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29/03/08

La picciridda - 4 -

La figghia di Arcifa u vigili che sta al primo piano fu la prima a parrari quando ci spiai a tutti per il nome.
"E come la vuole chiamare? Uno solo può essere il nome. Quello della Santuzza! Altri che portano bene come a questo non cè ne stanno al mondo"
Forse per la grande stima che aveva per il padre della carusidda Nunzio dal piano di sopra a quello ci abbiau un pernacchio e se ne entrò in casa dando il posto alla finestra a sua madre.
Mi vutai il collo verso lalto che cera Vito Albana che ittava vuci:
"No! No! Non è chistu il nome giusto. Ma lavete vista che facciuzza ca avi e che è niura poi ve ne siete accorti? Non ci sta bene Agata come nome. Pimmia deve essere quaccosa di forastiero comu nei film dellamericani che là ce nè un cafolo di niuri che recitano"
"Certo! - ciarrispunniu tutto filosofico Agatino Amato con litaliano che ci sivveva per fare poesie- E così rinneghiamo le nostre tradizioni! La nostra lingua! Però Agata non piace neanche a me. Credo ce ne siano di più belli. Io sarei per Maria. Ma se volessimo osare potremmo chiamarla Luna"
"Ma cià finissi! Ci mancassi autru! A luna e le stidde e i cometi macari!"
Dal piano sotto al mio la moglie di Avanzato faceva sentiri la sua voce potenti di masculazzo. Una volta era capitato che ciavevo chiamato al telefono a casa sua e per quattro cinque volte avevo chiuso pensando di avere sbagliato numero che non ci poteva essere un uomo a quellora che mi arrispondeva.
Comunque non si riusciva a mittirisi daccordo.
Io avevo paura che la picciridda accuminciava a chianciri e ci diedi un taglio a quella cosa ma gli altri continuarono per un altro po' fino a quando non sintii silenzio. Poi dopo circa unora il campanello della porta mi avvertì che qualcosa era successo.
La vecchia Astuta con le cosce ancora aperte per loperazione ciaveva in mano un bigliettino. Era quello con i risultati dellelezioni.
Agata voti 2
Angelica voti 5
Deborah voti 2
Luna voti 1
Carmen voti 4
Nensi voti 1
Grazia voti 3
Maria voti 5
Naomi voti 5
Non cera chiù nuddu. Toccava a me decidere.
E io dissi Angelica.

Forse fa impressione vedere un masculo sulu con una picciridda o forse ogni nicuzzu attira i fimmini come i ciuri con lapi. Fatto sta che le visite delle signore del palazzo a me casa non ciavevano sosta.
Ora vogghiu riri. Facevano piacere. Ma u supecchiu e come il mancante e io stavo iniziando a innervosirmi. Anche Angelica non riusciva a addormentarsi con tutte quelle braccia che la volevano tenere. Nemmeno fosse stata una vesti bellissima in occasione al mercato che tutti se la strappano dalle mani per vedere la qualità e nessuno selaccatta.
Fra tutte la più assidua era la Adonia che allimprovviso era nisciuta dalla iaggia in cui sera messa e che maveva già chiesta almeno una decina di volte scusa per non essere passata prima.
"Nessuna notizia?" ci spiai tanto per dire.
"No Totò! Chissà unnè la mia nicuzza"
Gli occhi sò quando pensava alla disgrazia si facevano nichi nichi e la bocca accuminciava a tremare. Con i denti si dava piccoli morsi nelle labbra come a volere provare a sconfiggere il dolore con un altro uguale ma non penso che ciarrinisceva veramente.
Io era bastato un giorno per pensare di poterla capire chiossai a quella mischinedda. Insomma ora lo sapevo che voleva dire avere una figghia e forse proprio per questo notai che tutte queste fisime ci passavano quando teneva Angelica tra le sue braccia e anche il sorriso che ci scappava di nascosto quando con i suoi occhi trovava quelli della nicuzza.
Me la voleva rubare?
E se per caso sinnieva dalla polizia e con la scusa di denunciarimi se la faceva dare lei?
No! Non era tipo! Ma cu li capisci alli fimmini e alle madri soprattutto!
Accuminciai a non farcela pigghiari chiù e con la scusa che Angelica stava dormendo non cià fici vedere per tutto il pomeriggio e per il giorno dopo. Però mi sinteva in colpa.
Fa questeffetto aviri una creaturedda? Ca uno si scanta di tutto?
Ci voleva una birra per farimi passari sti mali pinseri e una persona fidata per badare a Angelica almeno una para di uri che non volevo avvicinarmi a lei con il ciato che puzzava.

