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23/05/08

Capaci 2

N. 1370/98 R.G.N.R.

N. 908/99 R.G.I.P.


T R I B U N A L E D I C A L T A N I S S E T T A

UFFICIO DEL GIUDICE PER LE INDAGINI PRELIMINARI



DECRETO DI ARCHIVIAZIONE

(artt.409 e 411 c.p.p.)


Il Giudice, dott. Giovanbattista Tona, nel procedimento nei confronti di:

· BERLUSCONI Silvio, nato a Milano il 29 settembre 1936;

· DELL’UTRI Marcello, nato a Palermo l’1 settembre 1941;



in relazione al reato di cui agli artt.110-422 c.p., 7 d.l. 13 maggio 1991, n.152 (conv. in l. n.203/91) (c.d. aggravante della finalità mafiosa), 1 d.l. 15 dicembre 1979 n.625 (conv. in l.n.15/80) (c.d. aggravante della finalità di terrorismo).


OSSERVA


1. Origine del presente procedimento

Il presente procedimento è stato avviato sulla base delle risultanze investigative emerse in altre indagini contro ignoti relative agli attentati nei quali sono stati uccisi i magistrati Giovanni Falcone, Francesca Morvillo, Paolo Borsellino e i rispettivi uomini delle loro scorte.
In particolare in data 22/7/1998, il Procuratore della Repubblica di Caltanissetta disponeva con articolato provvedimento l’iscrizione nel registro degli indagati di Silvio Berlusconi e Marcello Dell’Utri in base ad una serie di risultanze che delineavano una notizia di reato a loro carico, quali mandanti delle stragi di Capaci e di via D’Amelio.
I dati che hanno legittimato tale decisione del Procuratore in sede sono richiamati nello stesso provvedimento di iscrizione e si ricavano dai verbali di interrogatorio del collaboratore Salvatore Cancemi inerenti a “persone importanti” che avrebbero concorso a decidere l’eliminazione fisica di Falcone e Borsellino in maniera eclatante nell’ambito di una più articolata “strategia terroristica” di “cosa nostra”, nonché nei verbali relativi ai rapporti gestiti da Vittorio Mangano, prima, e da Salvatore Riina, poi, con i vertici del circuito societario Fininvest.
Ma oltre ad essi – ad avviso del P.M. – conducevano verso l’ipotesi investigativa di un coinvolgimento di Berlusconi e Dell’Utri anche le dichiarazioni di Tullio Cannella e di Gioacchino La Barbera in relazione a contatti di “cosa nostra” con imprenditori del nord e ad un interessamento della stessa organizzazione per l’installazione di un ripetitore per l’emittente Canale 5; le dichiarazioni di Gioacchino Pennino ed Angelo Siino sui personaggi che avevano avuto interesse ad eliminare i due magistrati, oramai assai attenti a delineare i rapporti tra mafia ed imprenditoria; ed infine gli esiti delle investigazioni svolte dalla DIA e dal Gruppo “Falcone e Borsellino” che avevano aperto prospettive di approfondimento in ordine ai rapporti di Berlusconi e Dell’Utri con l’organizzazione “cosa nostra”.
Il P.M. quindi formava un nuovo fascicolo ed iscriveva gli odierni indagati, per ragioni di segretezza, con le sigle “alfa” e “beta”.
Già la Procura della Repubblica di Firenze aveva disposto l’iscrizione di Berlusconi e Dell’Utri, sotto le sigle “Autore 1” e “Autore 2”, in un procedimento relativo a fatti di strage commessi a Roma, Firenze e Milano dal maggio 1993 all’aprile 1994, considerati rientranti in un unico disegno che avrebbe previsto una “campagna stragista continentale avente come obiettivo strategico (anche) quello di ottenere una revisione normativa che invertisse la tendenza delle scelte dello Stato in tema di contrasto della criminalità mafiosa” (cfr. richiesta di proroga dei termini delle indagini formulata dal P.M. fiorentino in data 22/7/1997), ed in particolare:

- la strage di via Fauro a Roma (attentato a Maurizio Costanzo) il 14/5/1993;

- la strage di via de’ Georgofili di Firenze (attentato agli Uffizi) il 27/5/1993;

- la strage di via Palestro a Milano (attentato al Padiglione di Arte Contemporanea) il 27/7/1993;

- le stragi di san Giorgio al Velabro e di San Giovanni in Laterano a Roma il 28/7/1993;

- la strage dello stadio Olimpico di Roma tra gli ultimi del 1993 ed i primi del 1994;

- la strage di Formello-Roma (attentato a Salvatore Contorno) il 14/4/1994.

Nel corso di quelle indagini erano stati acquisiti diversi elementi che avvaloravano l’ipotesi di un’unitaria strategia dell’organizzazione mafiosa finalizzata a condizionare le scelte di politica criminale dello Stato e a ricercare nuovi interlocutori da appoggiare nelle competizioni elettorali.
Va ricordato che il P.M. di Firenze in data 7/8/1998 aveva chiesto al GIP territoriale l’archiviazione del procedimento, concludendo, a seguito di complesse indagini, che non erano stati acquisiti elementi certi in ordine al fatto che l’interlocutore politico di “cosa nostra” in quel periodo avesse partecipato all’“accordo”, intervenuto all’interno dell’organizzazione, al fine di attuare la grave offensiva militare degli anni 1992-1994.
Il GIP di Firenze ha accolto la richiesta con provvedimento in data 14/11/1998, rilevando che “le indagini svolte hanno consentito l’acquisizione di risultati significativi solo in ordine all’avere cosa nostra agito a seguito di inputs esterni, a conferma di quanto già valutato sul piano strettamente logico; all’avere i soggetti (cioè gli odierni indagati, n.d.r.) di cui si tratta intrattenuto rapporti non meramente episodici con i soggetti criminali cui è riferibile il programma stragista realizzato, all’essere tali rapporti compatibili con il fine perseguito dal progetto”. Concludeva tuttavia che, sebbene “l’ipotesi iniziale abbia mantenuto e semmai incrementato la sua plausibilità”, gli inquirenti non avevano “potuto trovare – nel termine massimo di durata delle indagini preliminari – la conferma delle chiamate de relato e delle intuizioni logiche basate sulle suddette omogeneità”.
Mentre si chiudeva l’indagine dell’Ufficio requirente di Firenze, prendeva le mosse quella avviata dalla Procura di Caltanissetta. In data 26/8/1999 veniva concessa da questo Ufficio la proroga del termine delle indagini preliminari per sei mesi, poiché alcuni accertamenti di particolare complessità erano ancora in corso.
In data 29/2/2000, veniva concessa altra proroga del termine delle indagini per ulteriori sei mesi in considerazione dell’esigenza di completare ulteriormente le investigazioni.
Il termine per le investigazioni scadeva il 23/7/2000.
In data 2/3/2001, il P.M. in sede depositava presso questo Ufficio la richiesta di archiviazione del procedimento e contestualmente trasmetteva i 21 faldoni che contenevano gli atti di indagini.
Dopo che – com’è notorio – tutti gli organi di stampa avevano dato notizia di tale determinazione del P.M., in data 22/3/2001 il difensore di Silvio Berlusconi chiedeva a questo Ufficio il rilascio di copia della richiesta di archiviazione avanzata dalla Procura in sede nel presente procedimento, facendo riferimento ad “un’attestazione ricevuta in data 1/3/2001 che si allega in copia”.
La richiesta del predetto difensore veniva dal G.I.P. trasmessa al P.M. perché fornisse il suo parere in considerazione del fatto che la stessa Procura aveva disposto la secretazione dei nominativi degli indagati, pure mantenuta al momento del deposito della richiesta di archiviazione.
In relazione a tale ultimo profilo, il G.I.P. dava atto che i plichi contenenti il provvedimento di iscrizione e contestuale secretazione (dai quali si ricavano le effettive generalità dei soggetti sottoposti ad indagine), nonché le richieste e i decreti di proroga delle indagini preliminari, risultavano già aperti al momento del deposito della richiesta di archiviazione e del fascicolo nella Cancelleria dell’Ufficio.
Il G.I.P. dava altresì atto che, a differenza di quanto asserito dal difensore richiedente, non era stata allegata all’istanza la copia dell’attestazione della Procura in sede in data 1/3/2001 che lo avrebbe ufficialmente informato del deposito della richiesta di archiviazione. La data dell’1/3/2001 peraltro è antecedente a quella di deposito della richiesta di archiviazione presso questo Ufficio (deposito, come si è detto, avvenuto il 2/3/2001).
Il P.M. forniva parere favorevole e aggiungeva che l’apertura dei plichi era stata dovuta “alla verifica di corrispondenza tra il numero di iscrizione e i soggetti” e che, quanto all’attestazione richiamata dal difensore ma non prodotta, “si tratta di mera comunicazione orale, da parte della Segreteria, previa autorizzazione”.
In data 23/3/2001 questo Ufficio rilasciava copia della richiesta di archiviazione al difensore di Berlusconi, dando atto che, sulla base alle spiegazioni fornite dal P.M. nel suo parere, le esigenze di riservatezza che lo avevano indotto a secretare i nominativi degli indagati potevano ritenersi del tutto superate.
E’ fatto notorio che tra il 27/3/2001 ed i giorni successivi la stampa ha fornito ampia contezza dei contenuti della richiesta di archiviazione con espliciti riferimenti ai nominativi degli odierni indagati.
Alla luce di tutte le predette circostanze e del fatto che la maggior parte delle dichiarazioni dei collaboratori di giustizia agli atti sono state rese in pubblici dibattimenti, appare chiaramente superfluo nel presente provvedimento utilizzare le sigle convenzionali attribuite dal P.M. agli odierni indagati per mantenerne riservata l’identità; pertanto costoro
saranno sempre indicati con i loro nominativi e le loro generalità.

2. Gli atti contenuti nel fascicolo
Il presente procedimento contiene una copiosa quantità di atti investigativi, confluiti da diversi altri procedimenti, nonché di atti giudiziari, parte dei quali su supporto informatico.
Essi provengono tra l’altro:
- dall’originario procedimento a carico di ignoti, aperto dalla Procura in sede, per i reati di strage che avevano come obiettivo il dott. Falcone e il dott. Borsellino;
- dai procedimenti instauratisi dinanzi all’A.G. di Firenze per le stragi consumate a Roma, Firenze e Milano negli anni 1993-1994 e di cui sopra si è parlato; tra questi, la sentenza di I grado a carico di Bagarella + 25, nonché alcuni verbali dibattimentali di escussione di collaboratori di giustizia;
- dai giudizi instauratisi dinanzi alla Corte di Assise di Caltanissetta per la strage di Capaci, per la strage di Via D’Amelio e per l’attentato dell’Addaura in danno di Giovanni Falcone; tra questi, diversi verbali dibattimentali di escussione di collaboratori di giustizia;
- dal procedimento n. 2566/98 r.g.n.r. pendente dinanzi all’A.G. di Palermo (c.d. “sistemi criminali”) per il reato di associazione mafiosa e di associazione eversiva;
- dal procedimento pendente dinanzi all’A.G. di Palermo a carico di Marcello Dell’Utri per il reato di cui agli artt.110-416bis c.p.; tra questi, atti di indagine e verbali dibattimentali considerati dal P.M. in sede rilevanti per l’accertamento dei presunti contatti di Dell’Utri con l’organizzazione “cosa nostra”.
- dal procedimento n.263/95 r.g.n.r. della Procura di Aosta (c.d. “Phoney Money”) a carico di Scalesse Girolamo e altri; in tale procedimento, dopo che fu accertata l’esistenza di un’organizzazione a delinquere finalizzata a commettere ingenti truffe e attività di riciclaggio attraverso operazioni finanziarie, emersero diversi elementi (compendiati nei verbali e negli atti investigativi confluiti nel presente fascicolo) che dimostravano come alcuni protagonisti di queste condotte illecite si erano adoperati per condizionare esponenti delle istituzioni nelle scelte politiche che segnarono il periodo coevo e immediatamente successivo alle stragi del 1993;
- dal procedimento n. 4488/95 r.g.n.r. della Procura di Torino – gruppo reati tributari; tra questi verbali di interrogatorio e atti di indagine che evidenziano i rapporti di FININVEST con Ezio Cartotto;
- dal procedimento c.d. “Oceano”, dal quale sono state acquisite alcune note investigative elaborate su delega del P.M. di Milano;
- dai vari procedimenti del P.M. di Sciacca e del P.M. di Milano a carico di Massimo Maria Berruti, dai quali emergono le attività economiche lecite e illecite di quest’ultimo, i suoi contatti con la FININVEST da un lato e con esponenti di “cosa nostra” dall’altro;
- dal proc. n.1208/96 r.g.n.r. della Procura di Caltanissetta, nel quale erano state valutate come inattendibili alcune dichiarazioni “de relato” dei collaboranti Tullio Cannella e Gioacchino Pennino a carico del dott. Luigi Croce ed erano emersi, come scrisse il GIP in sede nel decreto di archiviazione in data 6/7/1999, “aspetti alquanto inquietanti, specie in considerazione della… commistione di probabili menzogne e marginali verità”.

