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30/06/13

Focu

"Dimmela! Dimmela ancora Ciuzzu!"
"E che ti devo dire? Che domani ciò la sveglia alle tre per il mercato! E già ieri sira... sono le undici ora. Che ti devo dire anima mia?"
"Quella cosa. Quella cosa della bibbia. Dimmela Ciuzzu! Dimmela ancora"
"Ma è tardi ciatu mio!"
"E tu dimmela in fretta. Dimmela come su fussi focu che brucia. Comu pagghia sicca dimmìlla.  Dimmela Ciuzzu che poi io un regalo ti faccio"
"Tu mi vuoi morto! Iu u sacciu!"
"Macchidici Ciuzzu! Macchidici! Non sia mai questa sventura. Ecco accussì. Visto ca ti cunvicisti? Ecco. Cà. Mettiti vicino a mia e cuntammilla di nuovo questa avventura che io sulu da tia lho sentita"
"E certo non te le cuntavano le monache queste novene..."
"No Ciuzzu. No. Mai."
"Veniccà allura. Veniccà caccumenciu! Comu si bedda, fimmina mia, comu si bedda!..."

E Ciuzzu chiuri locchi che non serve vedere che lui ha ogni parola nella testa. E tutto è già iniziato e le frasi nesciunu come canto. Comu ciumi di petra infuocata nesciunu. Come paradiso macari. E notti.
E la testa furìa. Furìa. Furìa. Fino a calari.

"Ciuzzu... Ciuzzu!"

25/06/13

Madrigali della porta

Se ora tu bussassi alla mia porta,
sicura con i gabbanati occhiali,
con quelle frasi vuote, sempre uguali...
e se poi guardassi invero la mia bocca,
(le labbra serrate, disuguali)
e pensassi: «Oh mio dio,
ma che cesso!», sarebbe solo un gioco:
“specchio riflesso”.


Per un "gioco" lanciato da Giulio Mozziqui

Madrigali della porta

Se ora tu bussassi alla mia porta,
sicura con i gabbanati occhiali,
con quelle frasi vuote, sempre uguali...
e se poi guardassi invero la mia bocca,
(le labbra serrate, disuguali)
e pensassi: «Oh mio dio,
ma che cesso!», sarebbe solo un gioco:
“specchio riflesso”.


Per un "gioco" lanciato da Giulio Mozziqui

23/06/13

Michelino e Filippo

Filippo tu non devi ridere. Non è che perché sto diventando vecchio accumencio a rimbambire. Certo ne dico di minchiate ma come a tutti mi pari e se ti dico che avi un misi che dentro la mia casa ci sono questi rumori non è che è perché sono diventato impressionabile o chennesoio.
Accuminciano giusto un misi fa ti ricu. Te lo ricordi? E’ stato il giorno ca vinni la polizia ad arrestare a Michelino linglisi. Era amico tuo no? So mugghieri mi rissi che eravate sempre in giro insieme che tu ci stavi insegnando u misteri. U sacciu! U sacciu! Ti è dispiaciuto assai. Non te la pigghiari però se ti dico che io anche se abitava a fianco di casa mia non ci parravo  assai con quel caruso che mi dava fastidio quella cosa che vaviava in continuazione  e che per farci una discussione ci vuleva ancirata.
Comunque  ti dicevo accumincianu quel giorno i rumori. Quel giorno che i poliziotti ci cercavano la droga ma non lhanno trovata a sò casa e però su puttano u stissu che ciavevano fatto il film con la telecamera e  il giudice diceva che cerano le prove.  Una para di giorni prima a dire il vero io avevo sentito ritornando dalla spisa che stavo aprendo la porta un colpo a sicco come una martellata ma forse non centrava niente che poi invece dal giorno dellarresto i rumori sono arrivati. Ed erano è sono come quando acchiana il cafè  dalla cafittera che borbotta ma senza ciauru però. E alle volte poi più forte si sentono. Come quando manca lacqua e le tubature pari che cianno a  tussi.
Io allinizio non ci ho dato tanto peso. E che sarà mai pensavo. Una mia impressione.
E invece questi rumori hanno  continuato che non cera orario o duminica.
Accuminciai allora a taliare le tubature. A seguire il percorso. Appoggiavo lorecchio al muro al pavimento e però non succedeva niente  che lunica cosa che sentivo erano la genti ca  futtuva o litigava e Iano macari dal piano di sutta che russava come a un treno. Che per sentire a quello però non cera nemmeno bisogno di stare così attento.
Allora ogni tanto ho provato anche a staccare la luce che forse erano i fila che facevano contatto ho pensato e però quelli i rumori stavano muti non si facevano sentiri in quel momento e poi invece riprendevano quando non me li aspettavo più come se lo facessero apposta. Uno scherzo.
E’ per questo che te ne ho parlato che tu le case le fai. Che la muratura è il tuo mestiere. E allora può essere che di sicuro ne sai chiù di mia. Cosa? Crepe? Non mi pari! Certo quannu ci fu u terremoto cascau qualche cosa ma sautau solo l’intonaco dal muro  che con due colpi di scupa  tutto era pulito.
Aspetta. Aspetta. Ora che mi ci fai pinsari cè stato che nella stanza da letto da un pò cè più polvere ma mi veni nella testa solo ora che me lo dici tu. Sì! Sì! Ciai raggiuni! E' proprio attaccato alla stanza di letto di Michelino. Ciavi larmadio anche lui supra a quella parete che io lo so che quando quello fici il trasloco lanno scorso laiutai tannicchia con qualche scatolo. Chiddici ce la facciamo a spostare l’armadio? Cosa? Ti basta sulu virirlu? Ok! Perfetto! Allora se è così ne approfitto che io  mi sono ricordato che ciò una commissione importantissima. No! Non ti preoccupari! Mi fido! Ti lassu a casa libera che ho capito che tu mi puoi aiutare! Na menzurata e torno! Ti lassu ca allura. Grazie Filippo! Grazie!