28/03/08

27/03/08

[Pubblico e Privato] Legge Fortuna Baslini



1 Dicembre 1970


L'estate era passata rapidarapida e anche senza a Gianni avevamo giocato lo stesso, e vinto, e perso.
Io ero diventato tifoso del Cagliari, ma è che ammia mi piaceva Riva che era il migliore attaccante del mondo. Ancora me la ricordo la formazione dello scudetto: Albertosi; Martiradonna (che quando giocavi con le figurine e ti spuntava era megghiu di un terno al lotto); Zignoli; Cera; Niccolai; Tomasini; Domenghini; Nenè (chiddu niuru); Gori; Greatti e Riva. Comunque... chissà picchì ciu ficiuni vinciri quellanno lo scudetto.
La scuola aveva accuminciato da un pezzo e le suore ci stonavano la testa con le preghiere e le cose da imparare per Natale; certo potrà sembrare strano ma a me mi piaceva imparare le poesie e le rime e le canzoni anche. Con loro io ci passavo il tempo quandero solo e mi facevano compagnia nella testa. Uno poi le poteva sbagghiari di proposito o mischiarle oppure mittirici parole nuove e cose senza senso tipo: "ci rumpu tutti i renti, o ziu Carmelu..." invece di quello che scinni dalle stelle.
D'inverno non si andava sotto il palazzo che cera il fango e però dentro le case non cera lo spazio per giocare e accussì ci vedevamo poco cullamici e tutto quello che sapevo di loro lo sentivo attraverso i muri o nelle parole di mia madre.
Lei un giorno parlando di una fammigghia che serano trasferiti da poco mi disse anche una cosa nuova: divozziu. Però non me lo seppe dire quello che voleva dire, o forse non ciaveva vogghia di spiegarmelo.

Approfondimento: http://it.wikipedia.org/wiki/Divorzio

24/03/08

22/03/08

Nel Sessantotto di Maurizio Pistone

Too much and for too long, we seemed to have surrendered personal excellence and community values in the mere accumulation of material things. Our Gross National Product, now, is over $800 billion dollars a year, but that Gross National Product — if we judge the United States of America by that — that Gross National Product counts air pollution and cigarette advertising, and ambulances to clear our highways of carnage. It counts special locks for our doors and the jails for the people who break them. It counts the destruction of the redwood and the loss of our natural wonder in chaotic sprawl. It counts napalm and counts nuclear warheads and armored cars for the police to fight the riots in our cities. It counts Whitman’s rifle and Speck’s knife[1]. And the television programs which glorify violence in order to sell toys to our children. Yet the gross national product does not allow for the health of our children, the quality of their education or the joy of their play. It does not include the beauty of our poetry or the strength of our marriages, the intelligence of our public debate or the integrity of our public officials. It measures neither our wit nor our courage, neither our wisdom nor our learning, neither our compassion nor our devotion to our country, it measures everything in short, except that which makes life worthwhile. And it can tell us everything about America except why we are proud that we are Americans.
Con troppa convinzione, e per troppo tempo, abbiamo rinunciato alla nostra promo­zione personale e ai valori della nostra comunità in favore della semplice accumula­zione di beni materiali. Il nostro Prodotto Nazionale Lordo è ora di 800 miliardi di dollari l’anno, ma quel Prodotto Nazionale Lordo, in base al quale giudichiamo le condi­zioni degli Stati Uniti d’America, comprende anche l’inquinamento dell’aria, la pubblicità delle sigarette e le ambulanze che liberano le autostrade dalle stragi del traffico. Comprende serrature speciali per le nostre porte, e prigioni per quelli che le rompono. Comprende l’abbattimento delle sequoie e la scomparsa delle nostre bellezze naturali nel caos urbanistico. Comprende il napalm e le testate nucleari e le auto blindate usate dalla polizia contro le rivolte urbane. Comprende le armi usate per stragi e delitti. E i pro­grammi televisivi che trasudano violenza per vendere giocattoli ai nostri bambini. Invece, il Prodotto Nazionale Lordo non calcola la salute dei nostri bambini, la qualità della loro educazione e la gioia dei loro giochi. Non include la bellezza della nostra poesia e la durata dei nostri matrimoni, l’intelligenza del dibattito politico o l’onestà dei pubblici ammini­stratori. Non valuta né l’ingegno né il coraggio, né la saggezza, la cultura, l’altruismo, l’amore per il nostro paese. In poche parole: misura tutto, tranne quello che rende la vita degna d’essere vissuta. Ci dice tutto sull’America, tranne il motivo per cui siamo orgogliosi di essere Americani.

