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15/05/10

Un cammino di comunicazione di Pierangelo (Blog: Ditelo sui tetti)

A voler dare retta alle frettolose analisi di alcuni giornalisti o personaggi politici, il rapporto che intercorre tra gli adolescenti e la Rete (e, più in generale, i mezzi tecnologici di comunicazione contemporanei) apparirebbe come la madre di tutti i vizi e di tutte le storture diseducative immaginabili. L'uso delle abbreviazioni finalizzato a contenere gli SMS in 160 caratteri farebbe disimparare l'uso della lingua italiana scritta, il dialogare in chat esporrebbe i nostri Cappuccetti Rossi all'incontro con maniaci senza scrupoli, il prolungato stazionamento davanti ad uno schermo produrrebbe isolamento, autismo, epilessia, incapacità di distinguere il reale dal virtuale.

A mio parere si tratta di campagne che si basano su fondamenti pseudoscientifici e su di un pregiudizio che confonde il mezzo in sé, che è sempre innocente, con l'uso che qualcuno potrebbe fare del mezzo; come se ci mettessimo a parlare male delle autostrade perché su di esse c'è qualcuno che va a centosettanta e qualcun altro che sorpassa gli autotreni in prossimità del dosso. D'altronde la nostra generazione di educatori, che è la stessa degli pseudo sociologi che demonizzano Internet traviatrice di giovinette, è stata enormemente esposta al mezzo televisivo, anch'esso innocente in sé, che ben può essere stato efficace nel plasmare o addormentare coscienze a favore del potente di turno. Eppure la TV non fa lo stesso scandalo. Mi son chiesto il perché e mi sono reso conto che, mentre la TV è per sua natura unidirezionale, tranquilla e noiosa come una lezione frontale durante la quale non può succedere nulla di inatteso, a parte che qualcuno sbadiglia, cambia canale, pensa alle vacche, tanto poi vi attendo al varco quando non saprete ripetere parola per parola quello che ho appena detto, il mezzo informatico è interattivo. Non ci si preoccupa tanto di quello che può arrivare dall'esterno ai ragazzi, ma piuttosto che possa essere esternato senza freni e censure quello che i ragazzi portano dentro.

Se rifletto sul significato della parola e-ducazione, dovrei comprendere che diseducativo è imbottire le persone, piuttosto che dar loro spazi per esprimersi liberamente. Quanto poco nella scuola concreta si faccia educazione lo si vede quando proviamo a chiedere ad un ragazzo di dirci che cosa pensa e lui risulta sorpreso ed imbarazzato e non si fida, perché non posso chiederti cosa pensi per poi valutarti su questo, cioé giudicarti per quello che pensi, e allora ti dice quello che tu ti aspetti, per compiacerti e magari per questo atto servile, a cui tu l'hai costretto, gli metti anche un buon voto. È una brutta matassa intricata la comunicazione, perché posso comunicare davvero soltanto tra diversi ma pari, mentre il rapporto tra docente ed alunno è un rapporto di subordinazione gerarchica. Vorremmo che ognuno potesse sentirsi libero di dire ciò che pensa, ma nell'aria aleggia la minaccia che qualunque cosa direte potrebbe essere usata contro di voi. Stare zitti, adeguarsi, mostrare una maschera gradita ai più, in altre parole mentire o essere reticenti (entrambe violazioni dell'ottavo comandamento, per noi credenti) diventano atteggiamenti obbligati per garantirsi la sopravvivenza in una community per modo di dire, all'interno della quale è chiarissimo che a nessuno interessa quello che pensi e quello che provi tu.

Per questi motivi risulta almeno singolare che Facebook, il più diffuso dei social network, esordisca con le persone facendo loro una sola terribile domanda: “A cosa stai pensando?”. Ma come, non me lo chiede mai nessuno a cosa sto pensando! Incontro gente e ci si dice “Ciao, come stai?”, ma si capisce subito che è uno stereotipo e che si spera che l'altro risolva tutto con un “Bene, grazie!”, ché non è che ci si può caricare anche dei pesi altrui. Ritengo però che questa banalità di porre una domanda retorica sia una genialata, nella misura in cui sempre più persone, finora costrette a chiudersi, stanno invece prendendo sul serio quella domanda e si stanno esponendo, estrinsecando preziosi indizi del loro essere unici ed irripetibili. Il dialogo, piuttosto che lo scontro finalizzato a far vincere la propria opinione, è attività alla quale siamo pochissimo esercitati e rimane la causa dei principali fallimenti di relazioni importanti, che implodono, sconfitte dal nostro analfabetismo comunicazionale. Se la famiglia e la scuola così poco sono capaci di stimolare la pratica di una sana socialità, ben venga uno strumento laboratoriale come Facebook, in cui posso esprimere un pensiero, un'emozione o un sentimento, mi espongo al contraddittorio dei commenti, imparo a controargomentare e alla fine mi ritrovo più ricco, perché “se tu hai un'idea, ed io ho un'idea, e ce le scambiamo, allora abbiamo entrambi due idee”.

Comunicare è una parola che mette insieme “cum” e “unus”: stare cum qualcun altro e intraprendere un percorso per cui gradatamente lui diventa sempre meno “altro” da me, perché la relazione vera trasforma le persone, le addomestica nel senso della volpe del Piccolo Principe. Per questo motivo, se aggiungere un amico può sembrare una parola grossa, in realtà in quell'atto dichiariamo che siamo disponibili ad iniziare un cammino di comunicazione interpersonale, consci che prima o poi ne risulteremo trasformati. E scusate se è poco.

Se poi riuscissimo ad esportare questo stile comunicazionale fuori del laboratorio, nella vita reale, quando ci si guarda in faccia e ci si annusa, a casa e a scuola e tra colleghi di lavoro, nei talk show ed in fila alla Posta, allora declineremmo altre parole che hanno la stessa etimologia, come comunità e comunione, da tanti oggi etichettate come buoniste, ma a mio parere le uniche parole che possono dare risposte profonde alle aspettative delle persone.

Articolo originale: Un cammino di comunicazione

2 commenti:

  1. Riflettevo in questi giorni: a metà anni '70 mio fratello mi portava al Piccolo Teatro a vedere gli allestimenti di Strehler.
    Oggi se gli nomino qualcosa di appena un po' fuori dal suo solito giro mi guarda stranito.
    Trent'anni di tv commerciale fanno questi effetti, ed è solo un piccolissimo esempio, come purtroppo sai meglio di me.

    Molto bello tutto il post; aggiungerei la questione delle tv a pagamento, ognuno se ne sta sul suo canale e non guarda nient'altro. Col digitale le cose sono destinate ad andare ancora peggio, da questo punto di vista. E' vero che c'è più offerta, ma se mi metto nei panni di un bambino o di un adolescente, comunicare diventerà sempre più difficile.
    Ognuno nel suo angolo, a fare solo le cose che gli piacciono e a parlare (o chattare, o su facebook, o su un blog...) solo con le persone che la pensano esattamente allo stesso modo.
    Una tristezza infinita, un mondo noioso e anche pericolosissimo.

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  2. sì, un mondo noiosamente in declino, sempre più accartocciato su se stesso... finchè non arriverà qualcuno che a quel grumo darà un calcio, magari per gioco

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