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31/01/12

Parole con scie (incontri sulla poesia) - 4 -

C'è chi insegna
guidando gli altri come cavalli
passo per passo:
forse c'è chi si sente soddisfatto
così guidato.

C'è chi insegna lodando
quanto trova di buono e divertendo:
c'è pure chi si sente soddisfatto
essendo incoraggiato.

C'è pure chi educa, senza nascondere
l'assurdo ch'è nel mondo, aperto ad ogni
sviluppo ma cercando
d'essere franco all'altro come a sé,
sognando gli altri come ora non sono:
ciascuno cresce solo se sognato.

Danilo Dolci, Il limone lunare, Laterza,1970

Ho avuto la fortuna di assistere a delle lezioni del poeta Antonio Nesci; se la mia realtà didattica, in questo contesto, vive soprattutto nell'affidarmi a voci diverse dalla mia, la vera forza degli incontri di Nesci credo stia nel suo essere un magico affabulatore. Ho ascoltato poche sue lezioni, ma, naturalmente, ho seguito con estrema attenzione e voglia di imparare ogni suo gesto, ogni sua parola.
Far bottega... credo che nulla sia così importante come l'imparare a copiare a scuola. Fra tante, troppe, attività svolte penso sarebbe bello pensare a momenti in cui fosse possibile copiare platealmente. Copiare il famoso e il meno famoso, il facile ed il difficile, l'oscuro e l'incomprensibile, riscrivere  come giovani amanuensi ciò che si vuole, che si trova, che si ha. Affidarsi magari dapprima al casuale errore per approdare poi lentamente a un proprio stile. Assorbire, discostarsi, personalizzare.
Per questo, nelle mie "lezioni",  ho sempre pensato che il primo compito sia quello di leggere e soprattutto  far leggere poesie, tutte le poesie possibili nel tempo concesso,  ma magari di questo parlerò dopo... dicevo, invece, dei maestri e se Nesci è stato un esempio, arrivato però dopo il mio "battesimo" sul campo, la preparazione "teorica" dei miei incontri è nata soprattutto dall'incontro, anche questo successivamente "fisico", con Bruno Tognolini  e dalla lettura e rilettura di stralci di un incontro avuto da  Danilo Dolci. con alcuni studenti di un liceo siciliano.
Danilo Dolci e Peppino Impastato
Fonte: RadioMarconi


29/01/12

29 ways to stay creative / 29 modi per rimanere creativi




1. CREA UNA LISTA


2. PORTA UN'AGENDA DOVUNQUE


3. PROVA A SCRIVERE LIBERAMENTE


4. STAI LONTANO DAL COMPUTER


5. SMETTILA DI PIANGERTI ADDOSSO


6. FAI PAUSE


7. CANTA SOTTO LA DOCCIA


8. BEVI MOLTI CAFFE'


9. ASCOLTA NUOVA MUSICA


10. SII APERTO


11. CIRCONDATI DI PERSONE CREATIVE


12. RICEVI UN FEEDBACK


13. COLLABORA


14. NON RINUNCIARE


15. PRATICA


16. CONSENTI A TE STESSO DI FARE ERRORI


17. VAI IN POSTI NUOVI


18. RENDITI CONTO DELLA TUA FORTUNA


19. FAI RIPOSINI


20. CERTEZZA O RISCHIO ??? RISCHIA !!!


21. ROMPI GLI SCHEMI


22. NON FORZARTI


23. LEGGI UNA PAGINA DEL DIZIONARIO


24. CREA UNA STRUTTURA


25. SMETTILA DI VOLER ESSERE PERFETTO AGLI OCCHI DI QUALCUN ALTRO


26. HAI UN' IDEA ??? SCRIVILA SUBITO !!!


27. PULISCI IL TUO SPAZIO DI LAVORO


28. DIVERTITI


29. PORTA SEMPRE A TERMINE CIO' CHE INIZI 



Fonte traduzione: MyLEMON Creativity & Strategic Communication

28/01/12

Parole con scie (incontri sulla poesia) - 3 -

Esploro i sorrisi imbarazzati che accompagnano il video, i bimbi sempre più sembrano non abituati alla vecchiaia, alla naturale decadenza del corpo; eppure è proprio quel faticoso ricordare che mi permette di associare la poesia al vivere, di iniziare la discussione. E' dai versi  della "nonna" che diventa possibile trovare la strada, spiegare la forza del suono, risalire al ricordo tribale, al canto. La poesia come necessità della lingua, come presente e ricordo, vita.
Certo non sempre avviene, sono così tante le variabili: una mattina un po' grigia, la verifica da fare o già fatta, la lezione da ricordare, il film visto fino a tardi davanti alla tv o la festa della sera prima. Insomma a volte è necessario aggiungere anche qualcos'altro, continuare a giocare.








Quasi nulla è nei loro ricordi, ma bisogna tener conto che anche il sottoscritto ha necessità di sorridere, di partecipare e poi rapido (che subito monta la rivolta, la distrazione) aggiungo anche questo:






Siam quasi pari ora. Pronti a confrontare le trappole in cui felici ci siamo fatti imbrigliare:

Fonte Immagine: nº 30 del 22 luglio 1984 del Giornalino


Bene, ora posso rifare le domande iniziali, vedere nascere i loro dubbi, chiedere, domandare. E' il momento di ascoltare le conte, le filastrocche, le rime dimenticate che tornano ad affiorare.
E' questo, anche, il momento dei mattoncini, i volumi che dall'inizio dell'incontro giacciono quasi come dimenticati accanto al computer.
I libri che porto sono tra i pochi che possiedo da quando ho iniziato la mia vita di emigrante, ma credo vadano bene lo stesso. Vado per opposti, nei miei incontri, mi serve per semplificare. Un uomo e una donna (Montale e Pozzi), famosi e sconosciuti (un'antologia del '900 e una di un concorso), rime per giocare e per pensare (rime un po' bislacche sulle tabelline e una raccolta di Piumini).
Quando distribuisco i libretti, dopo averli presentati, cerco di affidarli secondo quello che dei ragazzi ho iniziato a immaginare. Ecco questo va contro tutte le indicazioni pedagogiche, ammetto, e già immagino accenni amareggiati a Watzlawick, all'effetto pigmalione, ma continuo a far così e a me stesso rispondo: "non in queste lezioni",  "non in questo contesto".
Naturalmente la consegna è quella di far girare le pagine tra la classe, ma so già che qualcuno di quei libri resterà un po' di più tra mani curiose, anzi mi auguro che ciò avvenga o che almeno sorgano proteste per non aver potuto toccare tutto.
Inizia qui veramente, credo, il mio percorso.

Roberto Roversi



Il post che segue è tratto da: Roberto Roversi, ottantanove anni di cultura italiana su Pupi di Zuccaro

Oggi è il compleanno del grande Roberto Roversi. Riporto qui una nota di pochi giorni fa scritta dall’editore Luca Sossella, e l’intervista al poeta bolognese fatta da Michele Smargiassi per la Repubblica lo scorso giugno.



Ho incontrato (la prima volta) Roberto Roversi nel settembre del 1977 a Bologna in via Castiglione, nella sua libreria Palmaverde. Bologna bruciava. In centro. Se uno si prendeva la briga di andare a Osteria Grande, faccio per dire, poteva notare che nessuno si era accorto di nulla. Io avevo vent’anni, Roversi cinquantaquattro. La mia età di oggi. Siamo nati lo stesso giorno, il 28 gennaio. Sabato compirà ottantanove anni. Nel 2008 abbiamo pubblicato una edizione in mille copie di Tre poesie e alcune prose, le “tre poesie” del titolo (da lui voluto con forza, ma c’è qualcosa che Roversi non voglia con forza?) sono i suoi tre libri più importanti di poesia Dopo Campoformio (nella versione 1965), Le descrizioni in atto (1969-85) e i versi riuniti nel Libro Paradiso (1993). Vi sono inoltre due estratti dai romanzi Registrazione di eventi (1964) e I diecimila cavalli (1976), e una mia scelta di suoi scritti (tra 1959 e 2004) dal titolo Materiale ferroso. Sono felice di apprendere oggi, a inventario chiuso, che rimangono solo 226 copie del libro. Il punto di pareggio era a settecento copie, quindi l’edizione ha realizzato un ricavo superiore alle spese. Lo vedete che la buona poesia paga! E’ la cattiva che si fa pagare…
L’anno scorso gli avevo proposto di fare una lettura di suoi testi, non da parte sua, ovvio, ma da parte di coloro che hanno dei debiti nei suoi confronti. Mauro Felicori, all’epoca direttore dell’assessorato cultura, aveva reso possibile la lettura ad alta voce in un luogo che io avevo sognato, la Sala Borsa, spazio molto bello in piazza Maggiore. Non se ne fece nulla, malauguratamente ebbi l’idea di mettere a parte Roberto dell’iniziativa. Le sue armi dissuasive sono più precise del raggio laser. La faremo più avanti. Per il suo centesimo compleanno, nel 2023.