Scritto "in recupero" per l'EDS - Cos'è questo rumore?  proposto a inizio anno da  La Donna Camèl

18/06/13

Claudio Rocchi (Milano, 8 gennaio 1951 / 18 giugno 2013)


La realtà non esiste

Quando stai mangiando una mela tu e la mela siete parti di Dio,

Quando pensi a Dio sei una parte di ogni parte e niente è fuori da tutto

Quando vivi tu sei un centro di ruota e i tuoi raggi sono raggi di vita;

puoi girare solo intorno al tuo perno o puoi scegliere di correre e andare

Quando dormi tu sei come una stella e il respiro è come fuori dal tempo;

Quando ridi è come il sole sull'acqua, sai che farne della vita che hai

Quando ami tu ridoni al tuo corpo quel che manca per riempire un abbraccio,

Quando corri sai essere lepre e lumaca se hai deciso di arrivare o restare

Quando pensi stai creando qualcosa, illusione è di chiamarla illusione,

Quando chiedi tu hai bisogno di dare, quando hai dato hai realizzato l'amore.

Quando gridi la realtà non esiste hai deciso di essere Dio e di creare.

Quando chiami tutto questo reale hai trovato tutto dentro ogni cosa.

17/06/13

"Niente da ridere" di Nicola Lagioia

[...] “Il saggio ride se non tremando”, scrive Bossuet. E il comico non ha come propria vocazione la pernacchia al potente di turno presupponendo come sfondo una scenografia immutabile. Il comico, al contrario, spalanca mondi. (Non è un caso che le vignette satiriche abbiano ormai un vero effetto eversivo solo nei regimi totalitari: appunto perché in quei casi provengono semanticamente da un altro mondo rispetto a quelli per esempio dell’Iran o della Corea del Nord). La risata che ci scuote nel profondo arriva a lambire qualcosa del nostro segreto di specie. La Prima guerra mondiale raccontata da Céline, è (linguisticamente) un altro mondo rispetto al racconto ufficiale della guerra. Il mondo comicamente concentrazionario di Kafka esiterà sui libri di Storia solo diciotto anni dopo la pubblicazione della Metamorfosi, ma è tuttavia già presente (in una forma ancora disinnescabile?) oltre una stretta porta collocata in Europa centrale. Le risate di Bene, di Totò, di Artaud, di Cervantes, di Groucho Marx aprono porte verso mondi tutt’altro che inesistenti. Non è l’escapiscmo o l’esotismo anni Novanta (gli inesistenti mondi dell’intrattenimento d’autore). È al contrario (come direbbe Freud, o forse Heisenberg?) il dislivello, la discontinuità improvvisa, il passaggio oltre il quale scopriamo che il mondo – persino nel male – è ben più vasto di ciò che crediamo di vedere.
Una comicità (una narrazione) che mostri (non inventi) l’esistenza di altri mondi rispetto a quello immaginato dal potere (cioè il potere stesso), è la scure che spezza le catene. È un invito al trasloco, all’avventura lanciata verso qualcosa di ben diverso (non contrario e speculare) rispetto all’asfittica stanza del discorso quotidiano. [...]
Fonte: Niente da ridere di Nicola Lagioia

