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31/08/12

[cahiers de doléances] Varagghi -3-



La visita al Cimitero, “I tre cancelli”, è una di quelle cose che sento e a cui non rinuncio quando sono qui. Credo faccia parte dell'imprinting, l'accompagnare mia madre e le mie zie sin da piccolo prima a trovare una loro sorella e i nonni, poi il loro padre, la madre... in un naturale crescendo che ormai occupa temporalmente, nei vari spostamenti tra una tomba e l'altra, gran parte della mattinata.
Ricordo che mi fermavo (come mi fermo ancora oggi) ad osservare quelle vecchie foto di sconosciuti defunti, le frasi incise sul marmo, le tracce lasciate dalla loro vita o dal loro morire. Mentre facevo questo cercavo di calcolare rapidamente, chè gli altri erano già molto avanti, la loro età al momento del trapasso e magari univo queste informazioni a qualche episodio storico che ricordavo nel tentativo di legare quelle povere vite alla storia dei libri. Credo dipenda da questo mio vaneggiare sui morti gran parte del mio modo di osservare i vivi.

Si acquistano i fiori e si osserva l'inevitabile e atteso litigio tra vigili e pubblico al nuovo ingresso:
“A verità è ca faciti passari a cu vuliti!”
“Si mittissi lei sutta u suli”
“Io l'ho visto a quello! Era da solo nella macchina!”
“Sì signora, lavorava qui!”
“Certo, travagghiunu tutti!”
La disputa è sempre la stessa, la possibilità di entrare o no con l'automobile in una città dei defunti costruita su piccole colline, fatta di scalinate e asfalto, con pochissima ombra per i vivi e temperature di fuoco sul marmo.
Lungo la strada verso il primo incontro mi accorgo di due piccoli recinti con piante e fiori. Non ci vuole molto a capire che in uno dei tanti spazi verdi abbandonati dal comune i parenti hanno costruito due piccoli giardini per garantire una vista migliore ai propri cari. Ricordo lo scorso anno, o due anni fa, una famiglia aveva posizionato una panchina in ghisa, presa chissà dove, davanti alla tomba da vegliare e fissato un gigantesco ombrellone Algida a garantirsi un po' di frescura.
Chiedo a mia madre di Fra Cristoforo, un prete conosciuto parecchi anni fa, un grande “servo di Dio” sempre pronto a dare una parola di conforto o a recitare una preghiera con i “rimasti”. Fra Cristoforo aveva una quarantina d'anni, si notava subito per un vellutato parrucchino dal colore indefinito che sotto questo sole credo gli facesse un po' da cappello e per il fisico da maratoneta necessario al suo incessante vagare. Non lo vedo da parecchi anni e mia madre mi dice che non lo vedrò mai più lì visto che altri non era che Orazio Rapisarda da tempo ricercato dalla polizia per truffa. Eppure mi dispiace. Quel finto prete faceva il suo lavoro meglio di tanti altri e di certo le offerte che raccoglieva erano ampiamente sudate.

2 commenti:

  1. Hai capito il truffatore! Sicuramente aver indossato quella toga gli ha concesso di pentirsi abbastanza...

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  2. una di quelle storie che pensi di poter trovare solo nei vecchi film dell'italia del dopoguerra :-)

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