altre priorità, dicevano, e s’interessano soltanto al superfluo. Da quale pulpito arrivavano queste prediche, e quanti proseliti che hanno fatto!
Le persone s’iscrivevano in massa ai corsi di scrittura creativa, per i quali pagavano fior di quattrini; e anch’io ne ho fatti, lo ammetto. C’era anche chi sborsava mille o duemila euro pur di vedersi pubblicare i libri, per il gusto di avere anche loro qualcosa da mettersi sotto il braccio per definirsi scrittori; e ne ho visti persino girare per le fiere con in mano il loro romanzo incompreso, e supplicare in ginocchio gli editori purché li leggessero.
Li ho sentiti dire frasi del tipo: «Dopo di questo la letteratura non sarà più la stessa, dovrà pur rendersene conto!»
Oppure la mettevano sul personale: «Qua c’è tutta la mia vita, non può ignorare un fatto del genere!»
Erano nient’altro che richieste di attenzione, e per giunta tutte col punto esclamativo, a onor del genio che animava le loro opere. Allora presi l’abitudine di seguirli, di camminare al loro fianco per l’impervia via che conduce alla fama; e andavo alle fiere apposta per questo: per attenderli al di fuori, e pregarli allo stesso modo.
«L’hai letto questo?» chiedevo. «E quest’altro?»
Scuotevano la testa, si guardavano le mani, mi scansavano come la peste. La sola vista di quei libri li faceva trasalire e sudare freddo, o forse erano i nomi: era la prova che certuni avessero resistito agli assalti del tempo, era questo a farli piombare nel più oscuro sconforto.
Eppure non mi arresi, e spesi persino dei soldi per comprare libri da regalare; ma non li volevano, non c’era niente da fare.
«Ma come,» insistevo, «questo è Camus, non puoi non averlo letto! Preferisci allora Kafka? Dostoevskij? Almeno li conosci i tuoi contemporanei?»
Niente, non volevano niente, ad esclusione di un po’ di attenzione per la propria arte.
«Perché, invece, non mi leggi tu?»
E mi porgevano il malloppo, tutto spiegazzato per gli innumerevoli viaggi e le volte che già l’avevano sfogliato dinanzi a qualche editore annoiato. Ne ho una decina da qualche parte: centinaia di cartelle di cui ho letto poche righe, il tempo minimo per comprendere che avrei girato per ore attorno all’ombelico dell’autore.
Oltretutto, bisogna dire che questa piaga non aveva età né sesso. Essa colpiva indistintamente uomini e donne, giovani e vecchi. Si pubblicavano ad esempio i romanzi dei quindicenni, che a scuola non leggevano neanche più i classici o i libri per ragazzi, perché ormai si vendeva la vita dell’autore, non la storia che era stato capace di costruire. Era sufficiente che si raccontassero episodi di vita vissuta, cose che scandalizzassero per l’età acerba di chi le raccontava: insomma, sesso e violenza, oppure un po’ d’amore adolescenziale, che incuriosiva sempre. Un’altra moda fu poi quella di pubblicare i diari delle persone anziane, preferibilmente se semianalfabete e propense a denunciare i torti subiti o a rendere partecipi gli altri (gli ignoranti lettori) dell’illuminazione che li aveva colti al tramonto. Erano libri pieni di livore e astio contro la specie umana tutta, nel primo caso, oppure traboccavano di un ottimismo stucchevole e condito d’amore universale nel secondo.
Alla nostra società questi dovevano senz’altro sembrare dei modi per rendersi più democratica, per dare voce a tutti; che nessuno però ascoltava, e a maggior ragione col passare del tempo, che aumentava il rumore di fondo.
Le persone trovavano sempre il tempo per scrivere, ma mai per leggere. Le scuse erano delle più varie: il lavoro mi porta via troppo tempo; non ho soldi per comprare i libri; non si scrivono più i capolavori di una volta; alla sera sono stanco. Per scrivere, però, sembrava che stessero svegli persino di notte, in ostaggio del loro furore artistico. E anche coi soldi non andava diversamente: per birre e altri vizi ne avevano sempre in abbondanza, ma mai per i libri. Come facessero a scrivere, privi com’erano della necessaria curiosità, è sempre stato per me un gran mistero.
