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30/01/13

"Amare confessioni di un maestro in crisi" di Lucio Garofalo

Al di là delle disfunzioni e delle problematiche che investono le componenti interne al mondo della scuola, ossia le varie categorie professionali impegnate nell’educazione dei giovani (dirigenti, docenti, personale amministrativo ed ausiliario), uno degli aspetti più detestabili della vita lavorativa nella scuola è costituito dall’eccessiva ingerenza esercitata con arroganza e supponenza dai genitori sul terreno dell’autonomia didattica, una prerogativa che compete, per definizione e vocazione istituzionale, agli insegnanti.
L’eccessiva invadenza e disinvoltura nei comportamenti, la spregiudicatezza e la villania di alcuni genitori e dei loro figli scostumati e prepotenti, costituiscono probabilmente uno degli effetti più incivili e nefasti sortiti dalla cosiddetta “autonomia scolastica”, che in molti casi concede uno spazio fin troppo ampio di intrusione e di condizionamento a quelli che sono i soggetti più influenti e più forti provenienti dall’ambiente esterno. E a proposito dell’eccessiva presunzione e interferenza dei genitori nell’ordinamento e nell’esercizio della professione didattica si potrebbe citare una ricca e varia aneddotica.
Francamente, non se ne può più di una scuola in cui l’invadenza e l’arroganza dei genitori sono un malcostume esageratamente diffuso, quanto intollerabile, in cui le classi da gestire sono sempre più caotiche e numerose oltre i limiti del normale buon senso, in cui gli alunni sono sempre più viziati e maleducati a causa di atteggiamenti diseducativi profondamente scorretti assunti da genitori troppo improvvisati e protettivi.
Una scuola in cui la cosiddetta “autonomia scolastica” viene troppo spesso scambiata dai dirigenti per una sorta di “tirannia” o arbitrio personale, per cui ne consegue che le scelte siano inopinate e discutibili, fin troppo discrezionali, decise in modo solitario e antidemocratico, con metodi autoritari e verticistici, causando ingiustizie e malcontenti.
Una scuola che è diventata un luogo di lavoro alienante e stressante, in cui i colleghi sono sempre più divisi e contrapposti tra loro, anziché essere vicini e solidali, e ciò accade in virtù di meccanismi voluti e imposti dall’alto, che accentuano e inaspriscono ulteriormente il livello già alto di competitività, esasperando le rivalità individuali su cui agiscono in modo determinante le cosiddette “incentivazioni economiche aggiuntive”.
Una scuola in cui il ruolo dell’educatore viene mortificato e sottovalutato anzitutto a livello retributivo, ridotto a mansioni umilianti di mera sorveglianza o, nella migliore delle ipotesi, svilito in compiti meccanici e ripetitivi di addestramento degli alunni tramite esercitazioni noiose volte a superare una serie di verifiche valutative somministrate con i test a risposta multipla in cui si articolano le famigerate “prove Invalsi”, a cui gli allievi vengono abituati e addestrati per mesi e mesi, fino alla nausea.
In definitiva, non se ne può più di una scuola a “quiz”, una scuola di natura cripto-classista e anti-democratica che assomiglia maldestramente al prototipo di un’azienda decotta, da cui si sforza di attingere e mutuare il gergo, gli organigrammi e le gerarchie.
Confesso di essere profondamente deluso dal mondo della scuola e dell’insegnamento, che considero come una sorta di elevata missione sociale che discende da un’autentica vocazione fondata su uno spirito di abnegazione, su straordinarie doti morali di volontà, comprensione, pazienza, umiltà, sensibilità e intuizione psicologica, su convincimenti culturali dettati dall’impegno nello studio, dalla passione e dall’amore nutrito verso l’umanità e verso la trasmissione del sapere e dei più preziosi valori etici e intellettuali.
Il mio “sfogo” personale non comporta affatto uno scadimento di fiducia nella forza morale e spirituale dell’istruzione, nel senso che confido ancora nel valore etico e nelle potenzialità emancipatrici e persino eversive dell’educazione delle giovani generazioni.
Nondimeno, la speranza volontaristica e la fiducia ottimistica nel potere, virtualmente rivoluzionario, della cultura e della formazione integrale, non m’impedisce di assumere un atteggiamento ragionevolmente scettico, critico e realistico, inevitabilmente pessimistico, rispetto ad un’azione ideologica e strumentale con finalità evidentemente conservatrici, svolta tuttora dall’istituzione scolastica nel quadro di un ordinamento sociale classista, una funzione che è, dunque, al servizio del sistema capitalista vigente.
 