14/06/13

Incanto


Io di quella donna non sacciu dire assai. Nemmeno il nome. Non lo so quali erano i suoi segreti.
Nunzio quando ce la feci vedere indicandola con la testa disse solo: “Minchia! “
E dentro a quella parola  lui però non ci misi niente di volgare. Era più sorpresa direi. Come a quando uno ciavi vogghia di un gelato e allimprovviso tarriva sutta u naso un cono con la panna  pronta per essere alliccata.
Io la canuscii quasi un anno prima. Il primo giorno di marzo. Ero andato a mangiare una fetta di carne di cavallo da Don Ciccio u scarparu. Nella sua chianca vicino al cimitero.
Lui lo chiamavano così perché quando era nico suo padre non lo voleva con lui nella macelleria e allora lo aveva mandato a fari u caruso da Tino Indelicato u curtignu. Tutto il giorno ad attaccare tacchi e a respirare veleno. Ciccio cera rimasto solo una para di anni . Poi quella colla gli aveva spaccato i polmoni. Ancora adesso sputacchiava a destra e a manca mentre con il muscarolo teneva vivo il fuoco.
Lei era spuntata la davanti allimprovviso. Da una vanedda scurusa. Alta. Bionda. Un culu a mannulinu pronto a fari musica e un sorriso come a un sogno.
Non era però un fatto di biddizza. Ci sono donne più belle di sicuro. E anche altre fimmine create per fariti sbrugghiari.  E però a tutte quelle ci mancava  qualcosa.  Ora lo capivo. Ora lo sapevo.
Passando lei laria fermadella via si era spostata come dincanto e tutti ci eravamo girati fino a vederla sparire in mezzo alla notte. Fino a quando rimase solo la fiamma alta e caura del fuculari. E locchi di Don Ciccio. Due occhi come a un cane in calore.
Poi arrivò lestate e io la incontrai di nuovo un pomeriggio vicino al chiosco. Lei si era fermata a prendere un selz limone e sale e io invece ciavevo la mia birra a  farimi frisco.  Era come essere al cinema. Insomma lei era lì  ma però era come se non cera. Noi potevamo solo goderci lo spettacolo. Essere contenti. Sognare. Non continuò assai però. Il tempo di sentire di nuovo quellaria spostarsi come a un ciato di mare e tutto finiu.
Lultima volta infine fu una misata dopo di averla incontrata con  Nunzio. Lei ciaveva una foto  grande nel giornale. Ci avevano tagliato la gola come a un capretto e poi lavevano ittata in una sciara.
“La polizia brancola ancora nel buio “ cera scritto.

Scritto per l'EDS - Il sesto senso - proposto da La Donna Camèl  con le seguenti regole:
Racconta una cosa che non sai definire.
Entro il 24 giugno a mezzanotte.
Non usare mai la parola che.

Partecipano:

Melusina con C’era quella cosa
Melusina con Serenissima
Hombre con Io, L’amministratore e la signora grassa
Pendolante con Il viaggio
*Cla con Mercoledì
Lillina con Quel certo non so che
La Donna Camel con Io non c'entro

13/06/13

Fernando António Nogueira Pessoa (Lisbona, 13 giugno 1888 – 30 novembre 1935)