Il P.M. nisseno ha inoltre svolto ulteriori attività di indagine, il più delle volte coordinate con altre autorità inquirenti competenti per procedimenti collegati, e che sono consistite in ulteriori interrogatori di collaboratori di giustizia e di persone informate sui fatti, nonchè in una serie di accertamenti investigativi delegati alla DIA.
Agli atti si rinvengono anche due videocassette: la prima contiene un’intervista al collaboratore Maurizio Avola del 14/12/1999, spedita da Roberto Gugliotta, la seconda contiene un’intervista al collaboratore Salvatore Cancemi, senza data, spedita da Sigfrido Ranucci di RAI NEWS 24. I contenuti delle stesse sono meramente reiterativi delle dichiarazioni rese dagli stessi collaboranti agli Uffici inquirenti che li avevano in precedenza escussi.
In atti si rinviene anche una dichiarazione sottoscritta da Ranucci, nella quale egli affermava di aver consegnato l’8/7/2000 al dott. Tescaroli la videocassetta contenente l’intervista rilasciata dal dott. Borsellino il 21/5/1992 ai giornalisti Fabrizio Calvi e Jean Pierre Moscardo; affermava altresì di essere venuto in possesso della videocassetta il 7/7/2000, tramite consegna della signorina Fiammetta Borsellino, che l’aveva rinvenuta nell’archivio del padre.
Il P.M. con provvedimento a margine disponeva l’inserimento agli atti; tuttavia nel fascicolo trasmesso al GIP, allegata a questo documento trovasi la sopracitata videocassetta contenente l’intervista a Cancemi (pure proveniente da Ranucci ma depositata in altra data). Non è stata invece rinvenuta alcuna cassetta contenente la registrazione di tale intervista al dott. Borsellino, nonostante la specifica indicazione nell’indice.
Vi è in atti una copia della trascrizione di essa, pubblicata sulla rivista “L’Espresso” dell’8/4/1994.
Risulta da tale pubblicazione che il magistrato fece specifico riferimento all’esistenza di atti di indagine che accertavano rapporti poco chiari tra Mangano e Dell’Utri, precisando tuttavia di non poter fornire indicazioni specifiche in quanto non si era mai occupato direttamente di quell’inchiesta.
La segnalata lacuna del fascicolo, in relazione alla mancanza della videocassetta depositata da Ranucci, non appare a questo Ufficio influente per la definizione del procedimento, in quanto già da quel che risulta dalla trascrizione dell’intervista non emergono elementi di determinante interesse con riferimento all’ipotesi accusatoria.
Si vedrà che dagli altri atti investigativi, contenuti al fascicolo, risulterà agevolmente accertabile l’esistenza di rapporti e contatti tra Mangano e Dell’Utri in forza sia delle indagini cui si riferiva il magistrato sia di quelle successivamente svolte. Le circostanze cui ha fatto riferimento Borsellino erano già ampiamente note all’epoca dell’intervista, come da lui stesso sottolineato. Infine, da quanto dichiarato dal magistrato ai giornalisti francesi che lo intervistavano, egli non era direttamente interessato alle indagini, sicchè i contenuti, i tempi e le forme delle sue esternazioni riguardanti Dell’Utri non potrebbero costituire adeguati spunti indiziari in relazione ad un eventuale movente del suo assassinio.
Per vagliare l’ipotesi accusatoria, originariamente formulata dal P.M., e la richiesta di archiviazione avanzata dallo stesso P.M. a questo Ufficio, occorre svolgere un’attenta selezione del copioso e variegato materiale agli atti, sopra schematicamente indicato; quindi, proprio in considerazione della gravità dell’imputazione e della qualità degli indagati, che il P.M. ha inteso segnalare nella sua richiesta, è necessario esaminare approfonditamente tutti quegli elementi che potrebbero prefigurare un loro interesse o movente alla realizzazione dei reati per cui si procede e una loro eventuale condotta di istigazione al compimento di tali delitti; verrà così verificato se tali indizi abbiano avuto un riscontro positivo o negativo, se abbisognino di ulteriori approfondimenti o se, invece, nell’insussistenza di altre plausibili e utili piste investigative, siano di per se stessi inidonei a sostenere l’accusa in dibattimento.


3. I fatti oggetto del presente procedimento, le responsabilità degli aderenti all’organizzazione mafiosa “cosa nostra”, le eventuali ulteriori responsabilità

3.1 – Le stragi di Capaci e di Via D’Amelio sono state oggetto di diversi processi, che, com’è notorio, hanno visto quali imputati numerosi appartenenti a “cosa nostra”. E’ del pari notorio che l’ipotesi accusatoria che riconduceva a tale organizzazione la deliberazione e l’esecuzione di tali stragi ha trovato positivo riscontro in sede dibattimentale e le Autorità giudiziarie competenti la hanno accolta irrogando numerose e severe condanne a carico dei dirigenti di “cosa nostra”, nonchè degli affiliati e degli “avvicinati” che avevano contribuito alla realizzazione delle stragi stesse. Nell’ambito di questi dibattimenti, è pure emerso che tali gravi delitti trovarono ragione in una complessiva strategia di attacco dell’associazione “cosa nostra” finalizzata a riaffermare le proprie posizioni a seguito delle prime più incisive azioni dello Stato nei suoi confronti, ma fu evidenziata la scansione assolutamente inedita delle due stragi, tra loro molto ravvicinate nel tempo, nonché la loro coincidenza con un delicato momento politico-istituzionale, nel quale le sorti e i propositi di “cosa nostra” sembravano intersecarsi con la crisi delle formazione politiche che per decenni erano state forze di governo in Italia.
Occorrerà ripercorre le tappe di tali vicende, avvalendosi della ricostruzione della Direzione centrale della Polizia di Prevenzione in data 5/2/1998.
Il 18 febbraio 1991 il dott. Giovanni Falcone veniva chiamato a dirigere l’Ufficio Affari Penali del Ministero di Grazia e Giustizia all’epoca retto dall’on. Claudio Martelli. Nell’aprile dello stesso anno il governo Andreotti adottava un decreto- legge per impedire le scarcerazioni per decorrenza termini di cui avevano già beneficiato diversi aderenti ad organizzazioni mafiose. Alla fine dello stesso anno si celebrava il III grado di giudizio dinanzi alla I Sezione della Corte di Cassazione per il maxiprocesso di Palermo ed il 30 gennaio 1992 veniva emessa una sentenza che, recependo l’ipotesi accusatoria in ordine al funzionamento della commissione di “cosa nostra”, annullava le assoluzioni dei personaggi di vertice dell’organizzazione, confermando le altre condanne.
Trascorrevano poco più di due mesi ed il 12/3/1992, nel corso della campagna elettorale per il rinnovo del Parlamento Italiano, veniva ucciso Salvo Lima, esponente della corrente andreottiana in Sicilia. In quello stesso periodo Elio Ciolini, un detenuto già condannato per depistaggio, forniva delle informazioni relativamente ad un piano destabilizzante che si stava preparando in Italia e che prefigurava gravi attentati a personaggi delle istituzioni nel periodo di marzo-luglio 1992; il Ministero dell’Interno inviava allora una circolare a tutti i prefetti d’Italia, sollecitando un rafforzamento delle misure di sicurezza.
Dopo le elezioni politiche del 5 e 6 aprile, che indebolirono i partiti tradizionali di governo, i cui esponenti erano stati già colpiti dalle inchieste giudiziarie c.d. di “Tangentopoli”, si dimettevano il 24 aprile il Presidente del Consiglio in carica, Giulio Andreotti, e poi, il giorno dopo, anche il Presidente della Repubblica Francesco Cossiga.
In questa situazione, e dopo un conflitto istituzionale tra il Ministro di Grazia e Giustizia Martelli e il CSM relativo alla nomina di Giovanni Falcone a Procuratore Nazionale Antimafia, il 23 maggio avveniva la strage di Capaci.
Due giorni dopo veniva eletto Presidente della Repubblica Oscar Luigi Scalfaro e si riproponeva la questione della designazione del Procuratore Nazionale Antimafia; nel dibattito emergeva la candidatura di Paolo Borsellino.
Il 6/7/1992 trapelava la notizia del trasferimento degli imputati e dei condannati per associazione mafiosa nelle carceri di massima sicurezza di Pianosa e di Fossombrone.
Il 19/7/1992 veniva fatta esplodere l’autobomba di via D’Amelio.
Venivano a questo punto adottate iniziative legislative e di polizia particolarmente penetranti nei confronti delle organizzazioni mafiose. In particolare veniva accelerata la conversione in legge del d.l. 8/6/1992 n.306 recante provvedimenti di contrasto alla criminalità mafiosa, in relazione al quale in un primo momento alcune forze politiche avevano opposto delle resistenze.
Il Ministro degli interni dell’epoca, Nicola Mancino (verb. P.M. Caltanissetta 28/6/2000), ha riferito che, dopo le stragi di Capaci e di Via d’Amelio e dopo l’adozione di misure di penetrante contrasto a “cosa nostra” (operazione “Vespri Siciliani”, introduzione del regime carcerario differenziato di cui all’art.41bis O.P., trasferimento dei mafiosi nelle carceri di Pianosa e dell’Asinara), tutti i vertici di Polizia e dei Servizi Segreti si erano convinti che il fronte dell’aggressione mafiosa si sarebbe spostato dalla Sicilia verso il Continente, dove nel frattempo si era fatta più debole la presenza dello Stato. Tale convincimento venne poi confermato dalla strage di via dei Georgofili a Firenze.

3.2 – Risulta in atti che le stragi di Capaci e di Via D’Amelio furono rivendicate dalla “Falange Armata”, una sigla con la quale per la prima volta il 22/5/1990 un anonimo telefonista si era attribuito la paternità dell’omicidio di un educatore del carcere di Opera di Milano e in nome della quale molti altri messaggi telefonici o epistolari nel corso degli anni si attribuiranno la paternità di svariati omicidi e attentati, diffondendosi in valutazioni politiche circa la necessità di una strategia eversiva e mostrando approfondita conoscenza delle vicende istituzionali in atto.
I giudici della Corte di Assise di Firenze nella sentenza a carico di Bagarella + 25 in data 6/6/1998 (depositata il 21/7/1999) evidenzieranno come gli uomini di “cosa nostra” che organizzarono ed eseguirono gli attentati stragisti del 1993 avevano anche il compito di mimetizzare l’attività dell’organizzazione attraverso delle rivendicazioni degli attentati a nome della “Falange Armata”. Ma, come pure risulta in atti, questa sigla aveva operato e continuò ad operare anche al di là dell’uso strumentale che ne fecero gli aderenti a “cosa nostra”; tuttavia oltre all’individuazione di alcuni telefonisti che avevano agito per suo conto, le indagini non ottennero risultati e non consentirono di accertarne in maniera univoca e definitiva la matrice.
La Corte di Assise di Caltanissetta, nella sentenza che ha concluso il c.d. “Via D’Amelio ter”, ha sostenuto che “risulta quanto meno provato che la morte di Paolo Borsellino non era stata voluta solo per finalità di vendetta e di cautela preventiva, bensì anche per esercitare – cumulando i suoi effetti con quelli degli altri delitti eccellenti – una forte pressione sulla compagine governativa che aveva attuato una linea politica di contrasto alla mafia più intensa che nel passato ed indurre coloro che si fossero mostrati disponibili tra i possibili referenti, a farsi avanti per trattare un mutamento di quella linea politica (…).
E proprio per agevolare la creazione di nuovi contatti politici occorreva eliminare persone che come Borsellino avrebbe scoraggiato qualsiasi tentativo di approccio con cosa nostra”. A queste conclusioni la Corte è giunta valorizzando anche le dichiarazioni di diversi collaboratori di giustizia che contengono anche quegli elementi costituenti notitia criminis a carico degli odierni indagati.
Appare allora opportuno esaminare, in maniera approfondita, le propalazioni dei collaboratori a carico di Berlusconi e Dell’Utri nei loro contenuti, nella loro genesi e nella loro progressione, tenendo conto dei verbali a disposizione di questo Ufficio.

4. Le dichiarazioni di Salvatore Cancemi

4.1 – Salvatore Cancemi è un collaboratore di giustizia che proviene dai ranghi direttivi di “cosa nostra”, essendo stato reggente del mandamento di Porta Nuova e come tale componente della c.d. “Commissione Provinciale”, competente a decidere gli omicidi di uomini dello Stato; questo suo ruolo era già noto agli investigatori, prima ancora che egli se lo attribuisse con le sue dichiarazioni e che lo confermassero altri collaboratori provenienti dalla stessa organizzazione.
La sua collaborazione è iniziata, quando egli ha deciso di consegnarsi spontaneamente ai Carabinieri il 22/7/1993. Sui motivi di tale decisione non sono state acquisite indicazioni univoche. Altri collaboranti, come Brusca, hanno sostenuto che Cancemi all’interno di “cosa nostra” aveva favorito propri parenti e per questo doveva essere ucciso; resosi conto del pericolo, dopo aver ricevuto un messaggio che gli fissava un appuntamento che sarebbe dovuto essere per lui una trappola, egli avrebbe riparato sotto la protezione dei CC.
Cancemi non ha smentito del tutto la circostanza, ammettendo che Raffaele Ganci gli aveva detto di stare attento ad andare agli appuntamenti. Ha poi pure spiegato di essersi presentato ai CC con un biglietto relativo ad un appuntamento fissatogli da Bernardo Provenzano, biglietto che consegnò ai militari per consentire loro utili e immediate attività investigative. Ha invece escluso che la sua costituzione spontanea nascesse dal timore di essere ucciso.
Le Corti di Assise nissene che ne hanno valutato l’attendibilità e che lo hanno giudicato come concorrente nelle stragi di Capaci e di Via D’Amelio hanno evidenziato che Cancemi fu certamente mosso dall’intento di allontanarsi da “cosa nostra” per motivi non univocamente accertabili e che cercò la protezione dello Stato perché comunque l’uscita dall’organizzazione, vista anche la sua pregressa posizione di rilievo, ne avrebbe potuto comportare l’eliminazione fisica.
Il suo percorso collaborativo, specie in ordine alle sue conoscenze e alle sue responsabilità nelle stragi di Capaci e di Via D’Amelio (quelle che interessano il presente procedimento), è stato quanto mai accidentato e costellato da reticenze, che sono state già oggetto di approfondita esplorazione da parte dei giudici dibattimentali.
All’inizio egli negò di essere uno dei componenti della Commissione Provinciale (ruolo spettantegli quale reggente di un mandamento) e negò pure di aver preso parte a queste due stragi; successivamente ha ammesso di aver concorso a quella di Capaci, continuando a negare qualsiasi responsabilità nell’attentato al dott. Borsellino. Solo nel 1996, e dopo che altri collaboratori lo avevano chiamato in causa, ha ammesso di aver preso parte pure alla strage di via D’Amelio.
Questo comportamento è stato spiegato dal Cancemi con il travaglio psicologico, che gli rendeva difficile d’un tratto uscire dalla mentalità di “cosa nostra” e superare la “vergogna ad ammettere alcune cose”. Si è descritto “come una vite arrugginita che ci vuole del tempo per svitarla” (cfr. verb. 29/4/1999 dinanzi alla Corte di Assise di Firenze proc. Graviano + 3).
Per giustificare la gradualità della sua collaborazione ha spesso invocato – con formule talvolta stucchevoli – la consapevolezza degli effetti dirompenti che le sue dichiarazioni avrebbero avuto su “cosa nostra” (“io a cosa nostra ci ho creato un terremoto di decimo grado”; cfr. verb. 29/4/1999, cit.).