Fonte: http://www.girodivite.it

29/01/13

27/01/13

Italiani brava gente



Gonars era una sorta di campo di smistamento, da cui poi le migliaia di internati venivano trasferiti in altri campi che nel corso del 1942 e 43 vennero istituiti (Monigo di Treviso, Chiesanuova di Padova, Renicci di Anghiari in provincia di Arezzo, Tavernelle e Colfiorito in Umbria, Fraschette di Alatri in prov. di Frosinone, Cairo Montenotte in prov. di Savona, e poi ancora Visco in Friuli, e poi Arbe/Rab in Dalmazia, Zlarin, Melada, Mamula e Prevlaka, tutte isole della Dalmazia, solo per ricordare i principali e più tragici).

Intervista ad Alessandra-Kersevan


 
 
 
Era il febbraio del 1937, l'Italia, da meno di un anno, aveva debellato la resistenza etiopica e conquistato l'antico impero dei negus. La guerra di aggressione dell'Italia all'unico stato indipendente dell'Africa subsahariana era finita. Vano e inutile era stato l'appello di Hailè Selassié alla Società delle Nazioni: Mussolini, dal balcone di piazza Venezia, aveva annunciato, a maggio del 1936, la caduta di Addis Abeba e la nascita dell'Africa Orientale Italiana. Ma la resistenza etiopica non era certo stata vinta, ras fedeli al negus stavano organizzando una micidiale guerriglia, le campagne dell'altopiano erano terre insicure per i soldati italiani. Il maresciallo Rodolfo
Graziani aveva sostituito Pietro Badoglio sul trono di viceré di Addis Abeba. E Graziani aveva deciso, il 19 febbraio del 1937, di compiere un gesto rassicurante, una prova spettacolare della pax italiana. "Sì, il viceré doveva dimostrare la "generosità" degli italiani e rompere la cappa di insicurezza che regnava sulla capitale etiopica - dice Del Boca. Per questo decise di distribuire, nel giorno nel quale i copti celebrano la Purificazione della Vergine, la somma di cinquemila talleri ai poveri della città". Graziani, in questo modo, voleva festeggiare anche la nascita di Umberto, principe ereditario della dinastia Savoia. La cerimonia si svolse sui gradini del Piccolo Ghebì, la vecchia residenza di Hailè Selassié, oggi sede dell'Università di Addis Abeba. La resistenza etiopica decise di colpire proprio in quell'occasione. "Due giovani eritrei, ma probabilmente erano più di due, confusi nella folla dei mendicanti, lanciarono diverse bombe a mano contro Graziani. Le vittime dell'attentato furono sette, ma il viceré fu solo ferito, colpito alla schiena da centinaia di schegge", spiega Del Boca.
La vendetta italiana fu immediata: Mussolini, da Roma, ordinò un "radicale ripulisti". Il federale di Addis Abeba, Guido Cortese, scatenò una terribile "caccia ai neri", una rappresaglia feroce e senza pietà. Dice Del Boca: "Per tre giorni soldati italiani, bande armate di fascisti, ascari eritrei ebbero mano libera. Rastrellarono i quartieri più poveri di Addis Abeba: bruciarono i tucul con la benzina, usarono le bombe a mano contro chi cercava di sfuggire ai roghi". Venne data alle fiamme, davanti agli occhi di Cortese, anche la chiesa di San Giorgio. Terribile il bilancio della vendetta italiana: seimila morti, secondo Del Boca; 30 mila, a leggere le fonti etiopiche. Ma il massacro fu senza fine:
Graziani decise di eliminare tutta l'intellighenzia etiopica. I tribunali militari diventarono macchine di morte: tra febbraio e giugno, furono fucilati alti funzionari governativi, notabili del negus, intellettuali, giovani etiopici che avevano studiato all'estero. A marzo, Graziani ordinò lo sterminio degli indovini e dei cantastorie che stavano annunciando, nelle loro profezie, la fine dell'occupazione italiana. Il comandante dei carabinieri in Etiopia, Azolino Hazon, tenne una tragica contabilità: il 2 giugno del 1937 annotò nelle sue statistiche che, solo i