Robert Kennedy, Discorso all’Università del Kansas, 18 Marzo 1968
[1] Charles Whitman e Richard Speck furono prota­gonisti di drammatici fatti di cronaca alla metà degli anni ‘60


Fonte testo: Maurizio Pistone

21/03/08

Primavera


Sarà questo caldo. Sarà la primavera. Oppure che alla signora Amalia macari di matina ci piaci u pisci. Però quando mi sono affacciato alla finestra che erano forse le sei non arriniscii più a staccare gli occhi dalla sua cucina.
Lei era piegata sul tavolo che pareva che se lo voleva abbracciare tutto ma suo marito arreri a idda non la stava affatto aiutando a sparecchiare o a fare le pulizie.
Mah! In effetti in quel momento quel mischino ciaveva altri pensieri nella testa e Amalia del resto lo lasciava travagghiari tutta felici.
Ogni tanto lei si alzava sulle braccia. Vedevo allora le sue minne che ballariavano dentro la camicia di notte e la sua faccia che faceva mille smorfie.
Poi mi passi come se stava impazzendo. Si muveva come una ca pigghia la scossa. Come qualcuno che cerca laria con la bocca prima di affogare.
Solo in quel momento pinsai che forse anche loro potevano vedermi .
Rientrai in casa e me ne andai in bagno a canciarimi le mutande.