Non sono niente.
Non sarò mai niente.
Non posso voler essere niente.
A parte questo, ho dentro me tutti i sogni del mondo.
Finestre della mia stanza,
della stanza di uno dei milioni al mondo che nessuno sa chi è
(e se sapessero chi è, cosa saprebbero?),
vi affacciate sul mistero di una via costantemente attraversata da gente,
su una via inaccessibile a tutti i pensieri,
reale, impossibilmente reale, certa, sconosciutamente certa,
con il mistero delle cose sotto le pietre e gli esseri,
con la morte che porta umidità nelle pareti e capelli bianchi negli uomini,
con il Destino che guida la carretta di tutto sulla via del nulla.
Oggi sono sconfitto, come se conoscessi la verità.
Oggi sono lucido, come se stessi per morire,
e non avessi altra fratellanza con le cose
che un commiato, e questa casa e questo lato della via diventassero
la fila di vagoni di un treno, e una partenza fischiata
da dentro la mia testa,
e una scossa dei miei nervi e uno scricchiolio di ossa nell'avvio.
Oggi sono perplesso come chi ha pensato, trovato e dimenticato.
Oggi sono diviso tra la lealtà che devo
alla Tabaccheria dall'altra parte della strada, come cosa reale dal di fuori,
e alla sensazione che tutto è sogno, come cosa reale dal di dentro.
Sono fallito in tutto.
Ma visto che non avevo nessun proposito, forse tutto è stato niente.
Dall'insegnamento che mi hanno impartito,
sono sceso attraverso la finestra sul retro della casa.
Sono andato in campagna pieno di grandi propositi.
Ma là ho incontrato solo erba e alberi,
e quando c'era, la gente era uguale all'altra.
Mi scosto dalla finestra, siedo su una poltrona. A che devo pensare?
Che so di cosa sarò, io che non so cosa sono?
Essere quel che penso? Ma penso di essere tante cose!
E in tanti pensano di essere la stessa cosa che non possono essercene così tanti!
Genio? In questo momento
centomila cervelli si concepiscono in sogno geni come me,
e la storia non ne rivelerà, chissà?, nemmeno uno,
non ci sarà altro che letame di tante conquiste future.
No, non credo in me.
In tutti i manicomi ci sono pazzi deliranti con tante certezze!
lo, che non possiedo nessuna certezza, sono più sano o meno sano?
No, neppure in me...
in quante mansarde e non-mansarde del mondo
non staranno sognando a quest'ora geni-per-se-stessi?
Quante aspirazioni alte, nobili e lucide -,
sì, veramente alte, nobili e lucide -,
e forse realizzabili,
non verranno mai alla luce del sole reale nè troveranno ascolto?
Il mondo è di chi nasce per conquistarlo
e non di chi sogna di poterlo conquistare, anche se ha ragione.
Ho sognato di più di quanto Napoleone abbia realizzato.
Ho stretto al petto ipotetico più umanità di Cristo.
Ho creato in segreto filosofie che nessun Kant ha scritto.
Ma sono, e forse sarò sempre, quello della mansarda,
anche se non ci abito;
sarò sempre quello che non è nato per questo;
sarò sempre soltanto quello che possedeva delle qualità;
sarò sempre quello che ha atteso che gli aprissero la porta davanti a una parete senza porta,
e ha cantato la canzone dell'Infinito in un pollaio,
e sentito la voce di Dio in un pozzo chiuso.
Credere in me? No, nè in niente.
Che la Natura sparga sulla mia testa scottante
il suo sole, la sua pioggia, il vento che trova i miei capelli,
e il resto venga pure se verrà o dovrà venire, altrimenti non venga.
Schiavi cardiaci delle stelle,
abbiamo conquistato tutto il mondo prima di alzarci dal letto;
ma ci siamo svegliati ed esso è opaco,
ci siamo alzati ed esso è estraneo,
siamo usciti di casa ed esso è la terra intera,
più il sistema solare, la Via Lattea e l'Indefinito.
(Mangia cioccolatini, piccina; mangia cioccolatini!
Guarda che non c'è al mondo altra metafisica che i cioccolatini.
Guarda che tutte le religioni non insegnano altro che la pasticceria.
Mangia, bambina sporca, mangia!
Potessi io mangiare cioccolatini con la stessa concretezza con cui li mangi tu!
Ma io penso e, togliendo la carta argentata, che poi è di stagnola,
butto tutto per terra, come ho buttato la vita.
Ma almeno rimane dell'amarezza di ciò che mai sarà
la calligrafia rapida di questi versi,
portico crollato sull'Impossibile.
Ma almeno consacro a me stesso un disprezzo privo di lacrime,
nobile almeno nell'ampio gesto con cui scaravento
i panni sporchi che io sono, senza lista, nel corso delle cose,