carabinieri, avevano passato per le armi "2.509 indigeni". "Non è finita. Graziani vuole catturare i due attentatori - rivela Del Boca. Le indagini militari italiane avvertono il viceré che i due eritrei si sarebbero addestrati al lancio delle bombe nella città sacra di Debre Libanos. Graziani non ha una sola esitazione: ordina al generale Maletti di occupare il monastero più importante dell'Etiopia". Debre Libanos, città conventuale, tremila tucul e due grandi chiese in muratura, a un passo dai canyon del Nilo Azzurro, nel cuore della regione dello Shoa, è il centro del potere della religione copta: il convento fu fondato, nel XIII secolo, da Tekle Haymanot, l'evangelizzatore cristiano degli altopiani. Per secoli il potente superiore dei monaci di Etiopia è sempre stato scelto fra i religiosi di Debre Libanos. "Graziani ordina a freddo un'autentica, spietata razzia - osserva Del Boca. Vuole far sparire la città sacra dei copti, vuole distruggere il Vaticano degli etiopici. Il generale Maletti è un esecutore zelante: nella sua marcia verso Debre Libanos brucia 115.422 tucul, 3 chiese, 1 convento, e uccide 2.523 etiopici". Una contabilità da macabro ragioniere. Maletti occupò Debre Libanos il 19 maggio del '37 e, subito dopo, ricevette un messaggio da Graziani: "Abbiamo le prove della colpevolezza dei monaci". Il viceré ordinò: "Passi per le armi tutti i monaci indistintamente, compreso il vicepriore".
Sono gli storici Campbell e Sadik, a questo punto, a scoprire i particolari di questa tremenda esecuzione: hanno raccolto testimonianze, ascoltato i racconti dei superstiti, hanno soggiornato a lungo nel convento. I monaci, i sacerdoti, i giovani diaconi di Debre Libanos furono condotti dagli uomini di Maletti in uno stretto vallone a venti chilometri dalla città. É la gola di Zega Weden, erosa dal torrente di Finka Wenz. I monaci, secondo la ricostruzione dei due storici, vennero spinti sull'orlo del crepaccio, schierati su una fila con alle spalle i precipizi. Vennero uccisi a colpi di mitragliatrice: erano troppi per i fucili delle truppe italiane. Via via che cadevano, gli ascari dell'esercito italiano gettavano i corpi nel crepaccio. Campbell e Sadik sono riusciti a ritrovare un ragazzo che scampò all'eccidio: aveva 14 anni e si finse morto. Il vecchio di oggi non può dimenticare quanto accadde in quel tragico giorno di sessant'anni fa. I due storici sono scesi fra le rocce del crepaccio di Zega Weden: hanno trovato ancora le ossa di quei monaci sventurati, hanno raccolto le prove di quel lontano massacro che l'Italia ha dimenticato.
Graziani, dopo il massacro, non ha un solo ripensamento, nemmeno un dubbio: l'eccidio dei preti e dei diaconi di Debre Libanos è, per il viceré italiano, un "romano esempio di pronto, inflessibile rigore. É stato sicuramente opportuno e salutare". E ancora: "Non è millanteria la mia quella di rivendicare la completa responsabilità della tremenda lezione data al clero intero dell'Etiopia con la chiusura del convento di Debre Libanos". Angelo Del Boca, per anni, ha ritenuto che le vittime del massacro fossero "solo" 449, ma le nuove testimonianze rivelano che, sulle gole del Nilo, furono uccisi fra 1.200 e 1.600 monaci. Moltissimi erano giovani e ragazzi, catechisti e diaconi. Scrive amaro Del Boca: "Sono stati martiri giovinetti che la cristianità non ricorda e non piange perché africani e diversi". L'eccidio di Debre Libanos fu il detonatore della rivolta etiopica: nell'estate del 1937 la ribellione contro l'occupazione italiana è generale. A novembre Graziani è sostituito con Amedeo d'Aosta. Ma la seconda guerra mondiale è alle porte, l'impero africano del fascismo italiano sta per crollare. I cantastorie ci avevano visto bene.
 