Fonte immagine: http://lubna.altervista.org

18/03/08

17/03/08

La picciridda - 3 -

Era passata la notte e io ero peggio di un pagghiazzo della cucina troppo usato. La nicuzza aveva voluto il latte verso le sei e poi si era addumisciuta. E io con lei.
Fu il campanello a svegliarmi che potevano essere le sette. Le sette e mezza. Cullocchi abbuscicati non mi preoccupai nemmeno di mettermi una maglietta e così con le mutande a coprirmi dove era necessario e quacche maledizione nella testa rapii la porta.
Era Margherita Azzara. Tutta frisca e profumata come per andare a missa. Solo che forse con le minigonne come a quella che ciaveva lei ancora alle fimmine non le fanno entrare vicino allaltare.
La signora partiu sparata:
"Cheffaccio disturbo? Volevo dirti che sono proprio ammirata di quello che stai facendo"
Locchi nel frattempo le erano andati dove non dovevano e lamico mio birbante lesto lesto ci vosi ricambiare la taliata a quel pasticcino prima di ritornare sotto allelastico delle mutanne.
"No! No! Ci mancassi! Vuoi...vuole entrare?"
Margherita però già era nella saletta e stava chiudendo la porta dietro di lei. Nemmeno il tempo di dire pio che mi pigghiau la faccia tra le mani e mi fici assapurari quantera duci la sua ucca. Non ci stavo capennu nenti.
"Me la fai vedere?" Mi chiese subito dopo dandomi il tu tutta ammizzigghiata come se niente fosse successo.
Nella mia testa mi ero scordato di ogni cosa e faticai tannicchia a capire che non era il battagghio che la signora voleva ammirare.
"Certo! Non fari rumore però che sta dormendo"
Appena visti alla picciridda ci si illuminò la faccia. A taliau un bello pezzo fino a quando non saccalò sopra alla culla per darici un bacio e farici una carizza.
Io arreri a lei non potei fare a meno di darici unocchiata ai suoi segreti. Quando lavevo sognata una vista come a quella! Ma pareva che era destino che con Margherita non ci puteva nesciri nenti e che ogni vota che ci vedevamo cera qualche situazione strana a impedirici di arrivare a concludere.
"Ignazio voleva passare pure lui ma è dovuto rimanere con la nostra picciridda. Anche lei ancora sta dummennu"
Accalai la testa come per dire che era giusto e ci spiai se voleva qualcosa. Ci rissi macari che non ciavevo acqua però. Solo quella del rubinetto che laltra con quel caldo era finita tutta.
Lei mi passi dispiaciuta. Ciaveva siti purazza. Ma io cosa ci potevo fare? Lultima bottiglia celeravamo divisa io e la picciridda. Non penso che avrebbe accettato una birra e così le proposi un caffè.
"Caldo o freddo?" aggiunsi.
"Caldo grazie. - marrispunniu lei - Possiamo aiutarti io e Ignazio in qualche modo?"
Non sapevo che dire e poi la testa in quel momento ce lavevo ad altro.
Margherita sassittau vicino al tavolo in cucina e accuminciau a parrari della figghia e di quando era nica e delle cose che dovevo sapere che bisognava fare.
Io mentre preparavo la cafittera seguivo tutto attento che tante cose non le sapevo e ci facevo domande e chiedevo. Lei sembrava soddisfatta di quel mio interesse e quando massittai macari iu ad aspettare che il caffè acchianasse mi fece una specie di corso rapido supra ai primi mesi di vita.
Un ciauro nuovo nellaria ci fermò improvviso e fici cangiari direzione o ventu. Mi susii per sistemare tutto e quando mavvicinai con il caffè che fumava lei era ritornata a essiri la fimmina che sognavo. Prima mi rissi che aveva troppa siti. Poi lesta lesta maccalau i mutanni per provare a viviri alla fonti. Arristai come a un babbasunazzu con locchi chiusi e la tazzina nelle mani.
Forse la picciridda accuminciava veramente a portarmi fortuna.
Quando però tornai a viriri la luce ci misi poco a capire che era stato tutto solo un sogno. Giusto il tempo di passare la mano sopra alle mutande vagnate.
Assittato nella seggia e con la testa appoggiata al bordo della culla mero fatto due ore di sonno chino senza neanche accorgermene. La nicuzza si stava guardando in giro.

Chissà su pensano a questetà. O se sognano macari. E se è così chi sogni sù? Di quello che cè prima? Oppure di quello che cè dopo? Forse sulu di mangiari? E ti virunu macari? Mah!
Comunque era già passato un giorno e ancora lei non ciaveva un nome. Bisognava provvedere.
Minni ii a sciacquarimi la faccia e a canciarimi di sutta e poi mavvicinai al balcone. Mi serviva qualche consiglio. Cera ancora calma. Come se tutti si fossero messi daccordo per non disturbarci. Non si sentiva manco lodore delle cose che di solito in quel periodo saccuminciavano a preparare di matina presto per il pranzo.
Stirai il collo fuori dalla finestra e provai a chiamare alla signora Ardenti.
Bastò quello a fare spuntare da ogni puttuso i facci dei cristiani.
"Chi succeri Totò?"
Fu chista la sola voce del coro dellopera.