4.2 – In relazione a quanto di interesse per il presente procedimento, Cancemi ha dichiarato al P.M. nisseno l’1/11/1993 che, nel maggio del 1992, di ritorno da una riunione con altri soggetti di “cosa nostra”, egli aveva discusso con Raffaele Ganci dell’attentato a Giovanni Falcone. Ganci gli avrebbe detto che Riina aveva avuto un incontro con persone molto importanti, insieme alle quali aveva deciso di “mettere una bomba a Falcone. Queste persone importanti” – avrebbe aggiunto Ganci – “hanno promesso allo zù Totò che devono rifare il processo nel quale lui è stato condannato all’ergastolo”.
Ganci non avrebbe aggiunto altro né Cancemi ritenne di fargli altre domande. Trascorsi una ventina di giorni, si verificò la strage di Capaci. In quell’interrogatorio Cancemi disse di essere andato con Ganci a due riunioni con altre persone di “cosa nostra” ma non fornì alcuna dichiarazione relativa alle proprie condotte di concorso nella strage. Nell’interrogatorio del 2/11/1993, Cancemi ha ricollocato nel tempo la conversazione intrattenuta con Ganci; ha parlato di tre riunioni, ha affermato che il colloquio ebbe luogo dopo la terza riunione, avvenuta proprio nei dintorni di Capaci, e che la strage avvenne circa 8-10 giorni dopo.
Nell’interrogatorio del 4/11/1993, Cancemi ha nuovamente ricollocato nel tempo la detta conversazione, confermandone tuttavia ulteriormente il contenuto.
Nel corso dell’interrogatorio del 7/1/1994, ha rievocato “il discorso… che Ganci mi confidò che Salvatore Riina si era incontrato con personaggi importanti proprio in relazione all’attentato in danno del giudice Falcone per ottenere in cambio una probabile revisione dei processi o altri favori come per esempio la non approvazione della legge sui pentiti o comunque
di non rendere possibile una legislazione sfavorevole all’organizzazione di cosa nostra”. Ha aggiunto: “Mi rendo conto che (…) devo indicare alle SS.LL. fatti e circostanze precise. Sono certo che con il tempo e quando io riacquisterò una serenità interiore io sarò in grado di affrontare più completamente questo discorso, ma siate certi sin da ora che le parole di Raffaele Ganci a proposito dell’incontro avuto con Salvatore Riina rispondono purtroppo a verità”
“Ribadisco di non aver saputo da Ganci Raffaele né quando mi fece questa confidenza, né in epoca successiva sino alla data della mia costituzione, chi erano i personaggi importanti in contatto con Riina”. In quell’occasione Cancemi si limitò a ricostruire il mutamento delle scelte elettorali di “cosa nostra”, che alla fine degli anni “80 decise di indirizzare
i propri voti verso alcuni candidati del PSI anziché, come tradizionalmente aveva fatto, verso esponenti della DC.
Sul punto il P.M. nisseno tornò durante l’interrogatorio del 18/2/1994, ma ancora una volta Cancemi ribadì la veridicità del colloquio senza aggiungere altri particolari. Affermò: “una cosa deve essere chiara che queste ‘persone importanti’ non erano certo uomini di ‘cosa nostra’, perché più importanti di Riina e Provenzano non ce ne sono all’interno dell’organizzazione e quindi i personaggi con cui Riina si è incontrato li dovete cercare fuori dall’organizzazione”.

4.3 – Nel corpo di quel verbale, Cancemi, pur continuando ad astenersi dall’identificare tali soggetti, introdusse alcune circostanze relative ai rapporti che Riina in precedenza aveva instaurato con persone che si potevano considerare “importanti” ed esterne a “cosa nostra” e parlò di Berlusconi e di dell’Utri, assumendo al contempo un atteggiamento possibilista in ordine all’eventualità di fornire in futuro altre informazioni (“Voglio che sia verbalizzato che è probabile che io possa ricordare altri episodi specifici circa i contatti tra Mangano e Dell’Utri, anche se in questo momento non mi vengono in mente, non perché io non li voglia riferire, ma perché si tratta di fatti molto vecchi che richiedono un grosso sforzo di memoria da parte mia”).
Ricostruì allora un episodio, poi nei successivi verbali ribadito dallo stesso collaborante, e riguardante un’iniziativa di Totò Riina finalizzata a gestire direttamente i contatti con Berlusconi e Dell’Utri
Riferì – sul punto si vedano anche il verbale di interrogatorio al P.M. di Caltanissetta in data 25/2/1994, quello ai P.M. di Firenze e di Palermo in data 5/8/1996 e quello ai P.M. di Firenze e di Caltanissetta in data 23/4/1998, sostanzialmente sovrapponibili in considerazione delle marginali discrasie nella ricostruzione dei fatti – di essere stato convocato da Salvatore Riina tra il 1990 e il 1991 presso l’abitazione di Girolamo Guddo e di aver partecipato ad un incontro con lui, con Raffaele Ganci e con Salvatore Biondino. In quella occasione Riina gli avrebbe ordinato di rivolgersi a Vittorio Mangano e di dirgli che doveva mettersi da parte rispetto a Berlusconi.
Riina considerava il rapporto con Berlusconi “un bene per tutta cosa nostra” e voleva gestirlo direttamente; aveva detto a Cancemi che, se Mangano si fosse mostrato riluttante, avrebbe dovuto fargli presente che Riina non aveva dimenticato uno sgarbo ricevuto, cioè il fatto che Mangano aveva regalato un’arma al suo avversario Stefano Bontade.
Cancemi ricevette questo incarico in quanto egli era reggente di Porta Nuova e a quel mandamento apparteneva Mangano; peraltro Cancemi ha sostenuto di essere già a conoscenza dei rapporti di quest’ultimo con Berlusconi, perché gliene aveva parlato lo stesso Mangano. Tra il 1973 e il 1974 Mangano lavorava nelle proprietà di Arcore e, secondo quanto raccontava, lì avevano soggiornato anche vari latitanti, come Nino Grado, Francesco Mafara, Salvatore Contorno, dedicandosi al traffico di droga e ai sequestri di persona. Cancemi ha pure riferito di aver incontrato in epoca non meglio precisata all’interno di un bar nelle vicinanze della sua abitazione al Nord lo stesso Mangano, che gli mostrò un rotolo di banconote, nascoste in un calzino, dicendogli erano provento di un sequestro di persona.
Ha poi riferito – nel verbale del 23/4/1998 – di un altro non meglio precisato sequestro di cui gli parlò Mangano, che sarebbe fallito a causa della nebbia ed a seguito del quale uno degli esecutori (non ricorda chi) aveva smarrito il proprio documento di identità; ha dichiarato di ricordare che questo sequestro fallito era comunque collegato alla villa di Berlusconi, ma non ha saputo indicare in che modo.
Nel precedente interrogatorio del 18/2/1994, Cancemi aveva aggiunto un altro particolare: in occasione del colloquio sull’invito da rivolgere a Mangano di mettersi da parte, Riina “precisò che, secondo degli accordi stabiliti con Dell’Utri, che faceva da emissario per conto di Berlusconi, arrivavano a Riina 200 milioni l’anno in più rate, in quanto erano dislocate a Palermo più antenne”.
Sempre nello stesso contesto, Cancemi aveva affermato di essere certo che il rapporto tra Riina e Dell’Utri fosse risalente quantomeno al 1989 e ha dichiarato di aver assistito più volte alle consegne di questo denaro in rate da circa 40 – 50 milioni; “queste rate venivano consegnate non so da chi a Pierino Napoli, reggente della famiglia di Malaspina, compresa nel mandamento La Noce. Ho visto personalmente, ripeto in più occasioni, Pierino Napoli consegnare al Ganci Raffaele il denaro proveniente dal Nord. Anzi posso aggiungere che più volte ho sentito personalmente Salvatore Riina dire a Ganci Raffaele, quando c’erano ritardi nelle consegne, ‘Faluzzo, viri di viriri a Pierino se siggiu ddì picciuli, viri di sollecitari (Raffaele, vedi di dire a Pierino se ha riscosso i soldi, vedi di sollecitare)’”. L’ultima consegna di denaro da Pierino Napoli a Ganci, alla quale assistette Cancemi, sarebbe avvenuta due mesi prima dell’attentato a Falcone.
Il collaboratore ha ancora riferito che Riina gli disse che Berlusconi doveva acquistare immobili diroccati nella zona di Via Maqueda.

4.4 – Tornando all’ordine di Riina a Cancemi riguardante i rapporti tra Mangano e Dell’Utri, il collaborante ha raccontato che si recò a trovare lo stesso Mangano in casa sua dove era ristretto agli arresti domiciliari; ha collocato il fatto in epoca imprecisata ma comunque nel periodo estivo del 1991. Mangano mostrò delle resistenze, sostenendo tra l’altro di avere mantenuto da molto tempo quel rapporto dopo essere stato stalliere alla villa di Arcore.
Il collaborante ha affermato di non conoscere in che modo Riina gestì direttamente quel contatto.
Ha poi riferito, su domanda del P.M., che i rapporti di “cosa nostra” con Dell’Utri e Berlusconi erano risalenti nel tempo; in una prima fase i predetti erano stati collegati con Stefano Bontate, Pietro Lo Iacono e Girolamo Teresi della “famiglia” della Guadagna. Attraverso queste persone Mangano era riuscito ad entrare in contatto con i due odierni indagati. (verb. 23/4/1998).
Da Mangano, poi, Cancemi avrebbe saputo che anche Giovanni e Ignazio Pullarà avevano intrattenuto rapporti con Berlusconi e Dell’Utri; sul punto il collaborante è stato in realtà molto confuso, ma ha comunque escluso di conoscere per quali vie e in che modo tali contatti fossero gestiti.

4.5 – Sentito dal P.M. nisseno in data 17/11/1993, Cancemi – il quale ancora non aveva ammesso il suo coinvolgimento nella strage di via D’Amelio – riferì che Ganci gli aveva confidato, dopo l’uccisione del dott. Borsellino, che quell’attentato era stato voluto da Totò Riina. Quest’ultimo, alla presenza del collaboratore, aveva affermato nel corso di una riunione a casa di Guddo, avvenuta dopo la morte del dott. Falcone e durante la quale si brindò all’accaduto, che egli si assumeva tutta la responsabilità del fatto e aveva preannunciato l’eliminazione fisica del dott. Borsellino.
In data 8/3/1994, Cancemi ha ribadito al P.M. di Firenze la circostanza del colloquio con Ganci relativo alle “persone importanti”, con le quali era in contatto Riina per l’attentato al dott. Falcone nell’ambito di una strategia antipentitismo concordata con i predetti non meglio definiti personaggi.
Ai P.M. di Roma e di Milano in data 15/3/1994 ha esplicitato che, dopo le stragi di Capaci e di via D’Amelio, “da quello che sentivo dire da Riina e da Biondino (…), si era certi che lo Stato non avrebbe reagito, i rapporti che loro facevano comprendere avere con altre persone erano tali da non far presumere reazioni forti”.
Successivamente Cancemi è stato sentito dalla Corte di Assise di Caltanissetta nel processo a carico di Aglieri Pietro + 40 per la strage di Capaci (ud. 19/4/1996 e ud. 18/9/1996) ed ha ancora una volta ribadito la vicenda della riunione a casa di Guddo, i discorsi di Riina e di Ganci e ha confermato che l’obiettivo perseguito da Riina era quello di ottenere sostanziali modifiche della legislazione e degli orientamenti giudiziari grazie a dei referenti politici; non ha tuttavia parlato di quali fossero tali referenti, dicendo che Riina era molto riservato sul punto.
Il collaboratore è stato ancora sentito dall’Ufficio requirente nisseno in data 29/1/1998 e gli è stata data lettura di tutte le sue precedenti dichiarazioni; il collaborante ha affermato di ritenere che non vi fossero discrasie nelle ricostruzioni via via offerte agli Uffici inquirenti. Ha ribadito ancora una volta che Ganci non gli disse chi erano le “persone importanti” con le quali Riina aveva parlato dell’esecuzione dell’attentato a Falcone, ma ha esplicitato che egli dedusse trattarsi di Berlusconi e Dell’Utri alla luce di altri fatti, in particolare della richiesta precedente di mettere da parte Mangano nel rapporto con i due odierni indagati e poi di un’affermazione di Riina nel corso dei festeggiamenti a casa di Guddo, dopo la strage di Capaci, quando lo stesso Riina avrebbe detto: “io mi sto giocando i denti, possiamo dormire tranquilli, ho Dell’Utri e Berlusconi nelle mani e questo è un bene per tutta cosa nostra”.
Nel già citato verbale del 23/4/1998 ai P.M. di Firenze e di Caltanissetta, Cancemi ha poi parlato di un’altra riunione avvenuta nel 1992 a casa di Guddo, probabilmente diversa da quella sopra accennata, e nella quale egli avrebbe avuto dimostrazione del fatto che effettivamente Riina aveva attivato dei contatti con Berlusconi e Dell’Utri. In quell’interrogatorio la sua ricostruzione si è fatta assai più ricca.
Ha affermato il collaborante che, durante la riunione, Riina li consultò su una serie di richieste che egli avrebbe dovuto inoltrare in un incontro che si stava ancora preparando: “un giorno ci siamo incontrati io, Riina, Ganci e credo Biondino Salvatore, che è venuto … ci doveva dare alcuni punti, di fare annullare l’ergastolo, di fare annullare la legge sui pentiti, il sequestro dei beni e altre cose, diciamo ha parlato con me e con Ganci (…)”
“Erano sei o sette punti”.
Quanto all’epoca in cui sarebbe avvenuta questa riunione, Cancemi su domanda del P.M. ha risposto: “Mi sembra che c’era stata Capaci.”
“P.M.: Allora nel periodo… Cancemi: Questo a cavallo… P.M.: Tra… Cancemi: Sì. P.M.: Capaci e Via D’Amelio? Cancemi: Sì”
(…)
“P.M.: E queste richieste in quell’occasione disse a chi dovevano essere rivolte?
Cancemi: Lui più volte ha detto che aveva queste persone nelle mani, quindi Berlusconi e Dell’Utri, quindi queste cose lui le doveva girare a queste persone. Per me era una cosa…
P.M.: Sì, ma nel corso di questa, in questa riunione riprese il discorso di, chiarendo…
Cancemi: (…) sì, lui in questa, in questa riunione dice che ci doveva fare avere queste cose a queste persone, Berlusconi e Dell’Utri, i nomi che ha fatto erano questi qua. Anche dopo diciamo lui parlava sempre di queste persone, anche dopo quest’incontro mi ricordo che, altre, un paio di volte ha parlato sempre di queste persone.”