26/01/13

Gianni Agnelli (Torino, 12/03/921 – Torino, 24/01/03)


Io concordo con Giulio Sapelli

AGIOGRAFIA o AGIOLOGIA (dal gr. ἅγιος "santo"; γραϕή "scritto"; λόγος "discorso, trattato"; fr. hagiographie o hagiologie; sp. hagiografía; ted. Hagiographie; ingl. hagiography). - Questa parte della storia ecclesiastica è importante, perché racconta i fatti della vita di coloro che in se stessi attuarono più perfettamente l'ideale evangelico, cioè dei santi, beati, venerabili, ecc.; più comunemente con questo termine s'intende lo studio critico dei monumenti e documenti di qualunque specie relativi ai santi; talvolta, benché di rado, quella che più comunemente si chiama letteratura agiografica. L'agiografia si può dividere in tre parti. La prima concerne i santi che appartennero all'età apostolica, e si occupa particolarmente di quel non piccolo numero di documenti inattendibili che sono gli Evangelî, Atti, Epistole e Apocalissi apocrifi.
La seconda studia i documenti relativi ai martiri dei primi tre secoli, sia quelli degni di fede, consistenti nei cosiddetti Atti proconsolari (interrogatorî dei martiri, contenuti negli archivî dei proconsoli e trascritti dai fedeli), oppure nei racconti di contemporanei ben informati, sia quelli, più o meno leggendarî e favolosi, denominati presso i Greci μαρτύριον, ἄϑλησις e ἀγών, e Gesta, Passiones presso i Latini. Il Dufourcq ha proposto di distinguere appunto con la denominazione di Acta i documenti di valore storico, per distinguerli dai Gesta puramente leggendarî.
Gli Atti storici o creduti tali da prima furono raccolti dal Ruinart (Acta primorum martyrum sincera, Parigi 1689, ristampati spesso ad Amsterdam, a Verona, ad Augusta e finalmente a Ratisbona nel 1859); ultimamente con criterî più severi dal Gebhardt (Acta martyrum selecta, Berlino 1902) e dallo Knopf (Ausgewählte Martyrerakten, 2ª ed., Tubinga 1913). Gli Atti non degni di fede sono incomparabilmente più numerosi dei primi, e si disputa tra gli eruditi delle cause di questo fatto indiscutibile. A fabbricare di cotesti Atti favolosi si cominciò almeno dal sec. IV; se ne intensificò la produzione nel sec. V e nel VI, e si continuò sporadicamente per tutto il Medioevo, né si può dire che tale uso sia del tutto scomparso. Dopo la metà del sec. VI questa immensa letteratura retorica venne generalmente ritenuta storica dai numerosi lettori, né il comune errore cominciò a scoprirsi e dissiparsi se non al tempo del Rinascimento. Essa deve attribuirsi a cause analoghe a quelle che diedero origine alla letteratura apocrifa, e cioè al desiderio di supplire al difetto di notizie e di soddisfare alla curiosità delle plebi cristiane, che non si contentavano di scarse informazioni su quegli illustri e venerati personaggi; di glorificare gli uomini che soffrirono e morirono per la fede, e di produrre nell'animo dei fedeli sentimenti di ammirazione per quelle vittime insigni; d'imitarne le virtù, di togliere dalle mani dei cristiani la diffusa letteratura romanzesca pagana e sostituirla con letture dilettevoli, morali utili; e finalmente di propugnare tesi gradite agli autori, specialmente la preminenza dello stato verginale sopra il matrimonio e l'eccellenza della vita ascetica.
La terza parte dell'agiografia si occupa dei documenti riguardanti i martiri dopo l'èra delle persecuzioni, cioè dopo Massimiano e Diocleziano in Occidente e dopo Licinio in Oriente, e specialmente i non-martiri, ossia i cosiddetti confessori: cioè solitarî, monaci, vescovi, vergini e semplici fedeli, il cui sacrificio venne paragonato al martirio, e chiamato anche con questo nome, benché "bianco", cioè incruento. La maggior parte dei documenti consiste in scritti biografici, detti dai Greci Βίος, Βίος καὶ πολιτεία, e dai latini Vita; e sul loro valore, come sulle relazioni che corrono tra di essi e la tradizione letteraria del romanzo ellenistico o delle "Vite dei filosofi" (affermata da varî critici, tra i quali R. Reitzenstein), tuttora si discute. Le autobiografie nell'evo antico e medio sono molto rare.
Gli autori di questa farraginosa letteratura, tanto in Oriente, quanto in Occidente, spesso e in abbondanza, uniscono agli storici, elementi favolosi e retorici. Ciò deve attribuirsi alla larga influenza esercitata dagli Atti degli apostoli apocrifi e dalle Gesta romanzesche dei martiri delle prime generazioni cristiane, al desiderio di provvedere a mancanza di notizie e fornire ai devoti letture edificanti. Benché alcuni scrittori medievali si siano scagliati contro il sistema di mentire a scopo morale (pro pietate mentiri), molti altri, come gli autori delle Passioni, non credettero di commettere colpa narrando fatti, se non veri, a loro parere verosimili, da potersi anche rifiutare senza mancare alla fede cattolica, e, ad ogni modo, giovevoli alla morale e pietà cristiana. La maggior parte di loro praticamente non distinguevano fra tradizioni orali sicure e dicerie popolari senza serio fondamento, tra storie in senso stretto ed elogi, panegirici e lezioni di morale. A tale effetto non si facevano scrupolo alcuno di saccheggiare e adattare ai lora eroi ciò che di bello, di utile e di curioso trovavano altrove, sia nel Vecchio e nel Nuovo Testamento e negli apocrifi dell'uno e dell'altro, sia nei Martirî, nelle Passioni e nelle Vite più antiche, e di prendere elementi delle loro narrazioni dalle stesse storie profane, dalle mitologie, dalla favolistica, dalla novellistica e dal folklore dei diversi paesi. Il Medioevo raccolse per la lettura corale e per l'edificazione dei fedeli, intere e compendiate, parecchie Passioni e Vite. Queste voluminose collezioni furono chiamate presso i greci Menologî, Menei, Sinassarî, presso i latini Passionarî, Lezionarî, Leggendarî, perché contenevano le lezioni da farsi in coro (in latino legenda). E poiché dal Rinascimento in poi gli eruditi si accorsero che questi Leggendarî constavano di documenti nei quali di frequente l'elemento fantastico prevale sui dati storici, ai racconti più o meno inquinati di scorie favolose fu dato il nome di leggende.
 