“Troppo bianchi questi muri”. Per 65 anni nessuna parete attorno a Roberto Roversi mostrava l’intonaco: solo dorsi di libri. Ma adesso, dall’appartamentino che condivide con la moglie Elena, collaboratrice d’una vita, al quarto piano di un palazzone assediato dai kebab, i libri sono quasi spariti. Annuisce, malinconico e sorridente, appoggiato al bastone, la candida barba risorgimentale arcuata alle punte come un monumento: “Quattro anni, la nostalgia si sente”. Il poeta libraio oggi ottantasettenne, il severo patriarca bolognese, amico e ospite di una generazione di grandi intellettuali italiani, l’eclettico autore di poemi, di prosa civile, teatro, di dischi pop con Lucio Dalla, ha ceduto nel 2007 la sua tana, la libreria antiquaria Palmaverde, ma da pochi giorni si è privato anche di gran parte della sua biblioteca personale: donata alla libreria Coop Ambasciatori, che l’ha messa all’asta volume per volume, versando il ricavato ai senzatetto. Solo qualche superstite nello studio, “ma li ricordo tutti, i libri della mia vita”.
Quali ha tenuto con sé?
Ma è ovvio, quelli che devo ancora leggere. E anche quelli che voglio rileggere come se fossero nuovi.

È giusto rileggere?
A volte indispensabile. Manzoni letto a vent’anni è intollerabile, a cinquanta comincia già a migliorare, a ottanta è eccellente, lo leggi come guarderesti un paesaggio dall’alto.
E poi?
Qualche classico del Novecento e quelli dei miei vecchi amici: Vittorini, Bassani, Calvino, Volponi… Mi sono necessari per leggere tutto il resto, sono come un machete nella foresta tropicale.
Quanti libri le sono passati per le mani?
Lo so per certo: trecentomila. Come Palmaverde abbiamo pubblicato 225 cataloghi da oltre mille titoli ciascuno, più i miei personali e quelli che tenevo per i clienti speciali.
I suoi amici scrittori?
Oh no, loro non compravano. Quando riunivo in libreria la redazione di Officina, con Pasolini, Sciascia, Scalia, Leonetti, erano battaglie senza sangue tra cervelli aguzzi che io ascoltavo con ammirazione: ma non capitava mai che qualcuno di loro buttasse un occhio agli scaffali che ci circondavano, silenziosi, gremiti e attenti come palchi di un teatro. E se per caso qualcuno manifestava una certa attenzione per un volume poggiato sul tavolo, era solo perché glielo regalassi… Così preferivo anch’io che non li guardassero troppo, i libri.
E Lucio Dalla li guardava i libri?
Un uomo colto, ma in libreria non avevo un giradischi, così per parlare delle nostre cose musicate mi veniva spesso a prendere in macchina e giravamo sui colli ascoltandole con l’autoradio. Diceva che avrebbe musicato anche l’elenco del telefono, se lo avessi scritto io. Poi giustamente s’accorse che le cose che scriveva da solo vendevano cento volte di più delle nostre.
Insomma tanti intellettuali, nessun cliente?

Sciascia era interessato solo alle stampe. Fortini una volta mi chiese di procurargli uno studio sul Tasso, poi però lo trovò troppo caro e non lo comprò. Ma non è colpa loro, capisce. I grandi intellettuali, i libri sono abituati a riceverli in regalo. Non li cercano più, sono i libri che cercano loro.
Chi sono stati allora i clienti migliori?
Quelli inimmaginabili. Come il parroco Sales, che dall’Aspromonte mi ordinò una prima edizione del Wittgenstein. Per il libro non c’è mai destino avverso, ognuno prima o poi trova il suo lettore. Anche se verrà superato dalla giusta aggressione delle tecnologie, il libro non morirà mai.


Il suo primo acquisto?
Mio padre era un radiologo, andavo da lui in corsia tutti i lunedì per vedere i giocatori del Bologna infortunati. Voleva che facessi il medico come lui, mi teneva controllato. E io, ora posso confessarlo, gli rubavo cinque lire dal portafogli per andare a comprare di nascosto la Storia del teatro di D’Amico, che usciva a dispense. Un furto agreste, per necessità… Poi non smisi più di comprare. Quando sposai Elena, il nostro letto nuziale praticamente si reggeva sui libri.
Quali preferiva comprare?
I libri-cane. I più umili, bastardi, stazzonati, mogi, randagi, me li portavo a casa e dopo una cura di coccoina e cartone tornavano allegri a scodinzolare.
Si affezionavano, ma lei li rivendeva ad altri padroni…
Vendere i libri, mi creda, è la parte più dolorosa del mestiere di libraio. Tra i miei libri di casa e quelli di libreria non c’è mai stato un confine vero. Ogni libro che partiva era una perdita inesorabile. E quante volte, venduto un titolo, mi sono messo subito a cercarne uno identico per riempire il vuoto.
La sua è sempre stata una libreria senza vetrina.
Tranne un breve periodo in via Caduti di Cefalonia, ma quelli che mettevamo in vetrina non si vendevano mai… Io mi sono sempre occupato personalmente delle spedizioni, facevo pacchi robustissimi. Un cliente giapponese mi scrisse estasiato per come gli avevo imballato una Treccani, un volume per volta con carte di colori diversi, volevo rivaleggiare con l’armonia del Sol Levante. Dai libri che partivano per l’estero, che dovevano affrontare un viaggio lungo e periglioso, mi congedavo con un rito speciale: scrivevo una piccola poesia per loro e la infilavo fra le pagine.
Vuol dire che in Canada o a Singapore ci sono bibliofili che possiedono autografi inediti di Roversi e magari non lo sanno?
Io ne ho copia, guardi qui [sfoglia un'agenda del '95 piena di poesie scritte a mano e di foto di biblioteche. ndr.], sono poesie che non ha mai letto nessuno tranne me e il destinatario. Erano viatici. I libri sono individui, parlano, cantano, profumano, si muovono secondo il vento e le stagioni. Quel che rimpiango di più è non aver abbastanza forza nelle gambe per andare in una libreria, aspirarne l’odore come quando si entra in un bosco, scaffali come alberi e libri come foglie, perché i libri non sono corpi morti…
Lei ricorda Kien, il bibliomane di Autodafé di Canetti, che ascoltava i libri parlare fra loro di notte…
E cosa vuole che facciano i libri di notte? Immagini la biblioteca dell’Archiginnasio, in inverno, gelo e neve fuori, buio dentro, i libri disposti in ordine bizzarro, per altezza e dimensione, magari si trovano fianco a fianco due volumi incompatibili, si parlano, litigano, si sfidano a duello… Poi, la mattina, quando torna il bibliotecario, tutto è di nuovo in ordine.
Ne ha mai sorpreso qualcuno in flagrante?
Sicuro. Non bisogna mai fidarsi di loro. C’era quel Battaglini, lazzarone d’un libro, un in-quarto di argomento religioso, malconcia rilegatura di pergamena, io non avevo tempo per ripararlo, ma lui era impaziente, anche un po’ arrogante, allora lo sistemai per punizione in uno scaffale molto alto. E la carogna si vendicò: un bel giorno si buttò da lassù mentre passavo, mi colpì sulla spalla, per fortuna, se mi avesse preso in testa non sarei qui a raccontarlo. Lo vendetti subito, a poco prezzo, così com’era. Il nostro rapporto si era spezzato irrimediabilmente.
Sanno essere perfidi, i libri.
Ma anche provvidenziali. Al fronte, nel ’44, dopo il mio battesimo del fuoco, ero perso, disperato, sul punto di scappare, la sera sotto un covone di paglia mi tastai la giubba e trovai due libriccini che non ricordavo di avere preso, scelti perché stavano in tasca. Uno era Goethe, lo aprii a caso e lessi due versi: “Se l’inverno viene, può la primavera essere lontana?”. Quel libro mi salvò dalla fucilazione per diserzione.
E i suoi libri? Quelli scritti da lei?
Non so che sorte avranno… Forse la pattumiera della storia. Si sente odore di fumo nell’aria, la carta è riciclabile.