e resto in casa senza camicia.
(Tu, che consoli, che non esisti e perciò consoli,
Dea greca, concepita come una statua viva,
o patrizia romana, impossibilmente nobile e nefasta,
o principessa di trovatori, gentilissima e colorita,
o marchesa del Settecento, scollata e distante,
o celebre cocotte dell'epoca dei nostri padri,
o non so che di moderno - non capisco bene cosa -,
tutto questo, qualsiasi cosa tu sia, se può ispirare che ispiri!
Il mio cuore è un secchio svuotato.
Come quelli che invocano spiriti invoco
me stesso ma non trovo niente.
Mi avvicino alla finestra e vedo la strada con assoluta nitidezza.
Vedo le botteghe, vedo i marciapiedi, vedo le vetture passare,
vedo gli esseri vivi vestiti che s'incrociano,
vedo i cani che anche loro esistono,
e tutto questo mi pesa come una condanna all'esilio,
e tutto questo è straniero, come ogni cosa.
Ho vissuto, studiato, amato, e persino creduto,
e oggi non c'è mendicante che io non invidi solo perchè non è me.
Di ciascuno guardo i cenci e le piaghe e la menzogna,
e penso: magari non ho mai vissuto, nè studiato, nè amato, nè creduto
(perchè si può creare la realtà di tutto questo senza fare nulla di tutto questo);
magari sei solo esistito, come una lucertola cui tagliano la coda
e che è irrequietamente coda al di qua della lucertola.
Ho fatto di me ciò che non ho saputo,
e ciò che avrei potuto fare di me non l'ho fatto.
Il domino che ho indossato era sbagliato.
Mi hanno riconosciuto subito per quello che non ero e non ho smentito, e mi sono perso.
Quando ho voluto togliermi la maschera,
era incollata alla faccia.
Quando l'ho tolta e mi sono guardato allo specchio,
ero già invecchiato.
Ero ubriaco, non sapevo più indossare il domino che non mi ero tolto.
Ho gettato la maschera e dormito nel guardaroba
come un cane tollerato dall'amministrazione
perchè inoffensivo
e scrivo questa storia per dimostrare di essere sublime.
Essenza musicale dei miei versi inutili,
magari potessi incontrarmi come una cosa fatta da me,
e non stessi sempre di fronte alla Tabaccheria qui di fronte,
calpestando la coscienza di esistere,
come un tappeto in cui un ubriaco inciampa
o uno stoino rubato dagli zingari che non valeva niente.
Ma il padrone della Tabaccheria s'è affacciato sulla porta e vi è rimasto.
Lo guardo con il fastidio della testa piegata male
e con il disagio dell'anima che sta intuendo.
Lui morirà ed io morirò.
Lui lascerà l'insegna, io lascerò dei versi.
A un certo momento morirà anche l'insegna, e anche i versi.
Dopo un po' morirà la strada dove fu stata l'insegna,
E la lingua in cui furono scritti i versi.
Morirà poi il pianeta che gira in cui tutto ciò accadde.
In altri satelliti di altri sistemi qualcosa di simile alla gente
continuerà a fare cose simili a versi vivendo sotto cose simili a insegne,
sempre una cosa di fronte all'altra,
sempre una cosa inutile quanto l'altra,
sempre l'impossibile, stupido come il reale,
sempre il mistero del profondo certo come il sonno del mistero della superficie,
sempre questo o sempre qualche altra cosa o nè una cosa nè l'altra.
Ma un uomo è entrato nella Tabaccheria (per comprare tabacco?),
e la realtà plausibile improvvisamente mi crolla addosso.
Mi rialzo energico, convinto, umano,
con l'intenzione di scrivere questi versi per dire il contrario.
Accendo una sigaretta mentre penso di scriverli
e assaporo nella sigaretta la liberazione da ogni pensiero.
Seguo il fumo come se avesse una propria rotta,
e mi godo, in un momento sensitivo e competente
la liberazione da tutte le speculazioni
e la consapevolezza che la metafisica è una conseguenza dell'essere indisposti.
Poi mi allungo sulla sedia
e continuo a fumare.
Finche il Destino me lo concederà, continuerò a fumare.
(Se sposassi la figlia della mia lavandaia
magari sarei felice.)
Considerato questo, mi alzo dalla sedia.
Vado alla finestra.
L'uomo è uscito dalla Tabaccheria (infilando il resto nella tasca dei pantaloni?).
Ah, lo conosco: è Esteves senza metafisica.
(Il padrone della Tabaccheria s'è affacciato all'entrata.)
Come per un istinto divino Esteves s'è voltato e mi ha visto.
Mi ha salutato con un cenno, gli ho gridato Arrivederci Esteves!, e l'universo
mi si è ricostruito senza ideale ne speranza, e il padrone della Tabaccheria ha sorriso.