Fonte definizione: http://www.treccani.it

24/01/13

"Bolaño, Wallace, Lindo Ferretti e la Feltrinelli" di Antonio Koch

Non ricordo quando ho comprato “2666” di Bolaño, non so nemmeno perché, forse perché era grosso, avevo voglia di un libro grosso, forse perché era un Adelphi, gli Adelphi hanno un bel font, forse perché c’era la Madonna di Guadalupe in copertina. Non sapevo niente del Messico, non sono mai stato in Messico e nemmeno in Cile, non ho mai neppure avuto una particolare predilezione per il Sudamerica o per gli scrittori sudamericani, e Bolaño non l’avevo mai sentito nominare. Ricordo invece quando ho comprato “Infinite Jest” di David Foster Wallace, lavoravo ancora da Feltrinelli e c’era una pila di “Infinite Jest” in mezzo al corridoio, e la guardavo tutti i giorni, non guardavo il singolo libro, guardavo tutta la pila che era composta da tredici copie di “Infinite Jest”, era molto grosso, non lo comprava nessuno, né quello né altri libri di David Foster Wallace. Deve essere buono, quindi, se non lo compra nessuno, pensavo, oppure pericoloso. È anche vero che la Feltrinelli dove lavoravo faceva più che altro un servizio di edicola, la gente veniva a comprare Astra, Gente Mese, Giochi Per Il Mio Computer, venivano i trans-gender a comprare I-D, Details, riviste di moda o design o architettura o arte o tutto insieme che costavano una quarantina di euro, ogni tanto arrivava Lindo Ferretti, sì proprio lui, Giovanni, che comprava dodici-quindici libri tutti in una volta, arrivava vestito da monaco, tipo, con una tunica di panno verde che strisciava per terra, oppure con degli occhiali scuri fatti in casa, cioè occhiali da vista con le lenti dipinte di nero con l’Uniposca, arrivava sempre dopo mezzanotte, all’una o alle due, io facevo il turno di notte, la Feltrinelli chiudeva alle tre di mattina, a volte arrivava alle tre meno cinque e si metteva a gironzolare tra gli scaffali e nessuno aveva il coraggio di dirgli Giovanni, signor Ferretti, come chiamarlo?, mi scusi, dirgli guardi che dobbiamo chiudere, e io aspettavo alla cassa e occhieggiavo la pila di “Infinite Jest” lì, immutata, costava molto, ricordo, ventiquattro euro. Poi un bel giorno l’ho comprato, avevamo lo sconto quaranta percento, mica male, l’ho letto e mi sono licenziato.
Cosa hanno in comune Bolaño e David Foster Wallace? Boh, secondo me niente tranne il fatto che erano persone che non stavano bene, ma quale scrittore sta bene?, oppure che sono entrambi morti giovani, Wallace a quarantasei anni, Bolaño a cinquanta, oppure che sono entrambi morti suicidi – no, questo non è esatto, Bolaño è morto perché necessitava di un fegato nuovo, aspettava il trapianto, il fegato non è arrivato in tempo, ma comunque era uno che beveva, o che aveva bevuto, è anche per questo che gli serviva un fegato nuovo, inoltre fumava parecchio, e in fondo bere e fumare è un modo per suicidarti lentamente, un modo per ucciderti senza volerlo mostrare al mondo in modo plateale – oppure il fatto che se pure in modi diversi erano entrambi dei romantici, Bolaño dà l’impressione di averlo assimilato meglio, questo aspetto della sua natura, forse perché era cileno, poi messicano, poi spagnolo, comunque sembra essere in pace su questo, come dire accetto la cosa anzi la sfrutto per scrivere pagine immortali e pubblicare libri i cui diritti d’autore daranno da mangiare a mia moglie e a mio figlio quando non ci sarò più, Wallace invece da questo punto di vista era messo peggio, non si dava per vinto, chiedeva aiuto alla logica, alla matematica, ma poi continuava a scrivere perché (sono parole sue) ogni storia d’amore è una storia di fantasmi, e né lui né la matematica potevano farci nulla.
Cioè Bolaño era uno tosto, un tipo vissuto, Wallace era più nerd. Entrambi poeti, comunque. Io i loro libri li consiglio anche se non sono libri facili, molti sono libri grossi, altri sono piccoli ma sono comunque infingardi, ti portano in posti che dici boh, non so, mi sembra molto buio qui, sarà pericoloso?, ehi c’è nessuno?, e quando vuoi tornare indietro scopri che ti hanno chiuso lì dentro e hanno buttato la chiave.

Fonte: like falling stars

21/01/13

Occhio del coniglio di LaDonnaCamel


Basta. È arrivato il momento di mandarlo per la sua strada e di ritornare libera. Libera di scrivere altro. Libera di giocare. Libera di fare a modo mio. Mi rendo conto che mancano dei passaggi di causa-effetto tra le premesse (le frasi citate) e le mie conclusioni: pazienza. Chi mi conosce sa che l'ellissi è la mia.