Posso definirla un poeta civile?
Ho cercato di essere il poeta che spiega a se stesso le ragioni che condizionano le scelte del tempo, e così le rende visibili agli altri. Scrivere delle mie rogne private non mi interessa.
Continua a scrivere?
[Risponde Elena]: Come un matto. Dovresti fare almeno un giretto in corridoio ogni tanto. [Lui] Scrivo finché ho fiato in bocca. Sa cosa disse Sklovskij, la mia bibbia? “Il socialismo non c’era ancora, bisognava scrivere molto”. Tenga, questo è l’ultimo, L’Italia sepolta sotto la neve, parla di questi nostri anni di deserto freddo. Sono cinquecento pagine da schiudere col tagliacarte: le serviranno dodici minuti in più ma sono minuti preziosi per il pensiero. L’ho stampato in trentadue copie, non lo vendo.
Come tutti i suoi periodici-samiszdat degli ultimi decenni…
Certo, il “Foglio degli eremiti”, “Fischia il vento”, “Gioco d’azzardo”… Non distribuiti ma liberamente mandati. Preferisco così, oggi che anche l’opposizione politica ha delegato ai comici l’obbligo di parlare della realtà. Non li legge nessuno, questi miei versi? Pazienza, io li scrivo, perché tacere è morire.

27/01/12

26/01/12

Parole con scie (incontri sulla poesia) - 2-

Naturalmente la foto è solo quasi un pretesto, un palese trucco per avviare la costruzione del cerchio a partire da un sorriso. Una piccola sigla per annunciare il programma.
Ecco, ora mi sono presentato ed allora non tocca che presentare il mio percorso. Quasi sempre chiedo se conoscono il motivo della mia presenza. Guardo loro, guardo le maestre e generalmente traccio la strada.
“Cosa è una poesia? Come è fatta? E chi è che scrive le poesie? E come è fatto un poeta? Alto, grasso, vecchio, magro, ragazzo?”
Mi aggiro tra i banchi e scandisco bene le parole, le mani iniziano ad alzarsi, ma qualcuno non attende e butta giù la risposta; io faccio finta di non sentire, non ora almeno. Le risposte sono quasi sempre le stesse. “Quelle che studiamo a scuola”, “Gli scrittori”; “I poeti”, “Quelle del libro”, “Le filastrocche”, “Sono morti”, “Sono vecchi” “Sono maschi”. Ecco quasi sempre è questa evenienza che mi sorprende, per tantissimi bimbi i poeti sono solo uomini. Quando si esaurisce il ripetersi delle risposte sono pronto a lanciare sulla lavagna le mie piccole ricerche.



Già qui i volti iniziano ad illuminarsi, qualcuno sottovoce inizia a tentare un timido karaoke, senza farsi notare troppo però. Ci tengono tanto i bimbi alla loro immagine, è questa è una canzone dei piccoli. Ecco allora che, perfidamente, faccio partire quest'altro video.



In effetti non mi serve ad altro che ad introdurre l'ultimo video prima di ritornare a parlare con loro, la magica filastrocca dei mesi.

25/01/12

Illusioni, seduzioni e trucchi

La seduzione è sempre frutto di un’illusione. Lo sanno bene gli uccelli giardinieri che per sedurre le femmine costruiscono complesse strutture, simili a pergolati, costituite da una galleria con le pareti e il pavimento fatti di pagliuzze intrecciate che termina in una corte di conchiglie, ossa e ciottoli di colore grigio (collettivamente definiti “gesso”) disposti in modo tale da creare un’illusione ottica che renda più grandi gli oggetti al suo interno. [...]

La geometria delle corti è quella, spiegano i ricercatori, che crea l’illusione. I componenti del gesso vengono infatti disposti secondo uno schema preciso: quelli più piccoli a ridosso dell’uscita della galleria e sempre più grandi man mano che ce ne si allontana. La disposizione del gesso in ordine crescente di dimensioni fa sembrare invece gli oggetti che lo compongono tutti della stessa misura, creando un’illusione ottica, detta di “prospettiva forzata”, la quale si verifica ogni volta che la relazione naturale tra la distanza di un oggetto e la sua dimensione è violata. Questo fa sì che a un osservatore che si trova nella galleria la corte appaia più piccola e dunque gli oggetti che vi si trovano, più grandi.

Tale effetto viene sfruttato dal maschio di uccello giardiniere, che durante il corteggiamento mostra alla femmina piccoli oggetti colorati, come frutti o fiori, i quali appaiono più grandi a causa dell’illusione, nonché risaltano sullo sfondo grigio uniforme del gesso, catturando più a lungo l’attenzione delle femmine. I maschi impiegano ore nella costruzione della corte, tali sforzi vengono tuttavia ripagati: il successo di accoppiamento degli uccelli giardinieri maschi sembra infatti avere una diretta relazione con la loro capacità di creare illusioni ottiche. Le femmine infatti, dopo aver visitato vari nidi così costruiti, tendono in effetti a prediligere per l’accoppiamento quei maschi i cui pergolati producono le migliori illusioni ottiche.

Fonti:
"Illusioni ottiche per sedurre il partner" da Galileo Giornale di scienza
"Gli uccelli giardinieri e l'arte della seduzione" da National Geographic Italia

24/01/12

Parole con scie (incontri sulla poesia) - 1-

Tra le tante cose che mi provocano imbarazzo e che subito fanno scattare in me il bisogno di ironia, la sacra necessità del minimizzare, vi sono certamente le qualifiche di Esperto e di Poeta.
Certo è bellissimo rendersi conto, a volte, di aver donato un'emozione, o anche solo un pensiero diverso, agli altri durante la loro giornata e, certo, ricordo ancora con commozione la prima volta che ho ascoltato uno dei miei accapo recitato a memoria da una voce che non era la mia, ma poeta è parola difficile da donare ed ancor più da portare.
La prima volta fu associata alla mia persona in uno strano modo.
Avevo deciso di superare il mio scetticismo verso qualsiasi forma di concorso o gara tra “poeti” e “poesie” e partecipato al più comodo dei percorsi verso la gloria: un invio telematico agli organizzatori, l'eventuale sede della premiazione vicino casa, la finta sicurezza di non essere scelto. Invece, bontà loro, i giurati decisero di inserire un mio lavoro nell'antologia pubblicata e io non potevo certo rinunciare al momento della premiazione, al goloso volumetto che mi attendeva. Il giorno fissato, azzimato e contento, mi diressi verso la prestigiosa sala universitaria che avrebbe accolto i vincitori. Mi fermai però prima ad un banchetto che precedeva quel luogo per chiedere informazioni, un simpatico capellone mi squadrò con fare esperto e, quasi non ascoltandomi, mi chiese, porgendomi un elegante volumetto, “Ma lei è un poeta?”.
Superata la frazione di tempo, l'attimo inconsapevole, in cui mi girai per vedere se la domanda fosse stata rivolta a qualcun altro posto alle mie spalle, la mia unica risposta fu solo un imbarazzato: "Non so...”
Sì, quelle due parole non mi appartengono molto, eppure in questi anni, entrando in tante classi per proporre un mio strampalato percorso di scrittura, non ho potuto che essere presentato dai colleghi come il maestro Dario, l'esperto di poesia e poeta.

Mi avvicino alla classe sempre prima che suoni la campana, mi piace vedere arrivare i ragazzi quando ancora per loro sono una figura anonima, un intruso nella loro aula, qualcuno con un valore di importanza prossimo allo zero. Sto in disparte, apparentemente disattento: estraggo i libri dalla mia borsa, collego la chiavetta alla lavagna elettronica... in realtà ne osservo i gesti, ascolto i brevi racconti fatti alla maestra, sorrido silenziosamente per le frasi scambiate tra loro. Credo che tutto questo mi serva per avere un'idea di quello che mi aspetta, ma forse è solo scaramanzia e poi non sempre quello che in seguito avviene si svolge come io lo avevo immaginato, quasi mai direi. Poi, dopo la presentazione ufficiale, mostro loro questa foto dicendo: "Eccomi"

21/01/12

Il disadorno arredo dell'amore

È questo bacio
il disadorno arredo dell'amore
- lo stretto sentiero sulla schiena
da segnare con il dito,
il sospiro sfuggito
senza aver voluto -

è ogni cosa
che senza noi è stata
- raccontata, vissuta, sognata -
 
ogni cosa
che con noi sarà.