14/03/08

12/03/08

"Piccolo intermezzo portatile" di semi.conduttore

Sappiamo per certo (almeno io so per certo) che esiste un nucleo profondo di noi stessi, inattingibile, a dispetto tutti gli sforzi. In altre parole l'essere umano è opaco a se stesso, anche se può lavorare per ridurre ai minimi termini la zona d'ombra. Nonostante tutto il lavoro, però, una zona d'ombra resterà sempre, e non possiamo farci nulla, se non cercare di tenerla sotto controllo.
Ma questo apparentemente non conta, perché poi siamo sempre pronti a pretendere dagli altri ciò che non riusciamo nemmeno a darci da soli; siamo pronti a pretendere onestà cristallina, visibilità immediata e totale, abbandono senza condizioni (parlo evidentemente soprattutto delle così dette relazione d'amore).
La radice di questo ridicolo comportamento è duplice: da un lato, poiché è difficile dare sostanza a ciò che non si vede non si sente non si tocca, insomma, non si percepisce, ci è difficile ammettere di avere noi stessi una zona d'ombra (che possiamo conoscere solo per speculum et in aenigmate), e tendiamo a dimenticarcene, a relegarla nel cantuccio delle cose che è meglio non pensarci, non saperle; dall'altro, c'è come un effetto di spersonalizzazione, per cui "l'altro" o "l'altra" non è un essere umano come noi, ma diventa una specie di macchina più o meno intelligente, più o meno amorosa, ma comunque deterministica e supposta limpida; ovvero, ancora, inglobiamo l'altro (l'altra) come se fosse una lampada miracolosa in grado di fare luce dentro noi stessi - e una lampada non può avere zone d'ombra.


Fonte testo: http://blog.libero.it/semiconduttore

11/03/08

La picciridda -2-

E insomma celavevo da mezzora e già non capivo più niente.
Tutte le informazioni che avevo erano quelle della televisione che cerano anche nei film e cioè che a una picciridda bisogna darici il latte cambiarici il panno e farla dormire.
Però menero visti poche storie dove cerano i bambini niuri pecchè la piccola era niura e su questo non si poteva sbagghiari.
Valevano lo stesso le tre cose? E chi me lo diceva se non era così?
Comunque ora era tempo di movirisi pecchè le braccia già mi facevano male a forza di annacarla e poi pareva che si era addummisciuta.
La posai nel letto grande come i bambuli di terracotta di quando ero nicu e ci misi vicino due cuscini. Il latte! Nel mio frigo cera sulu acqua e birra. Bisognava comprarlo. E i pannolini anche. Ora che ci pensavo dovevano essere come quelli collanimale. Collippopotamo della televisione.
Mentre stavo pensando a queste cose però partiu la processione.
Dallarmadi dalle ceste dai garage tutti i condomini pigghianu le barattelle che avevano conservato.
Megghiu della notte di Natale.
La porta di casa mia rimase aperta tutta la giornata che ci mancavano solo gli angileddi per completare il teatro.
Il primo a venire fu il Cavaliere in persona con una cascia china di latte per bambini e una pila di buoni che gli erano rimasti dalle ultime elezioni per fare le spese al supermercato.
La signora Ardenti purtau la culla che era servita per tutti i suoi figghi ma che ancora anche se aveva quacche anmmaccatura funzionava.
Discreto una catenella doro che ce la doveva regalare al suo amore quando prima o poi avissi capitato di incontrarlo ma che andava bene anche per la picciridda.
"Diventerà una donna anche lei" mi disse e iu fici finta di non pensare.
Amato invece mi resi una machina fotografica che però non cera bisogno di stampare le foto. Mi rissi che laveva comprata sopra a internet e io lo ringraziai tutto soddisfatto però appena nisciu labbiai in un cassetto che di sicuro ci vuleva tempu a capiri come funzionava.
Antonina Ampecchi purtau i pannolini che cerano rimasti e visto che le sue due gemelline erano cresciute la scorta era veramente abbondante.
E poi arrivanu vistituzzi. Coperte. Linzola. Macari una borsa per lacqua caura e un biberon senza tettarella. La moglie di Alfio la usava per fare le dosi dei dolci ma me la volle dare lo stesso.
A me casuzza era china di cianfrusaglie e di una picciridda.
Io solo di confusione.