Dalla prossima domenica - che è anche la befana e mi si addice, ogni domenica pubblicherò un capitolo del romanzo che si intitola L'occhio del coniglio. Sono trentadue in tutto, andremo avanti fino all'estate: deciderlo oggi è più casuale che significativo. Sarà di domenica perché è una cosa da dilettante e non da professionista, sarà gratuito e libero. Liberato, per la precisione.
Poi vediamo.




19/01/13

"Autenticità" di Paolo Nori

Ho molti quaderni, mi piace molto usare i quaderni, delle volte ne compro talmente tanti che poi non so cosa scriverci, e allora ci scrivo «Ma quanti quaderni, che ho», oppure ci scrivo «Non so cosa scriverci, su questo quaderno», mi diverto così.
Adesso sto provando a scrivere un romanzo e gli appunti che prendo li prendo su un quaderno dove dentro ho trovato un pezzetto di carta che dice: «Questo prodotto è stato realizzato con tecniche artigianali. Qualunque “difetto” esso presenti non è da considerarsi tale ma una conferma della sua autenticità».
E mi è venuto da pensare a una cosa di uno scrittore russo che mi piace molto, che si chiama Daniil Charms (Pietroburgo, 1905, Leningrado 1942), e che negli anni 30 del secolo scorso scriveva: «All’osservazione: “In quello che ha scritto ci son degli errori”, rispondi: “Sembra sempre così, in quello che scrivo».
Che è una cosa che mi piace molto, è che mi piacerebbe di poter dire anche delle cose che scrivo io, solo che non ci credo.
Io, quello che credo, che i difetti delle cose che scrivo (e dei miei quaderni), non siano da considerare una conferma della loro autenticità.
Che autenticità, poi, io, di preciso, non so bene cosa vuole dire. Secondo me, non è una questione di autenticità o di falsità, è una questione di sapienza o di ignoranza; che io, se devo stare da una parte, mi viene da scegliere l’ignoranza.
Perché, senza voler parlare male di una categoria, che le categorie non esistono, ma i professori universitari, anche quelli bravissimi, a me sembra che tendano a parlare delle cose che sanno come cose che si sanno, che son state scoperte, e, quindi sono disinnescate, pastorizzate, microfiltrate, non c’è più stupore, si possono bere senza nessun pericolo di infezione.
Che da un certo punto di vista è anche normale, chissà quante volte le han ripetute, quelle cose lì, però, da un altro punto di vista, non so, la legge di gravità, ma anche la ruota, e anche la leva, e anche gli scolapasta, per dire, a guardarli con un minimo di sforzo, a dedicare loro un po’ di attenzione, sono tutte cose stupefacenti. Anche i denti d’oro, mi viene in mente adesso. Che i denti d’oro, uno potrebbe chiedersi, sono autentici? Ecco, questo è un bel problema, secondo me.
 
Paolo Nori

16/01/13

F.A.I. LE PRIMARIE DELLA CULTURA

 
Se non puoi scegliere il candidato, scegli le sue idee
Il 24 e 25 febbraio gli italiani saranno chiamati ad esprimersi alle elezioni politiche per indicare i propri rappresentanti in Parlamento. La legge elettorale, però, impedisce di scegliere deputati e senatori. Il cosiddetto Porcellum obbliga a votare per liste bloccate.
Per questo, non potendo scegliere i candidati, i cittadini dovrebbero avere almeno l’opportunità di scegliere le idee che vorrebbero vedere sostenute dai prossimi governanti.
E' l'obiettivo a cui puntano le “Primarie della Cultura”, iniziativa nata dall'idea di un gruppo di giovani al quale il FAI – Fondo Ambiente Italiano intende dar voce.
Per la prima volta in Italia viene indetta una grande consultazione popolare con lo scopo di promuovere e valorizzare soluzioni concrete nell'ambito della cultura, del paesaggio, dell’ambiente.
Grazie all'impulso che viene dai giovani, la cultura può e deve entrare a far parte a pieno titolo del temi della prossima campagna elettorale, con lo scopo di sostenere e rafforzare un settore dinamico, interessante e di valore irrinunciabile per tutti gli italiani.