Non andava certo meglio con le biblioteche, dove andavano soltanto alcuni pensionati, e il più delle volte per dormire al caldo e senza troppi rumori. I pochi che chiedevano in prestito i classici, magari per ricordarsi della loro gioventù, venivano guardati con sospetto dagli addetti ai banconi: i quali si erano ormai specializzati in novità, e passavano l’intera giornata ad aggiornarsi sui nuovi titoli sfornati dal mercato.
All’inizio avevano dato la colpa a internet, e c’ero caduto persino io nell’errore. A chi me lo chiedeva, rispondevo: «Io uno di quegli aggeggi elettronici non lo comprerò mai! La letteratura è soltanto quella di carta!»
Sono stato miope, come tutti i miei simili. Ci siamo estinti per miopia, anche se poi per leggere mettevo già all’epoca gli occhiali da riposo. A parte la pessima battuta, devo ammettere che come intellettuale sono stato un fallimento, al pari di tanti altri impegnati a combattere battaglie di retroguardia per difendere le loro posizioni.
Quando hanno cominciato a chiudere le librerie, anche l’esercito degli scrittori ha iniziato a comprendere, ma non si sono ricreduti. Alcuni, i più convinti, si sono gettati anima e corpo nel digitale, ma la maggioranza ha desistito: era l’oggetto libro a interessar loro, il feticcio da mostrare con orgoglio ad amici e parenti.
La produzione di libri calò vertiginosamente, e per un attimo sperai che questo potesse incrementare finalmente il numero dei lettori. Se non scrivono più, mi dissi ingenuamente, forse ricominceranno a leggere. Malauguratamente non andò così, neanche quando crollò il prezzo dei libri. Andavo in giro per librerie e mercatini a fare incetta di copie, dove mi annusavo con i pochi superstiti della mia specie. Sembravamo degli zombie, ma lo stesso eravamo in schiacciante minoranza.
Se le librerie chiudevano, il mio progetto divenne allora quello di crearmene una tutta mia. Riempii casa all’inverosimile: così tanta carta che smisi persino di mangiare pasti caldi per il terrore che potesse prender fuoco tutto. La maggior parte delle cose non potevo neanche lontanamente sperare di leggerla, ma accatastavo libri, accumulavo storie. Certo, confidavo che mi sarebbero servite, ma mai avrei potuto immaginare di arricchirmici così tanto. Di tempo ce n’è voluto, e molto, ma chi ama leggere non ha certo paura del tempo.
Anche oggi, qui fuori della mia porta, è pieno di gente venuta in pellegrinaggio. Mi supplicano di vendergli almeno una copia, anche del romanzo più insulso (non ne ho, ma se proprio dovessi fare una classifica, sarebbero quelli relegati nelle ultime posizioni). Alcuni dicono che non sanno più niente, se non di se stessi. Allora esco fuori, con un libro, uno qualsiasi, e mi metto al centro di un cerchio che formano queste persone assetate di storie, prive ormai di ogni forma d’immaginazione. Mi metto in mezzo a loro e leggo; e se non fosse per me, per i miei occhi stanchi e la voce che si affievolisce, vorrebbero che non mi fermassi mai.
Lo so che a sentirlo oggi sembra tutto così assurdo, ma un tempo non funzionava così. Un tempo le persone non leggevano, né ascoltavano. Scrivevano e basta.
Fonte: minima&moralia

2 commenti:

  1. Difficile aggiungere qualcosa, è un commento perfetto. La situazione si potrebbe sintetizzare così: negli anni passati era molto difficile farsi leggere, però se eri bravo ti contattavano, venivi coinvolto (è il caso di Primo Levi, per esempio: che era del tutto estraneo al giro letterario). Da quando esistono i blog, pubblicare è facilissimo, però l'editoria non esiste più. E tra un po' non ci saranno più nemmeno le librerie, già oggi si fa fatica a trovarne una degna di questo nome, anche a Milano.
    Lo stesso destino spetta ai giornalisti, quelli che vengono pagati sono pochissimi. Ma si continua a ragionare come se fossimo negli anni 50 e 60, come se ci fossero ancora Calvino e Pavese all'Einaudi... (Einaudi oggi è un marchio della Silvio Berlusconi, parliamoci chiaro)
    Beh, io comunque ti leggo e ogni tanto mi arrovello su qualche parola - però poi ci arrivo
    :-)
    (non sono mica uno scecco, in fin dei conti!)

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  2. sono le cose che penso anche io, Giuliano :-)

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