Questo "accapo" partecipa al Premio Gigi Reder  come anche:
Sembrava un gioco - di lillina
California Dreamin'  - di melusina
Mi va di cantare  - di giodoc
Ho giocato a calcio - di hombre
Poi - di LaDonnaCamèl
Fatale - di MaiMaturo
We take care of our own - di Giodoc
Emozioni - di melusina
La banda degli ifoughtthelaw – di cielosopramilano


21 Gennaio 1921- Costituzione del Partito Comunista d'Italia


A Livorno si tiene il XVII Congresso del P.S.I. Il 21 gennaio al suo termine le tre diverse mozioni congressuali vanno ai voti: la mozione di Firenze (massimalisti) prende 98.028 voti, la mozione di Reggio Emilia (riformisti) 14.695 e quella di Imola (comunisti) 58.783. Questi ultimi abbandonano la sala e si riconvocano al Teatro San Marco per deliberare la costituzione del Partito Comunista. Quello qui di seguito è il manifesto con cui il nuovo partito ripercorre tutti i passaggi che hanno reso inevitabile la scissione.

Proletari italiani!
Nessuno di voi ignora che il Partito Socialista Italiano, nel suo Congresso Nazionale tenuto a Livorno, si è diviso in due partiti.
I rappresentanti di quasi sessantamila dei suoi membri sui centosettantamila che hanno partecipato al Congresso, si sono allontanati, e in un primo Congresso hanno costituito il nuovo partito: il nostro Partito comunista. I rimasti nel vecchio partito hanno conservato il nome di Partito socialista italiano.
Ciò voi avrete appreso, proletari tutti d'Italia, dalla nuda cronaca di questi ultimi giorni; ma tale nuova, che non appare ben chiara nelle ragioni che ne furono la causa a molti di voi, mentre essa tanto da vicino riguarda i vostri interessi ed il vostro avvenire, vi sarà presentata e commentata dagli interessati sotto una luce artificiosa e sfavorevole. E' perciò che il i° congresso del nuovo Partito ha sentito, come suo primo dovere, la necessità di rivolgersi a voi; e con questo manifesto vuole rendervi ragione del sorgere del nuovo Partito, perché vi stringiate intorno ad esso, accogliendolo come il solo e vero strumento delle vostre rivendicazioni, come il vostro Partito.
Richiamiamo, quindi, tutta la vostra attenzione su quanto abbiamo il compito di esporvi nel modo più chiaro, onesto e preciso.
Vi fu detto per molti anni che coloro i quali lavorano e sono sfruttati dalla minoranza sociale dei padroni delle fabbriche, delle terre, delle aziende tutte, devono tendere, se vogliono sottrarsi allo sfruttamento e ad ogni sorta di miserie, a rovesciare le istituzioni attuali che difendono i privilegi degli sfruttatori. Vi fu detto, a ragione, che questo scopo poteva raggiungersi solo col formarsi di un partito dei lavoratori, di un partito politico di classe, il quale doveva condurre la lotta rivoluzionaria di tutti gli sfruttati contro la borghesia, contro i suoi partiti, contro i suoi istituti politici ed economici.
Ma già prima della guerra in molti paesi, ed anche in Italia, i capi dei partiti proletari avevano cominciato a transigere con la borghesia, ad accontentarsi di ottenere da essa e dal suo Governo piccoli vantaggi, e sostenevano che, a poco a poco e senza lotta violenta, sareste, così, giunti a quel regime di giustizia, sociale ch'era nelle vostre aspirazioni.
Questi uomini erano anche nel Partito Socialista Italiano. Alcuni, come i Bissolati e i Podrecca, ne furono allontanati; altri però, come i Turati, i Treves, i Modigliani, i D'Aragona, ecc., vi rimasero, capi incontrastati nell'azione parlamentare e nelle organizzazioni economiche, anche dopo che la maggioranza del partito ebbe dichiarato erronee le loro teorie riformiste.
Guidata da costoro, o da altri meno sinceri, ma in fondo simili ad essi per pensiero e per temperamento, l'azione del partito non corrispondeva alle aspettazioni delle masse e alle esigenze della situazione. Venne la guerra del 1914. Come voi sapete, in moltissimi paesi i partiti socialisti, diretti da quei capi riformisti e transigenti di cui abbiamo detto, anziché opporsi energicamente alla guerra, divennero i complici del sacrificio proletario per gli interessi borghesi.
Ciò dipese sopratutto dal fatto che essi non capirono che la guerra era una conseguenza del regime capitalistico; che rappresentava il crollo di esso nella barbarie, e creava una situazione in cui i socialisti avevano il dovere di spingere le masse ad un'altra e ben diversa guerra, alle lotte rivoluzionarie contro la borghesia imperialista. Voi, proletari italiani, ricordate anche che il Partito Socialista in Italia tenne un contegno migliore di quello degli altri partiti socialisti europei; attraversammo un periodo di neutralità, durante il quale avemmo l'agio di meglio comprendere quale enormità fosse l'adesione dei socialisti alla guerra.
Ma quando si trattò di passare da un'opposizione verbale all'azione effettiva contro la borghesia italiana impegnata nella guerra, ad una propaganda in senso rivoluzionario, allora gli uomini della destra del partito ed altri ancora - anche e sopratutto quando il territorio italiano fu invaso - dimostrarono col loro contegno esitante tutta la loro avversione al metodo rivoluzionario.
A chiarire e precisare l'atteggiamento dei socialisti dinanzi alla guerra e alle sue conseguenze, venne la rivoluzione russa. Essa ci mostrò i socialisti russi divisi in campi opposti: mentre alcuni partiti e frazioni socialiste, che pure erano stati contro la guerra, propugnavano l'alleanza coi partiti borghesi, la continuazione della guerra, la limitazione delle conquiste rivoluzionarie alla costituzione di una repubblica democratica al posto del vecchio dispotico impero zarista; all'avanguardia del proletariato rivoluzionario si poneva un forte e cosciente partito politico: quello dei Bolscevichi, che ora é il grande Partito comunista di Russia.
I Bolscevichi avevano già il loro programma rivoluzionario. Essi fin dal 1914 avevano dichiarato che la guerra delle nazioni doveva volgersi in guerra civile rivoluzionaria del proletariato internazionale contro la borghesia; e nel 1917 sostennero che, data la situazione creata dalla guerra, non v'era altra soluzione che la dittatura del proletariato, da raggiungersi con la lotta rivoluzionaria, respingendo ogni alleanza coi partiti borghesi russi e colle borghesie estere dell'Intesa imperialistica.
I Bolscevichi e i lavoratori rivoluzionari russi col trionfo di questo loro programma attirarono l'attenzione dei lavoratori di tutto il mondo su importanti questioni nelle quali i riformisti di tutti i paesi avevano portato grande confusione. Eccole.
Il proletariato non arriverà mai al potere né alleandosi con partiti borghesi, né servendosi del suffragio elettorale per la conquista dei mandati elettivi nei Parlamenti. Solamente se il proletariato si impadronirà con la violenza del potere, spezzando le forme attuali dello Stato: polizia, burocrazia, esercito, parlamento, potrà costituire una forza di govemo organizzata, capace di operare la distruzione dei privilegi borghesi e la costruzione del regime sociale comunista.
In questo nuovo sistema di potere, al posto dei Parlamenti democratici vi é la rete dei Consigli dei lavoratori, alle elezioni dei quali partecipano solo quelli che lavorano e producono, e che la Russia ci ha mostrati per la prima volta nei Soviet.
Ma l'insegnamento più importante ancora della rivoluzione russa fu questo: che nella lotta decisiva per la conquista del potere proletario, quei socialisti riformisti, democratici, che, o furono per la guerra, od anche non seppero passare dalla opposizione alla guerra all'affermazione rivoluzionaria che la guerra aprì in tatto il mondo il periodo della lotta per la dittatura proletaria, tutti costoro nella lotta finale si alleano alla borghesia contro il proletariato. Se il proletariato vince, come in Russia, continuano la loro opera per sminuirne e distruggerne i successi d'accordo con le borghesie estere. Se, come in Germania e altrove, il proletariato é vinto, i socialdemocratici appaiono come gli agenti e i boia della borghesia.
Ed allora - altra conseguenza della rivoluzione russa - la nuova Internazionale, che deve sostituire la seconda Internazionale vergognosamente battuta nell'adesione alla guerra, deve sorgere su questa base: riunire non già tutti i socialisti che in qualche modo furono contrari alla guerra, bensì quelli che sono per la rivoluzione, per la dittatura proletaria, per la repubblica dei Soviet, come unica possibile uscita dalla situazione lasciata dalla guerra in tutti i paesi.
La nuova Internazionale infatti, sopratutto ad opera dei comunisti russi, si costituiva a Mosca, tenendovi nel marzo 1919 il primo suo Congresso mondiale.
Attraverso vicende che non è qui il caso di rammentare, ben presto si delineò una minaccia per la nuova Internazionale: l'invasione delle sue file da parte di elementi equivoci, usciti dalla seconda Internazionale, ma non completamente aderenti alle direttive comuniste.
Per ovviare a tale pericolo si riuniva a Mosca, nel luglio 1920, il II Congresso mondiale, il quale stabilì che ogni partito desideroso di entrare nell'Internazionale comunista dovesse, per essere accettato, dimostrare che la sua composizione e la sua attività corrispondevano al programma e al metodo comunisti.
A tale scopo il Congresso stabilì una serie di condizioni di ammissione, nelle quali sono contenuti i criteri a cui i partiti che entrano nell'Internazionale devono corrispondere.
Queste condizioni si applicano a tutti i partiti senza eccezione. Poiché, mentre la seconda Internazionale lasciava arbitro ogni partito aderente di seguire la tattica che meglio credeva - e fu quest'autonomia la causa principale della sua rovina - la III Internazionale é invece fondata sulla comunanza ai partiti di tutti i paesi delle fondamentali norme di organizzazione e di azione; le quali appunto figurano nelle 21 condizioni di ammissione.
Ciò non vuol dire che la III Internazionale ignori che in ciascun paese l'azione rivoluzionaria può presentare problemi speciali. Ma mentre nelle 21 condizioni è fissato il contegno dei partiti di fronte ai problemi più importanti che si presentano in tutti i paesi, il secondo Congresso stabiliva anche le tesi sui compiti principali dell'Internazionale, di cui la terza tratta delle modificazioni della linea di condotta e parzialmente della composizione sociale dei partiti che aderiscono o vogliono aderire all'Internazionale.