La prima notte non ciarriniscii a dormire. Mavevano spiegato come dovevo fare con il pannolino e io per stare tranquillo e per imparare cenavevo cambiato uno ogni ora.
Comera bella! Più la guardavo e più mi piaceva.
Locchi soprattutto che ogni tanto li rapeva e io ci vireva u cielo.
Che strano! Pinsava che quelli niuri non ce li potessero avere locchi azzurri. Ma non era così evidentemente.
Di tutti quelli del palazzo solo una non sera fatta ancora vedere. La signora Adonia. Quella che un anno fa alla morte del marito sera presa la casa al primo piano.
Forse stava ancora chiancennu. Forse assittata davanti al telefono sperava ancora in quacche telefonata. Oppure per sopravvivere sera scordata di tutto e di tutti.
Quando cera scomparsa Suellen la figghia per un po' non sera parlato daltro nel palazzo.
Quella carusidda ciaveva appena diciotto anni.
Lei la madre aveva denunciato questa cosa ma i carabbineri avevano fatto solo finta di cercare che la figghia aveva lasciato un bigliettino daddio e poi era anche maggiorenne.
Suellen macari che aveva quel nome disgraziato era una favola.
Una di quelle fimmine che uno li talia e ci rinuncia in partenza per come sono belle. Da quando era tornata a stare nel palazzo ogni pomeriggio si formava una strana folla davanti al portone.
Tutti i carusiddi del quartiere venivano a fare limpennata con la vespa sotto al suo balcone o a giocare a pallone o a fari vuci tra loro e a pigghiarisi a pugna come se fossero veri masculi.
Poi però quando lei arrivati alle quattro meno un quarto nisceva fora che andava a una scuola per infermiera nessuno si avvicinava e stavano tutti con la bocca aperta a pisci mottu.
Se ne dissero tante quando non turnau chiù a casa. Che se nera andata per fare lattrice. Che lavevano rapita per darla a quacche sceicco. Che di sicuro prima o poi qualcuno lavrebbe riconosciuta in quacche film di quelli vietati. Nessuno ciaveva mai avuto vera confidenza con lei e così ci fu anche chi disse che aveva scelto di farsi suora o che era partita per aiutare quelli dellafrica.
Io solo di una cosa sono sicuro però che furono in tanti quelli che sognarono di ritrovarla la mattina cuccata insieme a loro.

09/03/08

La seconda canna di Catherine



Catherine aveva, da poco, iniziato a fumare la seconda canna.
Il corpo nudo pareva esser mosso da indistinti ritmi dell'anima mentre, ad occhi chiusi, la sua mente fluiva verso il mondo.
Una bizzarra sensazione però parve annullare quella pace.
Si accorse con fastidio del sangue che, lento, sgocciolava sul parquet.
"Che strano..." pensò estraendo la lama dalla schiena dell'occasionale amico.
Un fiotto scuro partì dal profondo taglio che squarciava, preciso, il cuore dell'uomo andando a macchiare i preziosi ricami della lampada in pietra che illuminava la scena alle sue spalle. L'angelo parve scuotersi poi, con calma, tutto tornò ad esser perfetto.
Catherine eliminò il rosso, ancora troppo vivo, che macchiava le splendide mani passando e ripassando le lunghe dita sul maglione sdrucito della vittima poi ripose il coltello nella piccola borsa abbandonata accanto al cuscino, infine appoggiò, con soddisfazione, il capo sul divano tornando dolcemente alle sue fantasie.
"Che strano eppure... -ripeté ancora tra sè- eppure stavo quasi per godere"
Lasciò svanire quel pensiero (pur avvertendo la necessità di un orgasmo voleva lo stesso rimandare a dopo quella conclusione); pioveva, ora.
I suoni esterni si confusero con le tenui note provenienti dalla radio. Un regalo della madre. Era rimasta accesa, in cucina. La canna, invece, continuava inesorabilmente a consumarsi tra le morbide labbra. Catherine non aveva nessuna fretta. Attendeva, con consapevolezza, la necessaria e magica sintonia tra erba e spirito.
Ovunque, sotto il suo sguardo, un pianificato ordine turbato in apparenza solo da quella cenere che ad ogni boccata sembrava voler cadere, distratta, sul capo del morto, a confondersi con i suoi riccioli neri.
Alcuni squilli annunciarono l'attivarsi della segreteria telefonica. Si sentì una voce. Con gesto rapido allontanò il corpo dell'uomo, il cui viso premeva ancora sul suo sesso eretto, decidendo seppur controvoglia di rispondere.
Era suo madre. Non poteva fingere di essere uscito.