Come si vota
Sul sito www.primariedellacultura.it tutti i cittadini possono registrarsi e votare per i temi che ritengono prioritari nei settori che da sempre contraddistinguono l’attività del FAI: cultura, paesaggio, ambiente. A disposizione dei votanti ci sono 15 temi selezionati, lunghi lo spazio di un tweet: dalla destinazione di una quota minima del denaro pubblico per la cultura, alle politiche per lo sviluppo del turismo, alla revisione delle norme che regolano il consumo di suolo, a misure che fermino lo svuotamento dei centri storici, all'aumento di ore di storia dell’arte nei programmi scolastici.
Ogni votante può indicare fino a tre temi. Le procedure di voto sono aperte per tre settimane, dal 7 al 28 gennaio, periodo durante il quale la piattaforma internet, anche grazie all’interazione tramite i social network Facebook, Twitter, G+, permetterà agli utenti di esprimere commenti sui temi e integrarli con suggerimenti.
Al termine delle operazioni di voto, tutte le preferenze raccolte tramite il sito www.primariedellacultura.it servono a stilare la classifica dei temi più votati. I dati vengono annunciati ufficialmente e presentati ai partiti e candidati delle prossime elezioni politiche, che potranno impegnarsi pubblicamente a sostenerli in caso di vittoria.

12/01/13

"Dieci buone ragioni " di Giulio Mozzi

Dieci buone ragioni per smettere di scrivere:

1. Non ne hai più voglia.
2. Quello che avevi da dire, l’hai detto.
3. Niente di ciò che scrivi ti soddisfa più.
4. Hai sempre più forte la sensazione che la letteratura non serva a niente.
5. Hai dieci progetti impiantati e non vieni a capo di nessuno.
6. Rileggi ciò che hai scritto vent’anni fa e hai l’impressione di avere che fare con un estraneo, con una persona che non esiste più.
7. Le cose che non t’importano più che tanto ti vengono facili: sei diventato un vero professionista.
8. Ogni volta che ti metti a lavorare su quel romanzo al quale stai lavorando da otto anni, finisce che ti metti a piangere.
9. Ti domandi sempre più spesso se quello che scrivi potrebbe fare del male a qualcuno che ti è caro.
10. Non sei felice.


Dieci buone ragioni per continuare a scrivere:

1. Ne hai voglia.
2. In fondo, finora ti è venuto benino.
3. Ti sembra che dire e ridire sempre le stesse cose sia come penetrare in un luogo misterioso a perdita d’occhio, dove si scoprono ogni volta cose vecchie e cose nuove.
4. Provi molta gratitudine verso certe opere che hai lette, e che – così ti pare – ti hanno fatto del bene.
5. Continuano a venirti in mente immaginazioni di opere che potresti fare, da solo o con altri, o addirittura far fare ad altri: non sei più uno scrittore ingenuo, lavori per progetti.
6. A volte, mentre scrivi, ti emozioni.
7. A volte, mentre scrivi, hai la sensazione di essere un atleta che prova e riprova sempre la stessa acrobazia, nella speranza di realizzare l’esecuzione perfetta – o di ripetere l’esecuzione perfetta, quella che gli capitò per caso il 17 febbraio 1991.
8. Quando ti càpita di leggere quello che scrivevi tanti anni fa, ti accorgi che c’erano in te del bene e del male che oggi sono diventati invisibili: e tu vuoi vederli.
9. Immaginare il mondo è l’unico modo che possiedi per saperne qualcosa.
10. Sei giunto alla disperazione calma, senza sgomento.


Fonte: http://vibrisse.wordpress.com

06/01/13

Fate

Credo sia necessario credere nelle fate,
non fosse altro che per quella diceria
della morte, no,
non vorrei mai essere colpevole di un omicidio,
neanche ferire se possibile e poi,
e poi non costa nulla
che "in questi tempi di crisi"... 

credo sia necessario credere nelle fate
che poi mi è capitato anche di incontrarle
ma loro mica sapevano di esserlo,
fingevano forse,
e io le guardavo un po' intimidito
che una fata,
sì, una fata è sempre un bel mistero
da affrontare,

credo sia necessario credere nelle fate
magari anche sognare, ogni tanto, di poterle avere
accanto,
inventando per loro una magia
o semplicemente sorridendo
di un loro sorriso,
per un loro sorriso
rinnovare l'incanto.

05/01/13

Pippo Fava (Palazzolo Acreide, 15-09-25 – Catania, 05-01-84)

« Io ho un concetto etico del giornalismo. Ritengo infatti che in una società democratica e libera quale dovrebbe essere quella italiana, il giornalismo rappresenti la forza essenziale della società. Un giornalismo fatto di verità impedisce molte corruzioni, frena la violenza della criminalità, accelera le opere pubbliche indispensabili, pretende il funzionamento dei servizi sociali, tiene continuamente allerta le forze dell'ordine, sollecita la costante attenzione della giustizia, impone ai politici il buon governo. »
(Pippo Fava, Lo spirito di un giornale)