Cancemi ha pure precisato che quella fu la prima occasione in cui Riina parlò a loro di richieste da avanzare a queste persone.
Quanto alle successive occasioni in cui Cancemi avrebbe parlato con Riina di Berlusconi e Dell’Utri, il collaborante non è stato sempre sufficientemente preciso:
“Mi ricordo una volta ha fatto un discorso che cercava di portare queste persone (spiegherà poi Cancemi che “portare significa… di portarli a comandare”), gli dovevamo poi, diciamo nel futuro, portare queste persone perché lui cercava con queste bombe di sfiduciare, diciamo, quelle che c’erano attuali, in sella. (…) Presenti c’erano Ganci Raffaele, quello era sempre presente e credo anche il Biondino Salvatore (…)
P.M.: Allora ci vuole puntualizzare in quale occasione Riina aveva detto che con queste bombe si voleva cercare di sfiduciare la classe…
Cancemi: ma l’occasione (…) erano quando si pigliava l’argomento, diciamo, che queste persone lui l’aveva nelle mani, stava facendo queste cose che ci spiegava, che era un bene per tutta cosa nostra e lui diceva:
‘noi con questi qua li dobbiamo sostenere’, perché cercava di sfiduciare a quelli che sono in sella, usava la parola lui, usava proprio questa, io credo…”
Il collaborante ha anche detto che in quel periodo Riina stava approntando una lista di persone da uccidere, perché avevano delle “colpe” con “cosa nostra”; seppe che tra gli obiettivi rientravano il dott. Vigna, il questore La Barbera, l’on. Martelli.
Cancemi ha raccontato un altro episodio riferito a quello stesso periodo: Riina gli chiese di alcuni quadri di valore che erano stati rubati in un palazzo di Piazza Marina a Palermo e che erano conservati presso una stalla di Francesco La Marca e li invitò a fargli avere delle foto di alcuni di essi, considerati più importanti. L’ordine di Riina fu presto eseguito, ma i quadri non vennero mai spostati dal luogo dove stavano conservati, almeno fino alla costituzione dello stesso Cancemi.
Ai P.M. che gli hanno chiesto il motivo per il quale aveva introdotto questo argomento nel contesto della narrazione della iniziativa di Riina per inoltrare richieste a Berlusconi e Dell’Utri, Cancemi ha risposto: “io vi devo dire quello che mi risulta, lui è stato proprio in quel periodo che mi ha chiesto queste cose qua, esatto? Però con tutta onestà non me l’ha detto: ‘Io ce lo devo dare a Berlusconi e a Dell’Utri’, non me lo ha detto, però il contesto era là”.
L’Ufficio inquirente ha invitato Cancemi a precisare se questa vicenda l’avesse appresa dalla stampa, visto che nel dibattimento per le stragi di Firenze era emersa, e poi era stata divulgata dai giornali, la circostanza di un tentativo di “cosa nostra” palermitana per concordare uno scambio tra la restituzione di opere d’arte allo Stato e la concessione degli arresti domiciliari per alcuni detenuti più anziani; il collaborante ha confermato di aver riferito fatti di propria esperienza. Nel dibattimento dinanzi alla Corte di Assise di Firenze (verb. 29/4/1999), il collaboratore in esame ha ribadito poi di aver preso parte a questa attività consistita nel controllare e fotografare i quadri per Riina, affermando che quest’ultimo in quel periodo aveva delle trattative, ma che nulla gli disse in ordine a chi potessero interessare le suddette fotografie.
Cancemi ha inoltre riferito che, dopo l’arresto di Riina, avvenuto nel gennaio 1993, ebbe a parlare più volte con Provenzano delle strategie già messe in atto dallo stesso Riina per risolvere i problemi dei detenuti e fiaccare la reazione dello Stato; ma Provenzano lo avrebbe tranquillizzato: “Mi rispose così: ‘Totuccio stai tranquillo, stai tranquillo, stiamo a buon punto, non pensare che io dimentico, diciamo, né carcerati né nessuno. I discorsi stanno andando avanti quelli con zio Totuccio, si stanno portando avanti’”.
In sostanza, secondo Cancemi, Provenzano gli fece intendere che manteneva la linea di Riina; tuttavia non gli specificò mai quali erano i suoi interlocutori e soprattutto se erano gli stessi di Riina.

4.6 – Sui fatti sinora esposti, Cancemi è tornato nuovamente nell’interrogatorio reso al P.M. di Caltanissetta in data 23/10/1998 per approfondire gli aspetti relativi ad un progetto di attentato ai danni del dott. Pietro Grasso; ha ribadito la vicenda relativa all’invito a Mangano di mettersi da parte nei rapporti con Berlusconi e dell’Utri, la strategia di Riina di colpire gli esponenti del mondo politico che gli avevano “voltato le spalle”, la messa a punto della strategia nella villa di Guddo Ulteriore rilevante tappa della collaborazione di Cancemi, specie in ordine alle sue dichiarazioni a carico degli odierni indagati, è costituita dalla sua deposizione dinanzi alla Corte di Assise di Caltanissetta (udd. 17/6/1999 e successive) nel processo a carico di Agate Mariano + 26; giudizio nel quale egli stesso era imputato per la strage di via D’Amelio.
In quell’occasione Cancemi è tornato a parlare della riunione nella villa di Guddo, successiva alla strage di Capaci e collocabile all’incirca a giugno del 1992, nella quale Riina avrebbe espresso la sua volontà di uccidere Borsellino, affermando che se ne assumeva tutta la responsabilità. Cancemi ha sostenuto di aver sentito un colloquio sull’argomento, avvenuto tra Raffaele Ganci e Riina che si erano appartati, e di averne avuto conferma dallo stesso Ganci durante il viaggio di ritorno, raccogliendo da quest’ultimo affermazioni di perplessità sull’utilità del delitto (“questo ci vuole rovinare tutti”).
Il collaboratore ha specificato che già prima era stata discussa la proposta di uccidere Borsellino, nell’ambito di un complessivo progetto di eliminazione fisica di una serie di esponenti delle istituzioni che avevano tradito o che avevano contrastato “cosa nostra” e ai quali bisognava dare un’adeguata punizione per l’esito del maxiprocesso in Cassazione. L’obiettivo strategico era per un verso impedire le collaborazioni con la giustizia e rendere meno credibili i c.d. “pentiti”; per altro verso trattare con nuovi referenti per ottenere significative modifiche della legislazione antimafia.
Ha di nuovo narrato delle confidenze che gli fece Ganci a proposito del fatto che Riina aveva parlato con “persone importanti” prima di decidere la strage di Capaci; ha ricostruito ancora la vicenda dell’invito di Riina a Mangano a mettersi da parte nella gestione dei rapporti con Dell’Utri e Berlusconi, quella dell’intervento di Riina a favore di una società facente capo a Berlusconi per l’acquisto di edifici del centro storico di Palermo, nonché infine la circostanza relativa all’erogazione periodica di un “contributo” di costoro a favore di “cosa nostra”.
Cancemi ha esplicitamente sottolineato che tutte le volte in cui Riina parlava delle modifiche legislative da lui auspicate a beneficio di “cosa nostra”, diceva che “queste persone noi li dobbiamo garantire ora e nel futuro di più”.
Ha aggiunto sempre in quell’occasione che a queste riunioni, svolte a casa di Guddo, durante le quali Riina diceva loro di avere “nelle mani” Dell’Utri e Berlusconi, era presente Brusca (cfr. verb. ud. 23/6/1999, pagg. 94 ss.) e, su specifica domanda del Presidente della Corte di Assise, ha affermato che alla riunione di giugno del 1992 (quella durante la quale Riina e Ganci si appartarono a parlare dell’eliminazione di Borsellino e Riina disse che si assumeva tutta la responsabilità della cosa) erano presenti anche Biondino, che aveva accompagnato Riina, e Brusca che era arrivato successivamente da solo.
Si segnala sin d’ora che Brusca – le cui dichiarazioni saranno esaminate compiutamente nel par. 6 – ha confermato di aver partecipato a queste riunioni a casa di Guddo, dietro Villa Serena, e in particolare ha ricordato proprio la riunione di giugno del 1992 pressoché con gli stessi partecipanti indicati da Cancemi; non ha parlato tuttavia del colloquio riservato tra Ganci e Riina. Ha detto che in quell’occasione, dopo aver commentato la strage di Capaci, si ritornò a parlare del fatto che non ci si doveva fermare solo a quella e che si doveva continuare a fare attentati a “nemici ed ex amici”. Ha aggiunto: “si parlava … quello sulla bocca era sempre Martelli, Andò, La Barbera; come gli ho detto non c’era bisogno più di ritornare sul punto del dottor Borsellino in quanto era stato menzionato così, molto veloce, già precedentemente… fine febbraio-inizi di marzo” (verb. 29/6/1999, C.Ass. Caltanissetta, proc. n.22/98 c. Riina + 6 per la c.d. strage dell’Addaura).
Cancemi ha invece affermato di aver percepito nella riunione di giugno una chiara volontà di accelerare i tempi: “io ho capito che il Riina aveva premura, come vi devo dire, una cosa…di una cosa veloce, aveva… io avevo intuito questo, che il Riina questa cosa la doveva… la doveva fare al più presto possibile, come se lui aveva qualche impegno preso”.
Brusca dal canto suo ha sostenuto di aver avuto in altra occasione e in altro modo consapevolezza di tale accelerazione: “Io apprendo come fatto esecutivo la strage del dott. Borsellino tre giorni prima che succedesse da Biondino Salvatore e mi dice. ‘siamo sotto lavoro’ e poi quando apprendo dalla TV con… Siccome io non mi ero visto con Salvatore Riina quindi vuol dire che qualche cosa era successo. Cosa gli avevano detto, cosa era successo non glielo so dire, però c’è stata un’accelerazione” (ud. Corte di Assise di Appello di Caltanissetta del 2/7/1999, relativo alla strage di Capaci; successivamente in verb. P.M. Caltanissetta del 9/3/2000).