In queste tesi si parla di ciascun paese partitamente ed anche dell'Italia, che presentava questo speciale problema: la esistenza di un partito, che pur essendo stato contrario alla guerra ed avendo aderito a grande maggioranza alla III Internazionale, dimostrava tuttavia coi fatti un'evidente incapacità rivoluzionaria.
Abbiamo detto quale immenso valore abbiano avuto per i proletatri di tutti i paesi gli insegnamenti della rivoluzione russa. Quale utilizzazione se ne é fatta finora nel movimento proletario italiano?
In Italia si é molto parlato della rivoluzione russa, della dittatura proletaria, dei Soviet, della III Internazionale. Ma furono, in realtà, quegli insegnamenti, verso i quali si protendeva ansioso il nostro proletariato, efficacemente intesi ed applicati? Tutt'altro. Il Partito Socialista italiano accettò nel suo Congresso di Bologna il programma comunista, aderì alla III Internazionale. Si era nell'agitatissima situazione del dopo-guerra, che dura tutt'ora, e si parlò molto di rivoluzione nei comizi, mentre in realtà il partito non aveva mutato dopo la guerra, né mutò, col Congresso di Bologna, i caratteri tradizionali dell'opera sua, che seguitò a basarsi nel campo politico sulla pura azione inspirata da finalità elettorali. Né attraverso la guerra, né per effetto del Congresso di Bologna fu cambiato quello stato di cose per cui l'azione politica ed economica del partito era affidata alla destra riformista; e le conseguenze poterono essere constatate così nell'andamento della campagna elettorale politica e di quell'amministrativa, come nella piega che presero tutte le grandi agitazioni che scoppiavano in seno al proletariato italiano. Il partito, benché diretto da massimalisti, non fece nulla per togliere il monopolio della Confederazione del Lavoro ai D'Aragona, Baldesi, Buozzi, Colombino, Bianchi, ecc., la cui opera spesso si presentò come un indirizzo politico apertamente opposto a quello del partito, e praticamente si svolse attraverso continui compromessi con la borghesia, culminando nella famosa derisoria concessione giolittiana del controllo operaio.
Il Partito socialista italiano in conclusione rimase sostanzialmnete quello che era prima della guerra, ossia un partito un po' migliore di altri partiti della II Internazionale, ma non divenne un partito comunista capace di opera rivoluzionaria secondo le direttive dell'Internazionale comunista.
L'azione e la tattica dei partiti comunisti a questa aderenti devono essere ben diversi. I partiti comunisti hanno come loro finalità la preparazione ideale e materiale del proletariato alla lotta rivoluzionaria per la conquista del potere. Come mezzi per la loro propaganda, agitazione ed organizzazione, essi si servono dell'intervento nell'azione sindacale e cooperativa, nelle elezioni e nei Parlamenti, ma non considerano affatto le conquiste che si realizzano con queste azioni come fine a se stesse. Il Partito socialista italiano invece, lasciando dirigere queste azioni dagli uomini dell'ala destra o anche da uomini della sinistra che da quelli si differenziano soltanto per affermazioni verbali senza essere capaci di intendere la nuova tattica rivoluzionaria, non fece utile opera di preparazione rivoluzionaria, ed il suo massimalismo condusse soltanto a quella serie d'insuccessi e di delusioni ben noti a tutti i lavoratori, di cui la destra del partito, infischiandosi dell'impegno assunto di essere disciplinata a quell'indirizzo che la maggioranza aveva stabilito, si servì per deridere audacemente il metodo massimalista.
Per evitare tutto ciò non vi sarebbe stato che un solo mezzo: eliminare dal partito i riformisti, basandosi sulla loro avversione di principio al programma comunista, per poterli scacciare dalle loro posizioni squalificandoli innanzi a tutto il proletariato italiano come avversari della rivoluzione e della III Internazionale, come equivalenti dei Menscevichi russi e di altri controrivoluzionari esteri.
In questo modo la situazione italiana e l'andamento della lotta di classe tra noi vengono a confermare quelle esperienze internazionali, su cui si basano i comunisti per liberare il proletariato dai suoi falsi amici socialdemocratici.
Tutto ciò in Italia fu sostenuto dagli elementi di sinistra del partito, che andarono sempre meglio organizzandosi sul terreno del pensiero e del metodo comunista, ed intrapresero la lotta contro il pericoloso andazzo preso dal partito.
Lo stesso giudizio intorno alla situazione italiana fu espresso dal Congresso di Mosca e sancito nelle sue deliberazioni, richiedendosi in esse che il partito italiano si liberasse dai riformisti, e divenisse come nel programma così nella tattica, nell'azione e nel nome un vero partito comunista. Intanto i riformisti italiani, sempre più imbaldanziti dagli insuccessi del massimalismo che aveva apparentemente trionfato a Bologna, si erano organizzati in frazione «di concentrazione socialista» col loro convegno di Reggio Emilia dell'ottobre 1920.
Tutti i comunisti italiani che, al di sopra di singoli apprezzamenti tattici, accettavano la disciplina internazionale alle deliberazioni di Mosca, si costituirono in frazione, e nel convegno di Imola del 28-29 novembre 1920 decisero di proporre al Congresso del partito una mozione, che oltre al comprendere l'applicazione di tutte le altre decisioni del Congresso di Mosca, stabiliva che il partito si chiamasse comunista e che tutta la frazione di «concentrazione» dovesse essere esclusa.
L'organo supremo dell'Internazionale comunista ossia il Comitato esecutivo di Mosca, approvò ed appoggiò tale proposta.
Intanto nelle file del partito, da parte di coloro che tanto facilmente si erano proclamati massimalisti e avevano inneggiato a Mosca quando si trattava di andare ai trionfi elettorali, si organizzò una corrente unitaria, venendo così a costituire una frazione di centro che si opponeva alla 'divisione tra comunisti' e riformisti.
I capi di questa tendenza si dicevano comunisti, ma oggi che essi hanno dimostrato coi fatti di tenere più ai riformisti e ai controrivoluzionari, come Turati e D'Aragona, che ai comunisti e alla terza Internazionale, riesce evidente che essi costituiscono la peggior specie di opportunisti. Infatti costoro nel recente Congresso di Livorno, capitanati da G. M. Serrati, hanno respinto le precise disposizioni del Congresso mondiale dell'Internazionale comunista, trascinando la maggioranza del Congresso a decidere che i riformisti restassero nel partito, tutti senz'alcuna eccezione.
Tale atto inqualificabile - voluto da pochi capi che hanno saputo speculare sull'inesperienza dei gregari - ha preparato questa logica conseguenza: l'espulsione del Partito socialista italiano dall'Internazionale comunista.
Dinanzi a tale situazione la frazione comunista ha senz'altro abbandonato il Congresso ed il Partito, ed ha deciso di costituirsi in Partito comunista d'Italia - Sezione dell'internazionale comunista.
Così i sedicenti «comunisti» della frazione'unitaria serratiana, per restare uniti ai quindicimila riformisti dell'estrema destra, si distaccano dall'Internazionale comunista, ossia dal proletariato rivoluzionario mondiale, e da sessantamila comunisti iscritti al partito, con i quali è solidale tutto il movimento giovanile, forte di più di cinquantamila iscritti. A voi, o lavoratori, giudicare il contegno di costoro, a voi il dire quanto essi siano comunisti, quanto abbiano a cuore le sorti della rivoluzione proletaria.
Gli «unitari» hanno tentato e tentano di far apparire dovuto ad altre e sciocche ragioni il loro distacco dall'Internazionale comunista. Essi affermano che noi avremmo avuto il torto di volere applicare troppo rigidamente gli ordini di Mosca che, secondo loro, non corrisponderebbero alle esigenze della situazione italiana.
A ciò noi rispondiamo che l'Internazionale sarebbe una vana parola e nulla più, se non fosse organizzata sulla base della disciplina. Come le sezioni di un partito devono essere disciplinate alla direzione centrale, così i partiti devono esserlo rispetto all'Internazionale. In secondo luogo non si tratta di ordini personali di Lenin o di altri capi del movimento russo, ma delle decisioni di un Congresso, al quale hanno partecipato rappresentanti di tutto il mondo, tra cui cinque italiani, quattro dei quali hanno accettato le decisioni relative all'Italia, coll'opposizione del solo Serrati.
Quei compagni, come tutti i comunisti italiani, come tutti quei lavoratori italiani, che ogni giorno sentivano affievolirsi la loro fiducia nel vecchio partito, pensavano che le decisioni di Mosca rispondessero ad un maturo esame ed alle vere esigenze della situazione italiana.
Se i comunisti (?) unitari pensano che quelle decisioni non sono convenienti per l'Italia, è perché essi hanno un concetto della rivoluzione che contraddice alle direttive di principio del comunismo internazionale, al pensiero di tutti i veri comunisti del mondo, siano essi italiani, americani o cinesi. Esistono in tutti i paesi coloro che pensano come gli unitari italiani: asseriscono cioè di essere per il comunismo e per la terza Internazionale, ma nella pratica rifiutano di eseguire le decisioni dell'Internazionale, col pretesto che non sono applicabili alle condizioni particolari del loro paese. E sono appunto questi gli avversari più insidiosi dell'Internazionale.
Un'altra bugia degli unitari è l'asserzione che le concessioni a loro rifiutate nell'applicazione delle 21 condizioni siano, invece, state accordate dall'Internazionale ai compagni di altri paesi e sopratutto della Francia. La verità è del tutto opposta. Il Partito socialista francese nel recente Congresso di Tours si è dichiarato nella sua maggioranza per l'adesione a Mosca, però la mozione della maggioranza conteneva alcune riserve, tra cui quella di conservare nel partito la minoranza centrista. E' falso che il Comitato esecutivo dell'Internazionale abbia accettato queste riserve. Al contrario, esso inviò al Congresso di Tours un energico telegramma, richiedente l'espulsione dei centristi e l'applicazione integrale delle condizioni di ammissione. La maggioranza del Congresso accettò disciplinata il contenuto del messaggio dell'Esecutivo. Invece gli unitari italiani si sono ribellati alle disposizioni dell'Internazionale, alla quale, a differenza dei Francesi, già erano aderenti. Abbiamo avuto così il primo caso di un partito che abbandona l'Intemazionale dopo esservi entrato a bandiera spiegata: negli unitari italiani la terza Internazionale può così registrare i primi suoi rinnegati.