04/01/13

03-01



Sono quasi le venti e la stanza è tornata buia.
Spezzo il fascio di luce che proietta l'orario sul muro. L'azzurro passa tra le dita, lo blocco con il palmo e poi l'afferro stringendo la mano a pugno. Credo siano già passati dieci minuti dall'inizio del gioco o forse solo pochi secondi, non so, smetto. Tra poco suoneranno alla porta e raccatterò le mie due pizze sul pavimento del pianerottolo. Due margherite già pagate ad inizio mese, come quelle già arrivate, come quelle che ci saranno.
Due margherite per stasera e poi per domani anche, prima che il campanello suoni nuovamente.
Sul tavolo le briciole di quelle di ieri. Passo il gomito sul legno laccato per far cadere tutto a terra, lascio i cartoni con le nuove pizze e poi riempio la brocca dell'acqua. Iniziano già a diventare fredde, apro una scatola e taglio delle grosse fette untuose che ripiego prima di portare alla bocca.
Glu, gnam, glub, bevo, mastico e ingoio velocemente tutto poi ripongo la pizza ancora nel cartone e quello che è rimasto dell'altra nel frigo.
Sono gesti ormai standardizzati, questi, gesti che mi salvano.
Ora collegherò il computer al televisore e mi vedrò un film, prima però sarà necessario eliminare l'audio, pigiare un tasto del lettore mp3 e far partire qualcosa a caso, prima di provare anche questa notte a dormire, prima di sognare qualcosa che anche questa volta non ricorderò, non farò.

03/01/13

02-01


Lo specchio rimanda il volto di un uomo barbuto, grugnisco prima di lanciarmi in mille smorfie senza senso. Quando abbasso la testa l'acqua inizia finalmente ad essere più calda e posso indagare con le dita la crepa sul lavabo, il bordo sempre più grigio.
Non faccio in tempo a sciacquarmi il viso, una serie di borbottii poi di nuovo acqua gelida e freddo dentro le mie ossa. Maledico il tempo, il padrone di casa e accendo una sigaretta seduto sul cesso. A terra qualche rivista, la settimana enigmistica, il reader per i libri volantini pubblicitari.
Porto la sigaretta tra il pollice e l'indice e aspiro profondamente, a lungo, mentre mi libero. Non ho voglia di leggere, cosa leggere poi? Non ho più una lingua, sento di non avere più nessuna lingua e non mi va di tradurre tutto.
Mi alzo e mi piazzo sotto la doccia, conosco i tempi della caldaia, conosco i suoi capricci: tre minuti esatti poi borbotterà di nuovo. E mi toccherà chiudere, attendere. Intanto provo ad ustionarmi sotto quel flusso, immobile, ritto al centro del magico quadrato.
“I scream, you scream, we all scream, for ice cream!”. Inizio ad urlare al primo getto freddo. “I scream, you scream, we all scream for ice cream!”. Urlo e batto i piedi, lo faccio fin quando resisto, poi resto solo un Benigni di terz'ordine in cerca di una pezza pulita. “I scream, you scream, we all scream for ice cream!”.
Trovo una vecchia maglietta dietro il bidet, sembra asciutta, credo vada bene.

02/01/13

01-01


E' il primo gennaio: 10 ore, quattordici minuti e trentasette secondi dopo la mezzanotte. Sono sveglio, lo sono da circa quattro ore poiché erano le sei, tre minuti e ventisette secondi quando ho sentito i primi rumori e ho aperto gli occhi e cazzo stava solo sognando e la stanza era la mia stanza, il letto il mio letto e anche la macchia sul soffitto era la stessa e il fascio di luce dell'orologio spezzava ancora i colori sul muro e quella cazzo di vicina continuava a pulire, a sbattere i tappeti, a spostare i mobili come ogni giorno, come ogni anno, come sempre. Ore sei di un fottutissimo giorno qualunque.
Il letto rimanda il mio odore e il cuscino a terra ha piccole macchie di sangue e saliva. Chiudo gli occhi. 10 ore, sedici minuti e quarantacinque secondi. Ho freddo, indosso in fretta la felpa e la tuta e vado a preparare il caffè. Nel frigo la miscela si conserva bene. Un leggero profumo nell'aria prima di mettere la moka sul fornello e correre a pisciare. Cosa stavo sognando? Non ricordo mai i sogni, non che me ne dispiaccia molto, evito in questo modo fantasie e deliri, ma a volte vorrei sapere, non trovarmi come ora con un'eiaculazione notturna senza poter ringraziare nessuno, senza sapere se eri tu. 
"Che fretta c'era..." canticchio dietro la voce di una cover della Goggi trasmessa sulla radio digitale in tv e cerco i biscotti, "...maledetta primavera" sono rimasti solo quelli dell'ultimo viaggio a casa, quelli a forma di esse, quasi tutti spezzettati, briciole. Ricordo, li ho scartati tutti in questi giorni e "Che fretta c'era..." non importa, n o n  i m p o r t a. Afferro la busta di plastica e verso in bocca il contenuto prima del caffè, prima di scottarmi, ancora una volta, ancora. "...lo sappiamo io e te".

01/01/13

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