4.7 – Dinanzi alla Corte di Assise di Caltanissetta, Cancemi ha motivato il ritardo delle sue dichiarazioni sulla strage di via D’Amelio, perché “i discorsi” di Riina su “queste persone che lui aveva nelle mani”, “che lui ci diceva che erano quelli che è un bene per cosa nostra” lo preoccupavano, lo frenavano e lo inducevano a pensare che se avesse raccontato tutto quello che sapeva su questo attentato e su quanto vi era sotteso sarebbe potuto accadere “qualcosa di grosso”.
La Corte di Assise di Caltanissetta che lo ha giudicato quale concorrente della strage di Via D’Amelio (proc. n.27/97) nella motivazione della sentenza, pure citata dal P.M. nella sua richiesta di archiviazione, ha rilevato che tale giustificazione del Cancemi alle sue reticenze “appare chiaramente smentita dal fatto che il collaborante, prima ancora di confessare la sua partecipazione alla strage per cui è processo, aveva già indicato delle circostanze che avrebbe dovuto tacere se questa fosse stata l’effettiva motivazione del riserbo. Egli infatti già in relazione alla strage di Capaci aveva dichiarato di aver appreso da Ganci Raffaele, mentre si recava in auto con lui presso la villetta di Capaci, che il Riina aveva incontrato ‘persone importanti’ (…) Non era pertanto la remora a parlare di contatti di “cosa nostra” con ambienti esterni che condizionava le dichiarazioni del Cancemi, che appare unicamente interessato a ridimensionare il suo ruolo e preoccupato di coprire le altrui responsabilità solo nella misura in cui può altrimenti derivarne un aggravamento della sua posizione processuale”.
Ma il giudizio complessivo delle Corti di Assise che hanno valutato le dichiarazioni di Cancemi sulle stragi del 1992 (e ciò lo si ricava proprio dai diversi passaggi motivazionali citati dal P.M.) risulta positivo, essendosi affermato che “una volta individuato il solo fattore inquinante della collaborazione del Cancemi nella predetta volontà di esagerata autoprotezione e così spiegata l’indubbia progressione accusatoria delle sue dichiarazioni, ben possono le medesime essere utilizzate” e dando atto che il loro analitico esame “conferma l’attendibilità delle sue chiamate in correità nei confronti degli imputati per cui è processo”.
Tale valutazione della Corte di Assise appare fortemente ancorata alle vicende processuali che hanno caratterizzato la collaborazione di Cancemi; peraltro in questa prospettiva non potrebbe non tenersi conto che il suo contributo è comunque valso ad accertare le gravi responsabilità penali di molti dei capomandamento di “cosa nostra” e degli esecutori materiali aderenti alla stessa organizzazione.
In ordine alle chiamate in correità degli odierni indagati da parte di Cancemi, va rilevato anzitutto che il suo ruolo di primo piano in quel periodo all’interno di “cosa nostra” (egli era reggente dell’importante mandamento di Porta Nuova) ed i suoi contatti accertati con Ganci e quindi con Riina avrebbero potuto metterlo in condizione di conoscere anche le notizie più riservate circa la deliberazione delle stragi.
Proprio per sottrarsi alle sue responsabilità egli ha sempre cercato di negare ogni forma di attiva partecipazione alle decisioni e alla preparazione di tali delitti, cercando di presentarsi come soggetto semplicemente informato in maniera anche generica di talune circostanze in virtù della fiducia che gli altri associati riponevano in lui.
Ha via via confessato le sue condotte dopo essere stato coinvolto da altri collaboranti, ma sempre svalutando il proprio concreto ruolo nei singoli fatti delittuosi.
In questo controverso percorso collaborativo e nel quadro di tale comportamento si inseriscono le progressive dichiarazioni di Cancemi sugli odierni indagati; nei suoi resoconti egli appare sempre estraneo alle discussioni, ora destinatario di confidenze del Ganci, ora occasionale spettatore di colloqui tra Ganci e Riina, ora mero esecutore di incarichi relativi alle trattative, lo scopo dei quali avrebbe compreso per mera deduzione logica.
Non ritiene questo Ufficio che, in astratto, le accuse ad eventuali “mandanti esterni” a “cosa nostra” potessero risultare strumentali ad alleggerire le sue responsabilità; anzi al contrario, la sua posizione poteva essere soltanto ulteriormente aggravata, qualora egli avesse ricostruito con puntualità e certezza tutte le condotte idonee a fargli conoscere i prefigurati accordi dei massimi esponenti di “cosa nostra” con personaggi di rilievo esterni ad essa.
Si impone tuttavia di valutare un’ipotesi alternativa, e cioè che Cancemi abbia introdotto con le chiamate in correità in esame delle circostanze false – in maniera volutamente generica – al fine di accreditare ancor più la propria collaborazione, stante il rilievo politico e la notorietà degli accusati.
La genericità e la mutevolezza delle sue dichiarazioni a carico di Berlusconi e Dell’Utri potrebbe infatti spiegarsi, anziché con il tentativo di offrire agli inquirenti una notizia in suo possesso ridimensionando il suo ruolo nella fase deliberativa della strage, con il diverso tentativo – mal riuscito – di introdurre elementi fantasiosi e non facilmente verificabili.
Il collaboratore, oggetto di diverse valutazioni negative da parte delle Autorità Giudiziarie in ordine alla sua lealtà, è stato perlopiù segnalato – da quanto risulta dai provvedimenti in atti – per il suo comportamento omissivo, e cioè per aver tenuto nascoste responsabilità proprie o di complici successivamente accertate grazie ad altri mezzi di prova; sicchè le sue propalazioni sono state valutate con la massima prudenza e sono state utilizzate in presenza di adeguati, specifici e rassicuranti riscontri di carattere estrinseco.
A queste condizioni, le sue chiamate in correità hanno concorso all’accertamento delle responsabilità di molti imputati con ruoli di primo piano in “cosa nostra” e non risultano sinora emersi comportamenti calunniatori all’esito dei dibattimenti relativi alle stragi per cui si procede. Quanto sinora detto, se da un canto non autorizza a svalutare pregiudizialmente le propalazioni di Cancemi a carico degli odierni indagati, d’altro canto impone di apprezzarle con estremo rigore, per verificare se esse – già poco soddisfacenti sul piano della sussistenza dei requisiti di attendibilità intrinseca – siano assistite da elementi esterni di riscontro adeguatamente specifici.
Giova ricordare che pende dinanzi a questo Ufficio altro procedimento a carico di Cancemi, instaurato a seguito delle querele avanzate da Berlusconi e Dell’Utri, nel quale sarà poi valutato se le dichiarazioni del collaboratore integrino gli estremi dei reati di calunnia e di diffamazione.


5. Le dichiarazioni di Angelo Siino

5.1 – Il collaboratore di giustizia Angelo Siino (verb. P.M. Caltanissetta 28/11/1997) ha ricostruito il contesto nel quale erano maturate le forti avversioni dell’organizzazione “cosa nostra” nei confronti di Falcone e Borsellino, fornendo ampie indicazioni sul fatto che tali sentimenti erano condivisi anche dai personaggi politici e dagli imprenditori che in qualche modo mantenevano contatti o avevano cointeressenze con quella associazione criminale. In particolare ha riferito che alla fine degli anni “80 il gruppo Ferruzzi-Gardini era venuto in Sicilia e aveva rilevato tutte le imprese di “cosa nostra” che versavano in difficili condizioni economiche o che rischiavano di essere sequestrate dall’Autorità Giudiziaria; successivamente, nel 1987, in conseguenza dell’avvicinamento con quel gruppo imprenditoriale, “cosa nostra” aveva deciso di convogliare i propri voti verso le liste del PSI.
Presto si diffuse nell’organizzazione, in seguito ad alcune dichiarazioni pubbliche di Falcone (tra le quali la seguente: “la mafia sta entrando in borsa”), il timore che il magistrato avesse capito i nuovi rapporti economici e politici di “cosa nostra”.
Siino ha riferito, riassumendo i contenuti di diversi suoi colloqui con Pino Lipari, Giovanni Brusca, Salvo Lima, Ignazio Salvo e altri, che il conferimento dell’incarico al ministero a Falcone da parte di Martelli veniva considerato da “cosa nostra” come un tradimento da parte del partito socialista e veniva ritenuto particolarmente pericoloso perché la conoscenza di Falcone sui nuovi rapporti politici ed economici dell’associazione mafiosa avrebbe costituito strumento di ricatto nei confronti dello stesso Martelli. Il trasferimento del magistrato agli uffici ministeriali e la capacità di influenza acquisita sulle scelte dell’esecutivo costituiva, ad avviso dei vertici di “cosa nostra”, un suo primo passo per acquisire un ruolo politico e istituzionale potenzialmente assai nocivo per gli interessi mafiosi.
La strategia politica messa a punto da “cosa nostra” fu allora di “agganciare Craxi”, considerato l’unico personaggio capace di mettersi contro lo stesso Martelli, che ormai aveva affidato troppo potere a Falcone, e contro il gruppo di Andreotti che aveva tradito le aspettative in ordine all’esito del maxiprocesso.
Nino Gargano e Pippo Madonia dissero a Siino, all’epoca detenuto:
“Provenzano sta cercando di agganciare di nuovo Craxi! Se ci riusciamo…”.
Berlusconi era considerato un tramite per giungere a Craxi; occasione propizia dovevano essere gli attentati alla Standa di Catania, avvenuti tra il 1990 e il 1991: “nel momento che il signor Berlusconi si veniva a lamentare: ‘nuatri putivami… accussì videmu d’agganciari Craxi’ tramite Berlusconi”.

5.2 – Il 2/1/1998 al P.M. di Firenze Siino ha fornito una versione più articolata di questa vicenda, riferendo circostanze diverse su come aveva appreso delle modalità con le quali “cosa nostra” voleva creare un contatto con Craxi.
Ha affermato di aver partecipato ad un incontro a Catania con Nitto Santapaola, Eugenio Gallea, Vincenzo Aiello e Giovanni Brusca; durante questo incontro Brusca si appartò con Santapaola. Successivamente sarebbe stato Santapaola a riferire a Siino che durante quell’incontro Brusca gli aveva chiesto di realizzare degli attentati alla Standa per stimolare un contatto con Craxi.
Tale circostanza, come si vedrà, viene smentita dal Brusca, che ha negato che tali attentati avessero finalità diverse da quella di mera estorsione. Sovrapponibili alle dichiarazioni di Siino sulle finalità degli attentati (poi effettivamente realizzati) sono invece le dichiarazioni di alcuni collaboratori dell’area catanese. Sul punto si tornerà , quando sarà valutato il contributo di Maurizio Avola (par. 11), nonché conclusivamente nel par.15.4.
Durante la sua detenzione, agli inizi del 1993, Siino fu poi invitato attraverso la moglie a nominare come proprio difensore l’avv. Vittorio Virga, persona considerata vicina a Craxi e con la quale si voleva instaurare un legame da utilizzare successivamente; Virga tuttavia non accettò l’incarico.
Il collaboratore ha poi riferito di un altro episodio, che vide protagonista Antonino Gioè. Questi ebbe con lui alcuni significativi colloqui relativi ai nuovi assetti di “cosa nostra”; in uno di questi gli parlò di Massimo Berruti, un ex ufficiale della Guardia di Finanza in contatto con Totò Di Ganci (rappresentante della “famiglia” di Sciacca) e gli disse che Leoluca Bagarella avrebbe dovuto incontrarlo per avviare dei contatti con Craxi. Gioè, che era stato arrestato nel marzo 1993, spiegò che Bagarella, il quale stava assumendo posizioni dominanti in “cosa nostra” dopo la cattura di Riina tanto da intimorire anche Bernardo Provenzano, aveva nei suoi programmi di fare azioni eclatanti in danno di monumenti ed edifici di interesse artistico, tra i quali la Torre di Pisa. Aggiunse che in questa iniziativa Bagarella si muoveva di concerto con i Graviano e mantenendo contatti e coperture con i servizi segreti.
La conversazione venne interrotta da Siino per il timore di intercettazioni; i due concordarono un espediente affinchè Gioè gli esplicitasse i termini della loro strategia; Gioè fece trovare a Siino un biglietto manoscritto, avvolto ad un rocchetto di cartone, nascosto in una scanalatura esterna al locale docce dove il collaboratore lasciò di proposito un accendino.
Nel biglietto era scritto che Berruti aveva detto a Bagarella di compiere azioni eclatanti relative tra l’altro ad un edificio fiorentino che custodiva opere d’arte. Tale operazione aveva un duplice alternativo scopo: orientare la Sicilia verso una prospettiva indipendentista grazie al movimento “Sicilia Libera” (di cui Siino aveva sentito parlare anche alla moglie) o in ogni caso fare una dimostrazione di forza che, sconvolgendo l’Italia, avrebbe dato a Craxi la possibilità, o di persona o tramite qualcuno, di proporsi come colui che poteva riprendere in pugno la situazione.
Di questo progetto Siino ha affermato di aver messo al corrente il gen. Mori e il cap. De Donno, che nel 1993 instaurarono dei contatti con lui per indurlo a collaborare, prospettandogli come già avviata una collaborazione di Ciancimino (cfr. pure verb. 25/6/1998 P.M. Caltanissetta e P.M. Firenze).
Il collaboratore avrebbe appreso poi da Michele Camarda, persona vicina a Gioè, che quest’ultimo gli aveva detto che dietro le stragi del 1992 vi erano appoggi esterni e che “cosa nostra” sin dall’attentato a Falcone era stata “autorizzata” (verb. 25/6/1998 cit.).
Sul ruolo in “cosa nostra” di Gioè, successivamente suicidatosi in carcere, e sui suoi specifici compiti nella preparazione e nell’esecuzione della strategia stragista convergono anche dichiarazioni di altri collaboratori, nonché altri elementi di prova, tutti sinora positivamente valutati dalle Autorità Giudiziarie; tra questi ad esempio la sua ultima lettera del 1993 (sul punto si può richiamare la sentenza della Corte di Assise di Firenze del 6/6/1998 relativa alle stragi del 1993, in particolare pagg. 1472 ss.). Quanto ai contatti di Massimo Berruti con personaggi di “cosa nostra” e con la famiglia di Sciacca in particolare, essi sono pure emersi dalle indagini della Procura di Sciacca acquisiti agli atti (cfr. fald. 4/A-1).
Siino ha anche riferito che nel 1994 sua moglie gli fece sapere che Giovanni Brusca aveva dato indicazioni in un primo tempo affinchè l’organizzazione sostenesse elettoralmente il movimento “Sicilia Libera” ed in un secondo momento aveva mandato a dire di votare per “Forza Italia”. Brusca attraverso la moglie gli fece sapere che tale “Giovanni” era pure d’accordo, ma Siino non riuscì mai a capire a chi Brusca volesse riferirsi.
Tutte le suddette circostanze, che nel racconto di Siino disegnano un preciso ruolo “politico” di Brusca, sono state smentite da quest’ultimo. Siino ha invece reiterato le sue dichiarazioni, accusando Brusca di essere condizionato da risalente malanimo nei suoi confronti.