Costoro accampano ancora il proposito di ricorrere al Comitato esecutivo ed al Congresso prossimo dell'Internazionale comunista, per ottenere di essere riconosciuti come tutt'ora aderenti. Poiché in ogni paese non può esservi che un solo partito aderente a Mosca, l'Internazionale dovrebbe per riconoscere gli unitari ripudiare il nostro partito e sconfessare l'atteggiamento da noi tenuto, cosa evidentemente assurda e stranamente contraddicente alla famosa, affermazione espressa da Mosca.
Il nostro Partito comunista è e resterà l'unica Sezione italiana dell'Internazionale comunista. Chi non é col nostro partito, sia esso un borghese od un aderente al vecchio partito socialista, é fuori ed é contro la terza Internazionale. I membri del vecchio partito che, con mille menzogne, sono stati indotti a pronunziarsi per la tesi unitaria e ai quali si é promessa l'unità del putito nella terza Internazionale, possono oggi vedere chiaramente la situazione. L'unità del partito non esiste più, avendo esaurito, la sua ragion d'essere, ed essi si troveranno fuori dall'Internazionale comunista, dalla famiglia mondiale dei lavoratori rivoluzionari. Essi possono uscire da questa falsa situazione soltanto abbandonando i capi che li hanno ingannati, e venendo fiduciosi nelle file del Partito comunista.
Il Partito comunista d'Italia vi si presenta dunque, o compagni lavoratori, come un prodotto della situazione creatasi in Italia dopo la guerra mondiale e che va svolgendosi, anche più rapidamente che in altri paesi, verso la rivoluzione proletaria. Questo partito comprende in sé le energie rivoluzionarie del proletariato italiano, esso deve rapidamente organizzarsi come l'avanguardia di azione della classe lavoratrice. I suoi principi ed il suo programma vi dicono che il Partito comunista sta sul terreno del pensiero marxista, del comunismo critico, del Manifesto dei Comunisti, così come tutto il movimento dell'Internazionale di Mosca. Gli altri che, chiamandoci anarchici o sindacalisti, si rivendicano continuatori del marxismo, sono invece coloro che lo hanno falsificato.
Noi invece, raccogliendo nelle nostre file la maggior parte di coloro che sostennero il valore rivoluzionario del marxismo in Italia, dissentiamo, così come le tesi di Mosca dissentono, dalle teorie anarchiche e sindacaliste pure considerando i proletari anarchici e sindacalisti come nostri amici generosamente rivoluzionari, che finiranno col riconoscere la giustezza delle direttive teoriche e pratiche dei comunisti, mentre invece i riformisti, i socialdemocratici, e tutti quelli che si sentono di convivere con costoro si allontanano sempre più dal comunismo e dalla via della rivoluzione.
Il Partito comunista d'Italia si compone dunque di coloro che veramente hanno sentito ed accolto, nella mente e nel cuore, i grandi principii rivoluzionari dell'Internazionale comunista. Nelle sue file sono giovani e vecchi militanti dell'antico partito: esso continua storicamente la sinistra del Partito socialista, quella parte cioè di questo partito che lottò in prima linea contro il riformismo collaborazionista, contro i blocchi elettorali, contro la massoneria, contro la guerra libica, che non solo sostenne la lotta contro i fautori della guerra, ma, che in seno al partito contrastò tenacemente il passo a coloro che alla guerra erano avversi a parole ma, non del tutto scevri da pregiudizi patriottici, tendevano a continue transazioni colla borghesia.
E'vero che restano nel vecchio partito taluni che in certi periodi furono estremisti, magari più estremisti di noi, ma costoro o sono esemplari del vecchio fenomeno d'involuzione politica degli individui, o rappresentano i massimalisti che si improvvisarono tali per opportunità elettorale, o, nella ipotesi più benevola, sono individui che si credettero dei comunisti quando ancora non avevano inteso quali siano le differenze vere tra il comunismo e i pregiudizi borghesi e piccolo borghesi.
Il Partito comunista d'Italia inspira il suo indirizzo tattico alle deliberazioni dei Congressi internazionali, e quindi intende avvalersi dell'azione sindacale, cooperativa, elettorale, parlamentare; come di altrettanti mezzi per la preparazione del proletariato alla lotta finale.
Attraverso l'intimo contatto con le masse lavoratrici, in tutte le occasioni in cui queste sieno spinte ad agitarsi dall'insofferenza delle loro condizioni di vita, il Partito comunista svolgerà la migliore propaganda dei concetti comunisti, suscitando nel proletariato la coscienza delle circostanze, delle fasi, delle necessità che si presenteranno in tutto il complesso svolgimento della lotta rivoluzionaria.
Con la rigorosa disciplina della sua organizzazione interna, il Partito comunista si organizzerà in modo da essere capace d'inquadrare e dirigere sicuramente lo sforzo rivoluzionario del proletariato.
La propaganda, il proselitismo, l'organizzazione e la preparazione rivoluzionaria delle masse saranno basati sulla costituzione di gruppi comunisti, che raccoglieranno gli aderenti al partito che lavorano nella medesima azienda, che sono organizzati nel medesimo sindacato, che, comunque, partecipino ad uno stesso aggruppamento di lavoratori. Questi gruppi o cellule comuniste agiranno in stretto contatto con il partito, che assicurerà la loro azione d'insieme, in tutte le circostanze della lotta. Con questi metodi i comunisti muoveranno alla conquista di tutti gli organismi proletari costituiti per finalità economiche e contingenti, come le leghe, le cooperative, le Camere del lavoro, per trasformarle in istrumenti della azione rivoluzionaria diretta dal Partito.
Il Partito comunista intraprenderà così, fedele alle tesi tattiche dell'Internazionale sulla questione sindacale, la conquista della Confederazione generale del lavoro, chiamando le masse organizzate ad un'implacabile lotta contro il riformismo ed i riformisti che vi imperano.
Il Partito comunista non invita quindi i suoi adetenti ed i proletarii che lo seguono ad abbandonare le organizzazioni confederali, bensì li impegna a partecipare intensamente all'aspra lotta che si inizia contro i dirigenti. Non è certo questo breve e facile compito, sopratutto oggi che molti sedicenti avversarii del riformismo depongono la maschera e passano apertamente dalla parte dei D'Aragona, con i quali militano insieme nel vecchio partito socialista. Ma appunto per questo il Partito comunista fa assegnamento sull'aiuto di tutti gli organi Proletari sindacali che conducono all'esterno la lotta contro il riformismo confederale, e li invita, con un caldo appello, a porsi sul terreno della tattica internazionale dei comunisti, penetrando nella Confederazione, per sloggiarne i controrivoluzionarii con una risoluta e vittoriosa azione comune. I membri del Partito comunista, rivestiti di cariche elettive nei comuni, nelle province e nel Parlamento, restano al loro posto con mandato di eseguire la tattica rivoluzionaria decisa dal Congresso internazionale, e con subordinazione assoluta agli organi direttivi del partito.
Una parte dei giornali del vecchio partito resta al Partito comunista, tra questi i quotidiani L'Ordine nuovo di Torino e Il Lavoratore di Trieste.
Organo centrale del Partito sarà Il Comunista, bisettimanale, pubblicato a Milano, ove ha sede il Comitato esecutivo del Partito.
Questo, nelle grandi linee, é il piano d'azione che il Partito comunista si propone, e per l'esplicazione del quale conta sull'adesione entusiastica della parte più cosciente del proletariato italiano.
Gli avvenimenti, attraverso i quali il Partito comunista d'Italia si è costituito, dimostrano come esso corrisponda ad una necessità irresistibile dell'azione proletaria, e dimostrano come esso sorga quale unico organo capace di condurre alla vittoria la classe lavoratrice italiana.
Il programma di lotta del Partito comunista dimostra che esso soltanto potrà applicare, nell'azione rivoluzionaria, i risultati delle esperienze italiane ed estere della lotta di classe e le deliberazioni dell'lntemazionale comunista.
Il vecchio Partito socialista, nel Congresso di Livorno, ha perduto nello stesso momento le energie e l'audacia della sua parte più giovane, ed il migliore contenuto dell'esperienza delle sue lotte passate, che si riassume nell'affermazione di quel metodo rivoluzionario, di cui oggi il rappresentante é il Partito comunista.
Il vecchio Partito socialista, nel Congresso di Livorno, ha scelto la via fatale che ha come ultimo sbocco la controrivoluzione. Esso è squalificato dinanzi agli occhi del proletariato italiano, ed è destinato, d'ora innanzi, a vivere solo delle pericolose simpatie borghesi, il cui coro già si eleva intorno ad esso. E' il partito in cui la destra coi suoi Modigliani ed i suoi D'Aragona, é moralmente padrona, e gl'intransigenti rivoluzionari, i massimalisti, i comunisti di ieri, recitano la parte di servitori del riformismo.
Lavoratori italiani!
Il vostro posto di battaglia é col nuovo partito, é nel nuovo partito. Attorno alla sua bandiera, che é quella della Internazionale, dei lavoratori rivoluzionarii di tutto il mondo, dovete stringervi per la grande lotta contro lo sfruttamento capitalistico. Il Partito comunista d'ltalia, nel chiamarvi a raccolta per le battaglie della rivoluzione sociale, si sente in diritto di salutare a nome vostro i lavoratori di tutto il mondo, inviando all'lntemazionale comunista di Mosca, invincibile presidio della rivoluzione mondiale, il grido entusiasta di solidarietà dei proletari e dei comunisti italiani.
Contro tutte le resistenze del sistema, sociale borghese, contro tutte le insidie dei falsi amici del proletariato, contro tutte le debolezze e le transazioni, avanti per la vittoria rivoluzionaria, al fianco dei comunisti del mondo intero!
Abbasso i rinnegati ed i traditori della causa proletaria!
Viva la III Intemazionale comunista!
Viva la rivoluzione comunista mondiale!