Fonte immagine : Virginia Patrone

07/03/08

La picciridda -1-

Nelle mattine di festa uno si susi un poco più tardi. La faccia impiccicata di sonno. Due colpi di tosse. Il caffè ca nesci di fora e allodda tutta la cucina.
Per fortuna la nicuzza sembra che non me la vuole fare perdere questa abitudine. Non ora almeno. Non questa prima domenica.
Il palazzo è quasi vuoto. Chi ha deciso di farisi u bagnu se ne già andato di matina presto a mare che poi cè confusione e accussì tra sti mura rimane a surari solo qualche vecchio o qualche caruso che ha fatto tardi la sera prima.
Nina dorme ancora.
La sua facciuzza niura gioca a dama con il lenzuolo e io mi metto a sistemare tutto per quando si sveglierà. Stanotte ogni tanto mi suseva per vedere che tutto era a posto. Il respiro. Il cuscino. U linzuleddu.
Ancora non ci riesco a riposare tranquillo e poi non lo sapevo se a attaccarici il ventilatore vicino facevo bene. Poi però non lò fatto. Ci ho solo levato la maglietta prima di coprirla che mi scantavo che si arifriddava.
Su ci cririssi me ne andrei alla missa a ringraziare il Signore. Di certo però lui se cè lo sa già e allora io posso ancora perdere tempo a fumarimi la prima sigaretta prima di puliziari il biberon.

Ancora non li ho accattati i frigoriferi per le case. Certo di sicuro pecchè mi mancano i soddi ma anche pecchè mi sembrano tutti pazzi dentro quelle gabbie chiuse che uno non può aprire la finestra o aspittari u vento o che macari su ciavi voglia di nesciri non lo fa che fuori è troppo caldo.
Io ciò il ventilatore. Uno antico che ho agganciato al paletto che serve per fare le fotografie. Quacche fotografo tannicchia scarso lo aveva ittatu dentro il cassonetto della munnizza e a me mi fici pena che si vedeva subito da come pinneva che ci mancava solo una vite. E insomma non era una morte giusta e accussì u pigghiai che prima o poi di sicuro poteva essermi utile. E infatti.
Certo forse non dormo bene come agli altri macchimminifutti? Se uno ciavi vogghia di dormiri dormi lo stesso.
Quando proprio cè troppo caldo poi mi piaci nesciri appena fa luci con quellaria frizzantina che pari fatta apposta per quelli come a mia.
Scinno le scale. Mi affaccio nella strada per vedere se per qualche miracolo il bar ha aperto prima e poi quando mi tranquillizzo che linsegna è ancora astutata mi faccio un giro tutto intorno al palazzo.
Visto di sutta è unaltra cosa. Sembra gigantesco. E poi in questa stagione è ancora più pieno di colori che in ogni balcone cè stesa almeno una tovagghia del mare e macari se non lo sai quanta gente e di quale età ci vive in quella casa fai presto a fare i conti. Onde con la schiuma bianca bianca e fimmini con il culo bene in vista e poi palme o grattacieli e i colori delle squadre e i pupazzi dei cartoni. E come se ognuno ciavissi il suo biglietto di visita e ci facissi pubblicità.
Cè silenzio macari a quellora. Tutti ancora dormono.
Era un giorno così che il sole aveva appena iniziato a farisi il suo solito giro quando accuminciau questa storia.
Mi ricordo preciso che quaccuno aveva festeggiato la notte abbruciando un cassonnetto e che il feto e il fumo avevano costretto tutti a trasiri i robbi dentro casa. Eppoi anche che il bar non si sappi picchì era aperto quel giorno e cera Mario il barista che faceva la lotta con le bratte che avevano conquistato la machina del cafè.
"Non ti pozzu fari nenti Totò!"
"Ma un cafè friddu non cillhai?"
"Aspetta allora"
Con la mano sinistra si scutulau quacche cosa che camminava sopra alla sua camicia bianca e vinni da me. Mentre saccalava per prendere la bottiglia di cafè dentro il frigorifero sotto al bancone io ci resi una occhiata in giro.
Mario sera candidato per fare il consigliere di quartiere con il partito do minchiataro ma lui dentro il suo bar ciaveva tutti i ricordi di Benito.
Le monete. La bandierina. Il busto come ai musicisti. Il calendario con le foto che ogni anno se ne accattava uno nuovo.
Mavevano anche raccontato che era stato dentro per una cosa di bummi. Io comunque non celavevo mai spiato anche se penso che era vero.
"Mario ma poi comu finiu?"
"Con che cosa?"
"Collelezioni"
"Mi mancavano cinque voti"
"E allora?"
"Nenti. E allura nenti."
"Ma i prossimi?"
"I prossimi chi?"
"Le elezioni Mario! Chiffai ti presenti?"
"Totò ma chi mi stai pigghiannu po culu?"
"No"
"Qua cè il caffè "
"Grazie. Chiffai me li segni?"
"Ma se non veni mai? Lassa perdiri te lo offro io"
"Grazie. A buon rendere"
Niscii fora allaria aperta senza aspittari nemmeno di accendermi la sigaretta.
Io la sapevo la storia dei cinque voti e anche che i soddi comu consigliere di quartiere gli servivano per lunico suo figghio che ancora non aveva travagghio. Però mi divertiva stuzzicarlo e facevo finta di dimenticarlo ogni vota.
Cheppoi ciavevano tentato tanti a pigghiarli quei soddi al comune. A conti fatti vinciu chi ciaveva più parenti vicino casa.
Volendo a Mario ciavissa bastato pensarci prima invece di fare u iettabummi.
Futtiri chiossai e fari figghi che accussì anche lui acchianava.