6. Le dichiarazioni di Giovanni Brusca

6.1 – Brusca ha ricostruito le strategie di “cosa nostra” e di Totò Riina in particolare, confermando la circostanza che l’eliminazione di Falcone era stata studiata già sin dalla fine del 1990. Ha raccontato (verb. P.M. Caltanissetta 7/9/1998) che Riina gli aveva detto, dopo la sentenza di appello del c.d. “maxi-processo”, che bisognava stare tranquilli in attesa della decisione della Cassazione; Riina lo aveva mandato in più occasioni da Ignazio Salvo “per contattare i canali Lima, Andreotti, Carnevale”. Salvo tuttavia “rispondeva picche (…) che non erano più i tempi di una volta”. In questo momento cominciarono a maturare i propositi di Riina di uccidere Salvo.
Brusca ha riferito di una riunione, avvenuta nel 1992, prima dell’omicidio Lima, durante la quale si discusse “esclusivamente di un progetto di eliminare tutta una serie di personaggi, però, quelli sul pentolone: Lima prima e Falcone… (…) Si parla di personaggi politici, non politici, amici o ex amici, persone che si erano messe a disposizione e che avevano tradito (…) perché noi dovevamo stroncare l’attività politica o la corrente politica di Andreotti in Sicilia, in quanto lui non si era interessato per il maxi processo”.
Seguirono diverse altre riunioni, nelle quali si ribadirono gli obiettivi da colpire, ivi compreso Borsellino. Come si è già anticipato esaminando le dichiarazioni di Cancemi (par. 4.6), Brusca ha sostenuto che dopo la strage di Capaci egli si doveva occupare di uccidere l’onorevole Mannino e che, ad un certo momento, andatosi a consultare con Biondino e con Riina sulle modalità dell’esecuzione dell’agguato, costoro gli dissero che per il momento “erano sotto lavoro”; pochi giorni dopo avvenne la strage di Via D’Amelio.
Il collaborante ha sottolineato: “non mi è stato mai richiesto: ‘…che ne pensi… se vuoi uccidere il dottor Borsellino o meno o cose varie’, non mi è stato chiesto, quindi io non è che potevo dire un parere, si o no. Uno: perché non mi è stato chiesto; due: se mi veniva chiesto io avrei detto sì”.
In una di quelle riunioni Brusca apprese da Riina del “papello”, cioè di un messaggio a personaggi istituzionali che conteneva le condizioni imposte da “cosa nostra” allo Stato. Riina tra la strage di Capaci e quella di Via D’Amelio gli disse che i suoi interlocutori erano sembrati in un primo momento disponibili, ma poi avevano interrotto le trattative considerando le condizioni troppo gravose.
Nell’interrogatorio del 2/10/1998, Brusca ha ricostruito questa vicenda, già più volte accennata in precedenti interrogatori, ripercorrendo – in maniera dettagliata – le tappe antecedenti all’avvio della trattativa.
Ha parlato di due riunioni che si tennero a casa di Guddo, dietro Villa Serena, una dopo l’altra in data antedecente al 20 febbraio, comunque successivamente alla sentenza del maxi-processo in Cassazione, quando cioè cominciò a covare l’idea di colpire gli “ex amici” e i vecchi nemici al fine di ottenere dallo Stato tutto quanto non era stato possibile ottenere attraverso i consueti canali. Nella prima si discusse dell’eliminazione di Ignazio Salvo e Brusca si mise a disposizione, nella seconda si studiarono gli aspetti esecutivi; la realizzazione del progetto omicidiario fu poi rinviata, ma frattanto Brusca partecipò ad altre riunioni in cui si pianificò l’omicidio dell’on. Lima, quindi l’attentato a Falcone e nel frattempo si discusse di diverse altre azioni di fuoco con obiettivi istituzionali; si parlò di uccidere il questore La Barbera, a giudizio degli “uomini d’onore” troppo impegnato nel contrasto alla mafia, l’on. Vizzini e l’on. Mannino, responsabili di non aver favorito “cosa nostra” dopo averne preso i voti, il dott. Borsellino, per le stesse ragioni per cui bisognava uccidere Falcone, e con loro diverse altre personalità: “ognuno.. chi era il più bravo ne metteva una sempre più grossa (…) ognuno ci mettevamo la nostra (…) a queste persone… chi più ce ne era chi più ne metteva…”
Dopo l’omicidio Lima, Salvatore Biondino chiese a Brusca di fare qualche attentato a delle sezioni della Democrazia Cristiana e il collaboratore si offrì di farlo a Monreale, mettendosi subito alla ricerca di esplosivo poi reperito nella cava di Buttita. Questi atti dimostrativi, a dire di Brusca, non furono oggetto delle predette riunioni, ma il fatto che furono organizzati dopo l’omicidio di Lima lo portò a ritenerli collegati con quella strategia.
Si passò poi alla fase della preparazione vera e propria della strage di Capaci, discussa e pianificata sempre in casa di Guddo. Brusca ha riferito che, durante questi incontri, commentò con Riina che quell’attentato avrebbe impedito al sen.Andreotti di diventare Presidente della Repubblica e si trovarono d’accordo sul fatto che l’effetto indotto dalla morte di Falcone sarebbe loro servito per dare un’ulteriore “lezione” al predetto uomo politico e alla sua corrente che negli ultimi tempi aveva troppo disinvoltamente voltato le spalle a “cosa nostra”.
Realizzata la strage di Capaci, si misero sulle tracce di Mannino, per conoscerne le abitudini e attentare alla sua vita; Brusca si impegnò direttamente in quest’attività ma ad un certo punto Biondino gli disse di sospendere tutto. Nel frattempo il collaborante continuò ad occuparsi di Ignazio Salvo, “ma siccome non ho premura di farlo, me lo faccio quando mi viene più comodo”.

6.2 – Brusca ha riferito che in seguito alla strage di Capaci, in più occasioni, parlando a quattr’occhi con Totò Riina sempre nella villa di Guddo, gli chiese se “si era fatto vivo qualcuno”, alludendo ai possibili contatti che personaggi delle istituzioni avrebbero potuto intraprendere per raccogliere le istanze di “cosa nostra”. “E fu lui…” ha affermato Brusca “con sorpresa mi fa: ‘Dice mi vogliono portare a Bossi… mi vogliono portare a Bossi tanti avvocati”; E mi dice: ‘ma questo è un pazzo, cioè poco affidabile cioè non ci ho… non ci ho… fiducia’”.
In un successivo incontro, sempre nel 1992, Riina gli disse: “Si sono fatti sotto, gli ho fatto un papello così”. Si trattava, secondo Brusca, di “tutta una serie di benefici che si discuteva nel tempo!”.
Non è chiaro nel verbale del 2/10/1998 in esame, a quale mese del 1992 tale incontro deve riferirsi, poiché Brusca si dice incerto sul punto e fornisce indicazioni compatibili sia con un periodo di poco antecedente alla strage di Via D’Amelio sia con un periodo immediatamente successivo.
In altri verbali, il collaborante sembra optare per la prima delle due collocazioni temporali (sul punto si richiamano per tutte le dichiarazioni rese al processo di appello per la strage di Capaci, ud. 2/7/1999: “Guardi io non era sicuro se era avvenuto prima la strage Borsellino o dopo; sono riuscito a potere mettere dei paletti con certezza a causa delle accuse che mi faceva il Di Matteo Mario Santo, e quindi io, siccome poi in quel periodo mi sono trasferito nel trapanese per commettere anche reati lì, ho potuto stabilire che era prima della strage di Capaci. Quindi… dopo la strage di Capaci e prima di quella del dott. Borsellino. Sarà stato una settimana prima, saranno stati dieci giorni, quindici giorni, però, nell’arco di questo tempo, prima sicuramente della strage del dottor Borsellino”).
Facendo un passo indietro nel suo racconto, Brusca ha precisato di essersi interessato ad intrattenere contatti con tale Bellini tramite Gioè, prima di sapere da Riina che qualcuno “si era fatto sotto”. Il Bellini fece loro sapere che in relazione al ritrovamento e alla consegna di opere d’arte si sarebbero potute intavolare utili trattative.
Di queste trattative già si parlava prima ancora della strage di Capaci ed erano finalizzate ad ottenere trattamenti più favorevoli per i detenuti di “cosa nostra”, specie per quelli più anziani, come il padre del collaboratore, per questo motivo interessato in prima persona.
Riina consegnò a Brusca delle fotografie di opere trafugate e la trattativa riguardò benefici per cinque persone, tra i quali lo stesso Riina incluse Pippo Calò del mandamento di Porta Nuova.
Si tratta evidentemente della stessa trattativa avente ad oggetto opere d’arte di cui ha parlato Cancemi, che apparteneva appunto al mandamento di Porta Nuova.
Ad un certo punto Riina aveva detto a Brusca di interrompere la trattativa, perché l’avrebbe gestita direttamente. In un incontro successivo gli disse che i suoi interlocutori si erano tirati indietro.
Il collaboratore ha comunque precisato che quella di Bellini era solo una delle linee di trattativa intavolate da Riina, gestita separatamente ed indipendentemente dalle altre (“sono due cose completamente diverse e separate, almeno per quello che riguarda noi! Anche se poi ho saputo che dietro le quinte, chi gestiva alla fine era sempre uno, da parte dello Stato…ma io non lo so, io so Bellini… che per noi era tutta un’altra strada”; verb. P.M. 2/10/1998, p. 67).
Su domanda del P.M., Brusca ha precisato che questi riferimenti erano assai generici e non venivano da lui approfonditi.
Giova sin d’ora evidenziare che la vicenda della trattativa con Bellini (che per “cosa nostra” aveva interessato in particolare Gioè) ha trovato conferma nelle istruttorie dibattimentali del processo per la strage di Via D’Amelio, nonché di quello per le stragi del 1993 (cfr. sent. C.Assise di Firenze, pagg. 1482 ss., ove si riportano anche le dichiarazioni del collaboratore Gioacchino La Barbera).
Brusca ha anche parlato degli accordi intervenuti con i catanesi (in particolare tra costoro Eugenio Gallea e Santo Mazzei) per sostenere la strategia di attacco di Salvatore Riina; di un progetto di sequestrare Giuseppe Cambria, che finanziava i Salvo; del proposito già da tempo coltivato di colpire il dott. Pietro Grasso, attentato questo studiato, preparato e poi abbandonato per difficoltà di carattere esecutivo; dell’incarico ai catanesi di studiare un attentato all’on. Andò e del progetto, già in fase esecutiva a cura di uomini di “cosa nostra” operanti in Roma, di uccidere l’on. Martelli, essendo ambedue gli esponenti del P.S.I. considerati traditori in quanto su di loro aveva confidato ‘cosa nostra’ per avere dei benefici, rimanendo poi delusa (dice significativamente Brusca in proposito: “c’era l’onorevole Andò che nei suoi comizi… gridava per garantismo, cioè per una serie di fatti generali, ma ne usufruiva ‘cosa nostra’! E noi gli davamo questa interpretazione”; verb. P.M. Caltanissetta 2/10/1998, p. 33; la responsabilità di Martelli era quella di essersi alleato con Falcone “per rifarsi una verginità”).
A dire di Brusca, “il fine comune era di portare lo Stato a trattare con ‘cosa nostra’”; “e nello stesso tempo loro per i fatti suoi io non so per quale motivo, si volevano togliere qualche spina o qualche cosa dalla scarpa”.
Successivamente Brusca avrebbe chiesto conferme a Provenzano, durante un incontro al quale era pure presente Bagarella, circa la reale sussistenza di queste trattative di Riina con personaggi istituzionali, ma non ricevette conferma. Fatto questo che comunque Brusca considerò poco indicativo, perché conosceva il carattere estremamente riservato del suo interlocutore (cfr. verb. 8/9/1998).

6.3 – Il P.M. di Caltanissetta ha di nuovo sentito su queste vicende il Brusca in data 9/11/2000, successivamente alla sua deposizione nel dibattimento per la strage di via D’Amelio, c.d. “ter”.
Gli chiese esplicitamente il Procuratore di Caltanissetta se avesse mai avuto modo di sentire o vedere “persone o fatti che lo inducessero a pensare che nelle stragi del 1992 vi fossero implicate a livello di ideazione, persone diverse da quelle che sono appartenenti a cosa nostra”.
Brusca ha affermato di non avere conoscenze specifiche su questi fatti ma di essere in condizione di fare “un ragionamento su fatti che io conosco”.
Ha in proposito illustrato una serie di episodi dai quali ha ricavato che Riina aveva come suo consigliere politico Antonino Cinà, aggiungendo lo stesso Brusca che prima del suo arresto non ebbe mai a conoscere chi fossero gli altri interlocutori politici all’esterno di cosa nostra. Sempre prima del suo arresto Brusca chiese a Cinà come fosse “combinata” “cosa nostra” in quel momento, se cioè vi fossero prospettive di successo per le sue attività e la sua sopravvivenza e Cinà gli rispose: “siamo a mare, cioè… mi abbracciava, mi allargava le mani come a dire siamo a mare”.
Ha ricollegato a tali fatti la vicenda, appresa dalla stampa, dell’avvio di una trattativa tra i ROS dei CC e Ciancimino, interrottasi prima che venisse ulteriormente perseguita la c.d. “strategia stragista” nel Nord Italia, così come anche il dato di sua esperienza che Riina aveva organizzato con “cosa nostra” una serie di omicidi di persone che facevano parte dell’assetto politico-istituzionale per vendicare torti subiti e preparare il terreno a nuovi interlocutori.
Ne ha concluso – sempre nell’ambito del suo “ragionamento” – che anche le stragi del 1992 dovevano essere state organizzate ed eseguite nella prospettiva di creare le condizioni per una trattativa, ma non ha saputo indicare niente di più preciso.