Il Comitato Centrale del Partito comunista d'Italia

Il Comunista 30 gennaio 1921


Fonti varie:

Archivio Storia della Sinistra Italiana

Mostra "Avanti Popolo"

Archivio P.C.I

Immagini Tessere

17/01/12

Il Monaco e il Pesce


La follia è un tema musicale di origine portoghese tra i più antichi della musica europea e nasce tra il XVI ed il XVII secolo come una danza popolare ballata da pastori e contadini. Introdotta nel ‘600 nella musica “colta” (nella variante detta “tarda follia”), essa è stata usata da innumerevoli compositori, non ultimo, nel 1700 da Arcangelo Corelli nella Sonata per Violino op. 5 n. 12
Sullo “sfondo” musicale di questa “follia”, Michaël Dudok de Wit (Olanda 1958) fa danzare il monaco ed il pesce, i protagonisti “visibili” di questo delicatissimo cortometraggio, le cui sequenze sono realizzate tratteggiando le immagini con inchiostro di china direttamente sulla pellicola con l’aggiunta successiva del colore con sfondi ad acquarello.
Il risultato finale è incantevole e suggestivo: una poesia in cui le immagini si sostituiscono ai concetti e la musica al ritmo del verso.
Una metafora del desiderio? della conoscenza? della relazione?
Comunque si voglia leggere ed interpretare questo breve capolavoro, è innegabile che è la musica a condurre là dove le immagini riescono solo ad alludere: al sogno in cui l’ansia e la folle ossessione del “possesso” si arrende sfinita e si fa attesa di un reciproco ed autentico darsi. La corsa si placa nell’ incontro che libera i due protagonisti dai confini in cui la diversa natura li avrebbe relegati (terra e acqua) rendendoli capaci, una volta attraversati, di fluttuare e volare insieme in una dimensione nuova e finalmente comune.

Fonte testo: Antonella Foderaro: Il monaco e il pesce su Neobar

15/01/12

Pierluigi Cappello


Piove

Piove, e se piovesse per sempre
sarebbe questa tua carezza lunga
che si ferma sul petto, le tempie;
eccoci, luccicante sorella,
nel cerchio del tempo buono, nell'ora
indovinata
stiamo noi, due sguardi versati in un corpo,
uno stare senza dimora
che ci fa intangibili, sottili come un sentiero
di matita
da me a te né dopo né dove, amore,
nello scorrere
quando mi dici guardami bene, guarda:
l'albero è capovolto, la radice è nell’aria.


Mattino

Ho un acero, fuori casa, e tutto è lontano qualche volta
tutto passa nelle cose senza contorno
ho un acero misterioso come una città sommersa
e guardare diventa le sue foglie, l’ombra premuta
metà sulla strada metà nel giardino
la luce di ciascun giorno
dove le voci si appuntano e si disperdono.
Siamo l’acqua versata sulle pietre dei morti
sul filo teso tra la preghiera e il canto
siamo la neve dentro le cose
l’occhio cui tutto allucina, tutto separa
e vivere è un minuscolo posto nel mondo
dove stare in giardino.


Una rosa

Che cos'è quella rosa sul tavolo
ferma nella sua freschezza come un lago alpino
alta nel suo silenzio più del fragore
dei quotidiani affastellati lì accanto
più del disordine dei notiziari,
la concitazione delle chiavi di casa.
Che cos'è questa parola verdeggiante d'amore
se non il suolo dove lasciarsi cadere
la penombra di un bosco da attraversare
e la mano che si apre e prende la mia
e mi conduce a me.


Pierluigi Cappello
Gemona del Friuli 1967

È uno dei più grandi poeti italiani contemporanei. Nel 2006 ha vinto il Premio Bagutta (con "Assetto di volo") e nel 2010 il Viareggio Repaci (con "Mandate a dire all'imperatore"), e la sua è una storia dolorosa, la storia di un uomo che ha bisogno d'aiuto.