Tornando verso casa me ne accorsi subito che cera un po' di confusione strana davanti al portone.
Era troppo presto per pensare a qualche gita a mare o minchiate simili.
Per un momento pinsai anche di accelerare il passo ma ci rinunciai subito. Non volevo iniziare la giornata sudando e poi se era successo qualcosa io ero già in ritardo.
Quando finalmente arrivai che mero fumato la prima e addumato la seconda sigaretta era sceso anche il resto del palazzo. Ora tutti insieme formavano un cerchio come a quello delle squadre di regbi quando ciabbiano la palla in mezzo alle cosce solo che lì in mezzo non cera un pallone a forma di uovo di pasqua ma la sorpresa già bella scartata e pronta.
Mi ficiunu passari in prima fila come se si fossero messi daccordo e al centro del gruppo il Cavaleri tinena una pezza ianca ca chianceva.
"E chistu cu ie?" mi venne da dire.
"No sacciu Totò! Però è fimmina!" marrispunniu tutto premuroso il vecchio.
Il Cavaliere sembrava quasi una persona normale. Nessuna delle donne che lo circondavano ci livava quel fagotto dalle mani e lui con la faccia tutta sorridente si abbracciava quella picciridda quasi fosse stata una sua niputedda.
Alfio u curnutu si avvicinò e accuminciau a parlarmi.
"Stamatina la Signora Alicata nisciu presto che doveva partire per una visita a so maritu e appena arrivau con lascensore al piano terra visti che davanti alle scale cera un sacchettino strano. Quando si accorse di quello che era chiamau a tutti..."
"Macari i carabbineri?"
"No! E' che ne abbiamo parlato e tu non ceri e..."
"Ma a scusari qualcuno la deve avere lasciata sta..."
Alfio continuava a non darimi veramente cuntu. Era tutto preso da quello che mi doveva dire che sembrava che selera imparato a memoria.
"Noi abbiamo discusso e cera chi non era daccordo ma poi..."
"Sì va bene! Ma i carabbineri? E la polizia?"
"Aspetta Totò ti dicevo che poi il Cavaliere cià avuto questa idea e insomma..."
Solo in quel momento mi accorsi che cera un silenzio assoluto. Anche la picciridda aveva smesso di piangere e tutti taliavano ammia.
"Tu te la devi tenere Totò!"
La voce del Cavaliere era di quelle che non volevano essere contraddette.
Iu mi fici nicunicu e arriniscii solo ad accalarici la testa.
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