6.4 – Quanto poi ai rapporti che “cosa nostra” avrebbe intrattenuto con Dell’Utri e con Berlusconi, Brusca non si è detto in grado di fornire indicazioni specifiche di sua diretta esperienza.
Va ricordato che egli non ha saputo dare precise notizie sugli interessi dei Graviano nel Nord Italia (quelli che avrebbero potuto creare contatti anche con gli odierni indagati) (verb.8/9/1998), e ha affermato di essersi rivolto a Vittorio Mangano tra la fine del 1993 e l’inizio del 1994 per sapere se fossero vere le notizie che pubblicarono alcune riviste sui suoi rapporti con Berlusconi, ricevendone conferma. Mangano gli disse di essere amico di Berlusconi, per il quale aveva lavorato come stalliere (sul punto cfr. pure l’interrogatorio dell’11/9/1996 e quello del 9/3/2000).
Brusca ha fatto riferimento ad un articolo letto sulla rivista “L’Espresso”, che effettivamente (cfr. copia in atti) aveva pubblicato nel numero datato 8/4/1994 un dossier riguardante questi rapporti dal titolo “Ad Arcore c’era uno stalliere…” e l’intervista (di cui si è detto al par. 2) nella quale Paolo Borsellino, facendo riferimento ad un’intercettazione di una conversazione tra Mangano e Dell’Utri, affermava: “so che ci sono indagini che lo riguardano (Dell’Utri n.d.r.) e che riguardano insieme Mangano”.
Va comunque evidenziata la circostanza che nel corpo dell’articolo si fa riferimento alle notizie date in precedenti numeri del settimanale in ordine alle dichiarazioni di Cancemi secondo le quali Mangano avrebbe curato la riscossione del “pizzo” dalla Fininvest “per non avere guai alle antenne in Sicilia”. Sicchè l’epoca dell’episodio riferito potrebbe essere retrodatata, ma certamente di non molte settimane.
Su queste circostanze occorre ripercorre in maniera puntuale tutta la ricostruzione fornita dal collaborante.
I rapporti tra Brusca e Mangano erano particolarmente qualificati; si erano conosciuti in carcere tra il 1986 e il 1987 e poi Brusca e un suo parente avevano fatto in modo di fargli assegnare la reggenza della “famiglia” di Porta Nuova, dopo che Cancemi si era consegnato ai Carabinieri.
Brusca gli chiese allora se poteva attivarsi per ripristinare questi contatti e Mangano si rese disponibile. Fece diversi viaggi a Milano per portare a termine il compito affidatogli da Brusca e che consisteva nell’avanzare a Berlusconi le richieste che stavano a cuore all’associazione “cosa nostra”, come ad esempio l’abrogazione del regime detentivo speciale per i mafiosi e l’ammissione di costoro ai benefici della legge Gozzini.
Mangano si servì di un altro intermediario, che diceva a Brusca chiamarsi Roberto e che faceva “l’imprenditore all’interno della Fininvest…aveva l’appalto delle pulizie all’interno della Fininvest”; nessun altra informazione su questa persona ha saputo fornire il collaborante, tuttavia ha escluso che Mangano gli abbia detto di avere contattato Dell’Utri.
“Io glieli ho mandati a dire un po’ tutti assieme, però nel tempo, se non con la minaccia, se non avrei continuato le stragi… se loro non avrebbero fatto niente. Dice ‘no, no, no’ e mi manda a dire, tramite Vittorio Mangano, cioè di stare calmo piano piano che ora si va vedendo. Ma poi subito tutto finì lì perché Vittorio Mangano poi viene arrestato, io non avevo più contatti, il governo Berlusconi subito dopo è caduto, quindi i contatti miei sono finiti qua”.
Brusca ha affermato di aver informato di questa sua iniziativa solo Leoluca Bagarella e non è stato preciso su quando egli aveva avviato tali contatti, fornendo tuttavia indicazioni compatibili con un’epoca precedente alle consultazioni elettorali del 1994; ha tra l’altro parlato di un incontro politico-elettorale che si doveva fare con Berlusconi in un ristorante di Palermo e che avrebbe dovuto organizzare Mangano anche per consentire in quell’occasione agli uomini dell’organizzazione un contatto diretto con lui (incontro questo che poi non ebbe mai luogo).
Brusca ha aggiunto di non essersi tuttavia attivato come altri componenti del suo sodalizio criminoso per sostenere il movimento “Forza Italia” e che nessuno – neanche Mangano – glielo chiese.
Peraltro Bagarella si occupava del movimento “Sicilia Libera”, con il quale sperava di influenzare le scelte politiche in favore di “cosa nostra”; in questa attività contava sul contributo dei fratelli Graviano, che invece ad un certo punto si defilarono. Brusca lo capì quando l’imprenditore Ienna, vicino ai Graviano, mise a disposizione il suo hotel, il “San Paolo Palace”, per l’inaugurazione di un club “Forza Italia” e di questo fatto Bagarella non fu informato.

6.5 – All’idea di interessare Mangano per riagganciare i rapporti con Berlusconi, Brusca sarebbe giunto, quindi, a suo dire, dopo le stragi del Nord Italia; egli aveva chiesto a Bagarella se avesse ancora dei contatti: “quando Bagarella mi allarga le mani che non aveva più nessuno, cioè per la strage al nord io convinto che lui avesse qualcheduno e mi diceva che non aveva nessuno e che Giuseppe Graviano l’aveva lasciato in mezzo a una strada, o perlomeno si erano tirati indietro, sempre a dire del Bagarella, al che io gli dico: ‘proviamo questa strada’… perché avevo letto su ‘Repubblica’… ’L’Espresso’ questa intervista o queste dichiarazioni (…).
Credo che erano già i primi attacchi politici nei confronti di Silvio Berlusconi, cominciano a uscire indiscrezioni, per dire Silvio Berlusconi aveva amici mafiosi, cioè questo era il senso per me di quelle, di quelle notizie… Quindi io leggendo questo gli chiedo a Vittorio Mangano se era vero o non era vero (…) e quello mi conferma tutto paro paro: ‘sì, vero è’. Allora dico ‘sei in condizioni di ripristinare, cioè di riprendere un’altra volta i contatti con Berlusconi?’ Dice ‘sì’, dice: ‘fammi vedere’. Va a Milano, torna e mi porta la risposta che è a disposizione, cioè c’è il contatto di potere riprendere con Silvio Berlusconi, però non gli domando tramite chi.”.
Brusca prima gli mandò a dire che le stragi del 1993 e del 1994 erano “colpa del governo precedente, perché i Carabinieri, le forze di polizia sapevano…” e che perciò lo stesso Berlusconi avrebbe potuto sfruttare queste circostanze per “attaccare il governo precedente, che era un governo di sinistra, anche se era un governo tecnico, ma era un governo di sinistra, e che se lui non sarebbe venuto incontro a noi con certe esigenze avremmo continuato con lui nel fare le stragi, ma era un bluff perché non c’era nessuna volontà di andare avanti”.
Così Mangano gli raccontava delle modalità con le quali avevano luogo i contatti: “mi diceva che lo contattava tramite questo amico e ci parlava questo amico suo per telefono, perché poi loro si vedevano per i fatti suoi, e poi lui aveva le conferme tramite questo suo amico. Ogni tanto quando non erano vicino, quello gli telefonava: ‘lo sai qua c’è un amico mio…’ gli diceva ‘…c’è quell’amico mio quello delle arance…’ dice che a Silvio Berlusconi piacevano le arance, li portava dalla Sicilia, era un fatto che gli era rimasto impresso, quindi con questo tipo di messaggi l’amico suo gli faceva capire che c’era Vittorio Mangano, che già aveva ricevuto notizie di quello che Vittorio Mangano gli aveva detto…”.

6.6 – Brusca, smentendo le dichiarazioni di Siino, ha sottolineato che, per quanto a sua conoscenza, non vi era alcun collegamento tra gli attentati alla “Standa” di Catania e queste trattative e ha sostenuto che avevano solo finalità estorsive (verb.8/9/1998).
Nell’occasione del citato interrogatorio dell’8/9/1998 dinanzi ai P.M. di Caltanissetta, su esplicita domanda, Brusca escluse di essere a conoscenza di contributi in denaro versati dalla FININVEST a “cosa nostra”, pur affermando che, per contro, non poteva neanche escludere che le notizie fornite in questo senso da altri collaboratori potessero essere veridiche. Successivamente, in data 21/9/1999, fu sentito su sua richiesta dai P.M. di Firenze e rappresentò di aver ricordato che nel corso degli anni 82-83 Ignazio Pullarà, reggente della famiglia di Santa Maria di Gesù a partire dall’arresto del fratello Giovan Battista, gli diceva che a Berlusconi e a Canale 5 “gli faceva uscire i picciuli”, che venivano erogati con un versamento mensile. Non gli spiegò mai a che titolo si facesse elargire quelle somme, ma gli disse di essere subentrato in un rapporto già instaurato da Stefano Bontade. Queste notizie sono state ribadite nel verbale di interrogatorio ai P.M. nisseni del 26/6/1999.
In tale contesto, su domanda dell’Ufficio inquirente, Brusca ha pure escluso di aver mai sentito parlare Riina di Berlusconi e Dell’Utri nell’ambito delle riunioni tenutesi durante il 1992 per mettere a punto la c.d. “strategia stragista”.
Sul punto il Brusca è stato particolarmente chiaro.
Ha affermato di conoscere le dichiarazioni di Cancemi in ordine alle confidenze che avrebbe ricevuto da Riina sui contatti con Berlusconi e dell’Utri, ha ammesso di aver partecipato con lui a due riunioni precedenti alla strage di Capaci, ma ha comunque escluso che in quelle occasione si fosse parlato dei due odierni indagati. Non ha invece escluso che in altre occasioni Cancemi abbia potuto avere informazioni di quel tipo da Riina.
In ogni caso ha negato di aver assistito o partecipato, prima della sua iniziativa con Mangano, ad attività che potevano coinvolgere Berlusconi o Dell’Utri, anche perché il suo ruolo era strettamente legato al territorio di Palermo (“non è stato mai per dire Berlusconi ha mandato questo, Dell’Utri ha mandato questo, o c’è questo canale, alla mia presenza non c’è mai stato perché (…) non ha niente a che fare con i problemi della città, quindi sicuramente i discorsi sono stati fatti però io non ne so nulla…”).

6.7 – Occorre evidenziare che il contributo di Brusca è stato positivamente apprezzato dalla Corte di Assise di Caltanissetta in ordine alla ricostruzione della fase deliberativa ed esecutiva delle stragi per cui si procede.
Del pari positivo è stato l’apprezzamento della Corte di Assise di Firenze. Bisogna evidenziare che i giudici fiorentini hanno ritenuto ampiamente riscontrato l’episodio riferito da Brusca e inerente il c.d. “papello”, cioè le richieste che Riina avrebbe rivolto ad alcuni organi istituzionali e che avevano ad oggetto degli immediati benefici per gli “uomini d’onore” in carcere e lo smantellamento della legislazione e delle pronunce giudiziarie che avevano danneggiato “cosa nostra”. Si legge nelle motivazioni della loro sentenza: “Brusca dice il vero quando afferma che la richiesta di trattare, formulata da un organismo istituzionale a lui sconosciuto (oggi si sa che erano gli uomini del ROS), indusse Riina a pensare (e a comunicare ai suoi accoliti) che ‘quelli si erano fatti sotto’. Lo indusse cioè a ritenere che le stragi di Capaci e di Via D’Amelio, da poco avvenute, avevano completamente disarmato gli uomini dello Stato; li avevano convinti dell’invincibilità di ‘cosa nostra’; li avevano indotti a rinunciare all’idea del ‘muro contro muro’ ed a fare sostanziali concessioni all’organizzazione criminale cui apparteneva (…)” (sent.6/6/1998, p.1547).
Ad avviso di quella Corte, invece, la stasi della trattativa aveva indotto l’organizzazione mafiosa a mettere in esecuzione i successivi attentati del 1993, il cui metodo era stato già messo a punto e la cui esecuzione era stata sospesa in attesa dell’esito della trattativa stessa.
La Corte di Assise di Caltanissetta nel processo c.d. “Via D’Amelio-ter” ha invece ritenuto che non potesse con certezza considerarsi dimostrata l’identità tra le trattative di cui ha parlato Brusca e i contatti tra i ROS e Vito Ciancimino nell’ambito di una serie di iniziative finalizzate a coinvolgere quest’ultimo come “agente sotto copertura” nel settore della gestione illecita degli appalti, in cambio di benefici per la sua posizione processuale.
Orbene, dopo il dibattimento di Firenze, Brusca ha ricollocato con precisione la riunione in cui Riina gli parlò del “papello” e, come si è visto nel precedente par. 6.2, ha affermato che essa avvenne in epoca antecedente alla strage di Via D’Amelio (la sentenza della Corte di Assise di Firenze riporta ancora che Brusca “circa l’epoca in cui apprese di questa trattativa non si è rivelato sicuro”; p. 1540).
Il Magg. De Donno ha riferito di aver avviato contatti con Ciancimino prima della strage di Via D’Amelio, ma gli incontri del Gen. Mori con l’ex sindaco di Palermo, legato a “cosa nostra”, avvennero tra il 5 agosto e il 18 ottobre 1992.
La coincidenza temporale e il “ragionamento” del Brusca, a questo punto, non sono sufficienti per considerare scontato che De Donno e Mori fossero i personaggi che si erano “fatti sotto”, secondo l’acre espressione di Riina.
I termini della proposta offerta dagli ufficiali del ROS a Ciancimino – ricostruibili oggi solo sulla base delle loro stesse testimonianze – ed il contenuto del “papello” di cui parla Brusca e che riecheggia nelle dichiarazioni di numerosi altri collaboratori non coincide; tanto più che una delle condizioni dell’accordo perseguito dai ROS era la cattura di Riina, cioè di colui il quale avrebbe predisposto il “papello” stesso.
Il fatto che Brusca non sia in grado di fornire indicazioni più precise non consente di avvalorare né l’ipotesi, tenuta presente da ambedue le Corti, che Ciancimino non riportasse fedelmente alle due parti i contenuti dei colloqui intrattenuti con gli uomini di “cosa nostra” e con i ROS, né l’ipotesi assai più suggestiva, avanzata solo dalla Corte di Firenze, che il “papello” potesse essere stato affidato da Riina a Cinà (l’uomo di collegamento con gli ambienti politici), il quale a sua volta lo avrebbe tenuto per sé e non lo avrebbe fatto conoscere a Ciancimino in attesa di verificare la “serietà” delle proposte della controparte.
In ogni caso, nessuna delle due Corti ha ritenuto inattendibile sul punto il Brusca, ritenendo credibile che egli abbia appreso la notizia della trattativa da Riina e ritenendo comunque riscontrata una complessiva strategia di “cosa nostra” finalizzata ad imporre le proprie condizioni a nuovi referenti. Tuttavia la Corte di Assise di Firenze non ha mancato di rilevare in più occasioni che la ricostruzione dei fatti offerta da Brusca in quel processo – specie in ordine a quanto avvenne durante le discussioni sull’organizzazione degli attentati fuori dall’Isola – tradisce chiaramente il tentativo di sminuire il proprio ruolo nell’elaborazione della strategia stragista (cfr. pagg. 1629 ss. della sentenza citata).
Questa valutazione dell’atteggiamento di Brusca sembra in realtà trovare conferma anche in relazione alle vicende che interessano il presente procedimento.
E difatti, alla luce delle dichiarazioni di altri collaboratori e del ruolo che il Brusca ha mantenuto nell’organizzazione specie dopo l’arresto di Riina, non può sfuggire come egli, pur avendo fatto ampia ammissione del suo ruolo nelle stragi di Capaci e di Via D’Amelio, mostra delle inspiegabili reticenze circa le sue iniziative in ordine alla creazione di contatti “politici” e ai suoi rapporti con Mangano.
Sul punto occorre subito esaminare le dichiarazioni di Salvatore Cucuzza, altro “uomo d’onore” di vertice nel mandamento di Porta Nuova.