Appello per la concessione a Pierluigi Cappello dei benefici della Legge Bacchelli
Friulano di Gemona, 44 anni, Cappello versa in condizioni di estrema indigenza ed è paralizzato su una sedia a rotelle dal 1983: aveva 16 anni, era un brillante centometrista, sognava di fare l'aviatore, quando un amico gli diede un passaggio in moto. Ebbero un incidente, l'amico morì sul colpo e Pierluigi iniziò un calvario di interventi chirurgici, rieducazioni e fisioterapia, un percorso che gli ha permesso di continuare a vivere ma gli ha provocato un'estrema fragilità fisica. Da tempo ha bisogno di assistenza 24 ore su 24, e l'assistenza costa.
Fino al mese scorso, Pierluigi Cappello ha vissuto in un prefabbricato del terremoto a Tricesimo, nei pressi di Udine, una baracca donata nel 1976 dall'Austria al Friuli, una catapecchia abbandonata prima di Natale perché ormai inabitabile e infestata dai topi. Oggi Pierluigi vive con la madre in un minuscolo appartamento dove non esiste neppure il collegamento a Internet, essenziale per una persona isolata dal resto del mondo, per un intellettuale che può comunicare - poesie a parte - solo grazie alla Rete e al telefono.
Tutti i suoi libri sono rimasti negli scatoloni, il letto è in realtà un piccolo divano, l'assistenza a domicilio è un peso insostenibile per chi non ha alcun tipo di reddito, ma solo un'esigua piccola pensione di invalidità.
La situazione di Cappello ha spinto la Regione Friuli Venezia Giulia a chiedere la concessione dei benefici della Legge Bacchelli, la quale prevede un piccolo vitalizio per gli artisti di chiara fama che versino in condizioni disagiate.
L'appello è stato raccolto e sottoscritto dalle Università di Siena, Firenze, Udine, Roma Tre e dall'Accademia della Crusca, oltre che da migliaia di privati cittadini e intellettuali. Anche Facebook e Twitter si sono mobilitati per aiutare Pierluigi Cappello, e la stessa cosa intende fare Repubblica.it.
Tra le personalità del mondo della cultura e dello spettacolo che hanno beneficiato del vitalizio, la scrittrice Anna Maria Ortese, Gavino Ledda, la poetessa Alda Merini, i cantanti Umberto Bindi, Ernesto Bonino e Joe Sentieri, le attrici Alida Valli e Tina Lattanzi, il pugile Duilio Loi, l'attore Salvo Randone. Della legge hanno goduto anche la prima annunciatrice della Rai, Fulvia Colombo, l'eroe di guerra Giorgio Perlasca e il poeta di Andreis, in provincia di Pordenone, Federico Tavan, per il quale proprio Cappello si è dato tanto da fare.
I benefici della Legge Bacchelli vengono concessi, dopo un complesso e a volte lungo iter burocratico, dalla Presidenza del Consiglio dei Ministri con la controfirma del Presidente della Repubblica: il nostro invito, dunque, è rivolto direttamente al professor Mario Monti e al Capo dello Stato, Giorgio Napolitano.
A Pierluigi Cappello, in fondo, basta poco: il minimo per sopravvivere e continuare a comporre versi, donando a tutti le sue parole trasparenti, delicate e forti, scritte nella bellissima lingua friulana e in italiano. Triste e povero è un paese che dimentica i poeti, e ancor più triste se è insensibile al dolore di chi, in silenzio e con enorme dignità, nella sofferenza chiede aiuto.
Fonte: Repubblica

Si può aderire inviando una email all’indirizzo istituzionale del presidente del Consiglio regionale, Maurizio Franz (presidente.consiglio@regione.fvg.it). Crescono di giorno in giorno anche le adesioni alla pagina Facebook per l’Assegnazione dei benefici della legge Bacchelli a Pierluigi Cappello.


Fonte post: Pierluigi Cappello su alberto cane blog

10/01/12

Factory



Per raggiungerla bisognava uscire fuori città. Un tempo quel luogo era una piccola palude e l'opera di bonifica non aveva prodotto grandi risultati: poche gocce e piccoli ruscelli richiedevano forza e coraggio al guado. Quasi nessuno poi all'epoca possedeva un'automobile e i pochi fortunati dividevano le spese per il carburante con tre, quattro compagni raccattati lungo il percorso, gli altri attendevano pazienti l'arrivo dell'unica corsa pubblica che fermava davanti ai cancelli, cinque minuti prima del suono della sirena e cinque minuti dopo, alla chiusura. Il tempo di una sigaretta, di uno ciao frettoloso, di uno sguardo d'intesa. Si aspettava sempre fino al fischio prima di entrare, si attendeva il soffio meccanico prima di rinascere in un'altra vita.
Noi non lo capivamo che quelli erano tempi eroici, che ne avremmo un tempo parlato con rabbia e orgoglio. Quello che vedevamo era solo un lavoro sempre uguale, il servo che misurava i nostri tempi, i movimenti che non dimenticavi più, la nausea. Quello che sapevamo era sotto le gonne della carusidda appena assunta o nei volantini che giravano sotto banco dentro i cessi gonfi d'urina. No, noi non lo immaginavamo che di quel primo sciopero avrebbero parlato tutti i giornali o che del cadavere della carusidda stuprata e annegata in uno di quei rigagnoli si sarebbe occupata la giustizia degli uomini. Erano cose della vita, come la bestia che si ribella alla soma o la capra sgozzata per la festa del padrone. A noi bastava la magia del ventisette, la faccia allegra per le vie del corso, il cinema, qualche bicchiere di vino a volte. A noi inorgogliva essere uno, mentre si era in tanti.
Quelli di noi che ci hanno passato tanto tempo dentro ci hanno raccontato che era come vedersi allo specchio: una ruga, un ciuffo bianco, qualche acciacco, ma dentro si pensa di essere ancora giovani e si fanno sempre le stesse cose e si pensano sempre le stesse cose e invece il mondo cambia e quelli che arrivano dopo iniziano a non capirti e poi a poco a poco nemmeno più ti considerano, fino a quando...
Quelli di noi che l'hanno vista invecchiare invece la maggior parte non ci sono arrivati alla sua morte che sono andati via loro prima, quasi tutti per cancro, quasi tutti dentro un'ospedale.
Infine quelli di noi che l'hanno vista morire ancora ogni tanto ci tornano dietro ai cancelli chiusi, per dare un'occhiata alle lamiere contorte, all'erba che prende tutto, al cielo più grande.

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Questo post nasce da un "gioco" lanciato da  LaDonnaCamel sul suo blog
Gli altri partecipanti sono:

- Melusina con Ho visto un re
- Lillina con  Le voci nel silenzio 
- Cielo sopra Milano con  Addicted to love 
- Mai Maturo con  Quelli dell'EDS
- Hombre con  Sottoposti
- Giodoc con  My Sharona
- Mai Maturo con Cronache dell'anno mille
- LaDonnaCamel con  E quando suonano le sirene ti sembra quasi che canti il gallo

05/01/12

5 Gennaio, Pippo e Peppino

Un ritratto di Pippo Fava di Luigi Politano


Un ritratto di Pippo Fava
Chissà cosa stava pensando Pippo Fava quando l'hanno ammazzato, la notte del 5 gennaio di 28 anni fa. Forse, andando a teatro dalla sua nipotina, pensava alle strade di Catania che lui viveva ogni giorno, ai vicoli della città etnea e ai palazzi signorili di chi ha voluto la sua morte. Magari stava proprio prendendo in giro uno dei tanti pupi in mano a Santapaola. Storie di tutti i giorni nella terra che ha fatto di tutto per dimenticarlo, ma che lascia in ogni dove qualcosa che Pippo Fava ha raccontato in una vita intera. [continua a leggere]


In memoria di Peppino di Daniele Biacchessi

Ha braccia forti e un corpo allungato, come il suo volto.
Capelli mai pettinati, e baffi, e barba.
E uno sguardo che osserva lontano.
Al di là delle persone e dei fatti, al di là della sua stessa terra.
E' uomo curioso, Giuseppe Impastato, Peppino.
A Cinisi c'è nato e cresciuto.
5 gennaio 1948.
Il padre, Luigi Impastato, è un commerciante, amico di mafiosi.
Lo zio, Cesare Manzella, è un capomafia ucciso nel 1963 nel corso di una guerra tra clan.
E' giovane Peppino.
Lui ha fatto un giuramento.
"Così, come mio padre, non ci diventerò mai".
Rompe con il padre Luigi e avvia un'attività politica di contrasto a Cosa Nostra.
Fonda il circolo "Musica e Cultura".
Cineforum, concerti e soprattutto dibattiti.
Molti dicono che è matto, ma altri giovani del paese si uniscono a lui.
Siamo nel 1976 [continua a leggere].

Fonti: Cado in Piedi ; Articolo 21
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