08/06/13

Che cos’è un maestro?

"Che cos’è un maestro?
Adoperiamo la stessa parola sia per quello che consideriamo il lavoro più umile con i bambini, sia per quello che trasmette il suo sapere ai discepoli. Roman Jakobson diceva che per diventare dei veri maestri non bisogna essere troppo precisi, ma un po’ confusi.”

Tullio De Mauro (intervista) citato da  Il blog del mestiere di scrivere

02/06/13

"Confesso che ho studiato" di Popinga

Confesso che ho studiato, che ho speso molta parte della mia giovinezza a leggere libri, a fare esercizi, a riflettere su quanto imparavo. Senza rinunciare al divertimento e agli amici, allo sport, senza rinunciare a un po’ di impegno politico, ho capito per esperienza, prima ancora di conoscerle, le parole che Gramsci scriveva nel 1932 dal carcere: “Occorre persuadere molta gente che anche lo studio è un mestiere, e molto faticoso, con un suo speciale tirocinio, oltre che intellettuale, anche muscolare-nervoso: è un processo di adattamento, è un abito acquisito con lo sforzo, la noia e anche la sofferenza”. Una gran fatica (e un grande investimento e sforzo della mia famiglia), ma premiata dal piacere incomparabile della scoperta, della conoscenza, di una dignità conquistata. 
Confesso che ho studiato anche perché credevo che la conoscenza fosse, com'era sempre stata, un mezzo di promozione sociale, sia per la possibilità che offre di inserirsi più facilmente nel mondo del lavoro, sia perché la cultura è libertà, libertà dai condizionamenti palesi e occulti, libertà di criticare con cognizione di causa, libertà del dubbio. Più si conosce e più ci si accorge di non sapere. Ciò spinge a voler conoscere di più (la cultura è curiosità), ma anche alla critica di ogni verità precostituita, basata sull'autorità o il potere di qualcuno (umano o celeste che sia) o sulla sua diffusione nella società. 
Confesso che ho studiato e mi accorgo che in parte ho vissuto di illusioni. Confesso di sentirmi sempre più estraneo in un paese dove non si premia il merito ma la fedeltà a un potente, un paese popolato di ignoranti vincenti che impongono i loro modelli fatti di soldi, sesso e successo, dove non si investe più in ricerca e istruzione, dove i dati di fatto sono considerati come opinioni alla stregua delle false speranze, dei sogni, delle bufale, scientifiche oppure no, propalati attraverso ogni mezzo di comunicazione, dove un idiota sicuro di sé (come lo sono gli idioti) ha più ascolto e considerazione sociale di un ingegno dubbioso, di uno che esige da sé e dagli altri onestà intellettuale. 
Confesso che ho studiato e sono stanco di dovermi confrontare con cafoni ignoranti in molte situazioni sociali (in posta, a scuola, sul treno, ecc.), sono stanco che la fatica e i soldi investiti per decenni alla fine valgano così poco. Se fossi giovane me ne andrei all'estero, o farei la rivoluzione, finalmente. Ma ho 57 anni e crescono solo la sfiducia e il disincanto. 
Confesso che ho studiato e mi ritrovo cinico e misantropo.
Fonte: Popinga

"La gioia di scrivere"

Piacere. Gusto, Com'è raro sentire usare queste parole. Com'è raro vedere la gente vivere o, a proposito, creare, sottomettendosi a loro. 
Eppure se mi chiedessero di nominare i principali componenti della natura di uno scrittore, le cose che formano il suo materiale e lo spingono lungo la strada per la quale vuole andare, io potrei solo consigliare di seguire il proprio piacere, il proprio gusto.
[...] se scrivi senza piacere, senza gusto, senza amore, senza divertimento, sei solo un mezzo scrittore.
Significa che sei così occupato a tenere d'occhio il mercato o a prestare orecchio al versante avanguardistico, che non sei te stesso. Non conosci neanche te stesso. 
Prima di tutto uno scrittore dev'essere, è, agitato.
Dev'essere una cosa di febbri e entusiasmi.
Senza questa forza, farebbe bene a uscire a raccogliere pesche o a scavare dei fossi. Dio sa che sarebbe meglio per la sua salute.
Quanto tempo c'è voluto perché voi scriveste una storia dove il vostro vero amore e il vostro vero odio finissero sulla pagina? Quand'è stata l'ultima volta che avete avuto il coraggio di abbandonare un pregiudizio che vi è caro e allora la pagina è stata come illuminata da un fulmine? Quali sono le cose migliori e le peggiori della vostra vita, e quand'è che comincerete a sussurrarle o a gridarle?

Ray Bradbury
La gioia di scrivere in
Lo zen nell'arte della scrittura
Libera il genio creativo che è in te
traduzione di Paolo Nori e Salim Catrina
DeriveApprodi 2000

Fonte: Frammenti Del Tredicesimo Mese
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