7. Le dichiarazioni di Salvatore Cucuzza

7.1 – Salvatore Cucuzza, che ha militato nella famiglia di Porta Nuova anche dopo che Cancemi si è consegnato ai Carabinieri, ha confermato il ruolo dello stesso Cancemi come reggente di quel mandamento per conto di Pippo Calò e ha riferito che tale ruolo fu poi assegnato a Vittorio Mangano.
Ha aggiunto di essere stato incaricato da Calò (che era detenuto) di far sapere che egli non si sentiva adeguatamente rappresentato da Mangano e di essersi incontrato con Brusca e Bagarella per portare questa ambasciata. Ma Brusca e Bagarella insistettero perché fosse mantenuto il ruolo di Mangano, assumendosene ogni responsabilità.
Cucuzza ha spiegato che questa predilezione per Mangano dipendeva dal fatto che in “cosa nostra” tutta erano noti i suoi agganci “a livello politico”, ai quali sia Brusca sia Bagarella tenevano molto e dei quali il Mangano si era vantato anche con lui (“mi disse, quando sono uscito, che aveva avuto degli agganci anche mesi prima che io uscissi con Dell’Utri… e quindi aveva avuto assicurazioni che, insomma, si sarebbe interessato per cosa nostra”). Si giunse allora al compromesso di una co-reggenza di Mangano e Cucuzza; quest’ultimo posto al vertice del mandamento a garanzia di Calò (verb. Ass. Firenze proc. c. Graviano Giuseppe + 3; ud. 18/5/1999, riconfermando quanto già narrato al P.M. di Firenze nel verb.7/5/1997).

7.2 – Secondo Cucuzza, Vittorio Mangano riuscì a tenere stretti a sé Brusca e Bagarella proprio in virtù di questi rapporti con Dell’Utri e non assunse mai alcuna iniziativa senza tenerli informati. Ha raccontato di avere appreso da Mangano che egli aveva lavorato presso la tenuta di Arcore di Silvio Berlusconi e che lì aveva addirittura organizzato un sequestro di persona ai danni del padre dell’imprenditore; questo sequestro poi non riuscì, in quanto all’ultimo momento si cambiò obiettivo ma senza successo. Berlusconi ai CC disse di non sospettare di Mangano, ma di lì a poco lo mandò via; “però”, aggiunge Cucuzza, “ha paura, ecco, e quindi si aggancia ad altre persone, per cui quando io sono poi in carcere, dei soldi che mandava prima, all’anno, li percepiva prima dalla parte di Bontate con Teresi (…) Quando invece poi io parlo in carcere per fargli dare qualche cosa a lui, perché era stretto, cioè non aveva soldi Mangano, ci dico: ‘Scusa li prendeva lui questi soldi, adesso li prendete voi, dateci un qualche cosa a lui, a Mangano Vittorio’ e io lo dico a Giovan Battista Pullarà, che era Pullarà che lo riceveva” (verb. P.M. Firenze 7/5/1997). Questi finanziamenti di Berlusconi prima a Bontate, poi a Teresi, infine a Pullarà, Cucuzza li ha contestualizzati a cavallo tra la fine degli anni “80 e i primi anni “90.
Quando il 30/1/1994, Cucuzza venne scarcerato, tornò a parlare con Mangano dei suoi rapporti con Dell’Utri; Mangano gli disse di essere ancora in stretto contatto con lui e che grazie a lui “poteva influenzare qualche cosa”, “di interesse naturalmente di cosa nostra” (verb. P.M. Firenze 7/5/1997).
Brusca e Bagarella, per fargli comprendere la necessità di mantenere il ruolo di Mangano, spiegarono a Cucuzza che, attraverso Dell’Utri, Mangano aveva fatto conoscere in anticipo delle possibilità di ottenere una disciplina favorevole a “cosa nostra” in relazione al noto decreto Biondi, poi ritirato in seguito a delle polemiche politiche. Mangano inoltre faceva sapere loro quali erano le indicazioni che provenivano da Dell’Utri e quali le iniziative che egli avrebbe avviato in loro favore.
Per Mangano veniva tenuto in affitto un ufficio a Como, all’interno del quale egli diceva anche di incontrare Dell’Utri che lo raggiungeva in elicottero.
Secondo quanto riferitogli da Mangano, Dell’Utri mandava a dire: “Non fate rumore, perché altrimenti ci mettete in una condizione di non potere fare niente”; “Si, faremo, faremo, però stiamo attenti, non facciamo succedere cose”. E aveva preannunciato che all’inizio del 1994 sarebbero state adottate normative con aspetti più vantaggiosi per ‘cosa nostra’ (verb. cit. 7/5/1997).
Quanto alla strategia stragista, Cucuzza ha indicato come propria fonte di informazione il Brusca che gli avrebbe parlato dello scopo di ‘cosa nostra’ di portare lo Stato ad una trattativa e dell’impegno di Riina in questo senso, profuso avvalendosi di persone che “aveva nelle mani”.
Brusca gli parlò anche di quadri da consegnare ad una persona che li avrebbe utilizzati per accreditarsi come loro intermediario nei confronti dello Stato, trattativa questa che poi fallì; a Cucuzza vennero mostrate le foto di questi quadri, dopo il fallimento della trattativa, per verificare la possibilità di venderli e ricavarne degli utili. (verb. cit. 7/5/1997).

7.3 – La versione di Cucuzza pertanto disegna per Brusca un ruolo ben più importante nella gestione della fase stragista di “cosa nostra”; il collaborante inoltre colloca nel luglio 1993 (epoca dell’arresto di Cancemi) l’interesse di Brusca e Bagarella alla figura di Mangano, quale intermediario con Dell’Utri, smentendo che la ricerca di questi contatti fosse una soluzione di ripiego perseguita solo nel 1994 quando non vi erano più altre strade.
Brusca, sentito nuovamente nel giudizio di appello per la strage di Capaci (ud. 1/7/1999), ha cercato di coordinare quanto da lui in passato sostenuto e quanto riferito da Cucuzza; ha in particolare affermato che Mangano fu indicato da lui e da Bagarella come reggente di Porta Nuova dapprima “per un problema di fiducia” e che poi “strada facendo”, dopo la lettura del già citato articolo di stampa, decisero di servirsene per contattare Dell’Utri.
Tuttavia non ha esplicitato quale fosse la specifica ragione di fiducia nei confronti.
In ogni caso il profondo legame che intercorreva tra loro rende poco credibile che lo stesso Brusca sia venuto a sapere occasionalmente da un articolo di stampa dei rapporti di Mangano con Dell’Utri, già notori in “cosa nostra” e dei quali lo stesso Mangano nell’ambiente criminale non perdeva occasione di menare vanto.
Sul punto la ricostruzione di Cucuzza trova altre conferme nelle dichiarazioni dei collaboratori di giustizia che si esamineranno a breve.

8. Le dichiarazioni di Vincenzo La Piana

Vincenzo La Piana, collaboratore di giustizia dell’area palermitana che ha confessato vari reati connessi al controllo mafioso delle attività economiche e che ha mantenuto qualificati rapporti con il capomafia Gerlando Alberti, ha riferito di conoscere da molto tempo Vittorio Mangano e di essersi spesso rivolto a lui, contattandolo attraverso il genero, tale “Enrico”, che era stato suo compagno di detenzione, per ottenere l’“autorizzazione” a svolgere dei lavori nel suo territorio; ha confermato in questo contesto che il “responsabile” di Porta Nuova era proprio Mangano, che quest’ultimo aveva particolari rapporti preferenziali con Brusca e che dopo il suo arresto il mandamento passò sotto la reggenza di Salvatore Cucuzza (verbb. P.M. Milano in data 5/11/1997, in data 6/11/1997 e in data 14/11/1997, nonché verb. P.M. Milano, P.M. Torino e P.M. Palermo in data 3/12/1997).
Ha pure riferito che, dopo l’arresto di Mangano, egli effettuò dei viaggi con l’”Enrico” al fine di attivare personaggi influenti i quali avrebbero dovuto propiziare quantomeno un trasferimento dello stesso in un carcere diverso da quello di Pianosa, dove il suo stato di detenzione si era fatto troppo gravoso; ha raccontato in particolare di un viaggio in auto verso Milano, durante il quale “Enrico” gli disse che sarebbero andati a parlare con “Dell’Utri”; non gli disse il nome di battesimo di quello che sarebbe stato il loro interlocutore.
Ha poi narrato l’incontro che ne seguì, avvenuto insieme ad altre persone in un ristorante nei pressi di Piazzale Corvetto a Milano, conclusosi con la promessa del Dell’Utri che avrebbe visto il da farsi, aggiungendo: “datemi qualche giorno di tempo, ci teniamo in contatto”. In epoca successiva “Enrico” aveva contattato il Dell’Utri con il suo telefono cellulare, del quale La Piana non ha saputo indicare il numero.
La Piana ebbe poi a chiedere ad “Enrico” degli effetti del promesso interessamento da parte di Dell’Utri, ma gli fu risposto che i problemi si stavano aggravando perché la vicenda di Mangano aveva avuto progressiva notorietà ed era sempre più difficile intervenire.



9. Le dichiarazioni di Tullio Cannella

9.1 – Con gradualità anche il collaboratore di giustizia Tullio Cannella ha parlato di una strategia di cosa nostra attuata tra il 1992 e il 1993 per realizzare un nuovo assetto politico-istituzionale in Italia.
Come peraltro documentalmente accertato, Cannella fondò nell’ottobre 1993 il movimento “Sicilia Libera” a Palermo. Egli ha riferito (verb. P.M. Palermo 1/8/1995) che Bagarella si interessò subito a questo movimento e gli disse di rimanere a disposizione; promise appoggio per un loro candidato alle elezioni comunali, attraverso uomini vicini alla “famiglia” di Brancaccio, ma senza alcun utile esito; inoltre lo stesso Bagarella lo mise in contatto con persone di Trapani e di Catania per la preparazione delle liste per le elezioni politiche nazionali.
Cannella ha aggiunto che successivamente Antonino Calvaruso (amministratore del villaggio “Euromare”, formalmente intestato allo stesso Cannella che era in realtà mero prestanome dei Graviano) gli fece sapere che Brusca e Bagarella avevano deciso di appoggiare “Forza Italia”. Calvaruso, anch’egli collaboratore di giustizia, sentito dal P.M. di Palermo in data 25/1/1996, ha sostanzialmente confermato tali circostanze; si è detto a conoscenza degli interessi di Bagarella per “Sicilia Libera”, spiegando che, dopo l’arresto di Riina, lo stesso Bagarella gli aveva detto di non avere “agganci politici” se non quelli che gli curavano i Graviano di Brancaccio e sui quali non gli riferì niente di preciso.
In proposito occorre segnalare che Giuseppe e Filippo Graviano erano all’epoca latitanti nel milanese, furono catturati il 28/1/1994 all’interno di una trattoria del capoluogo lombardo e nell’occasione furono arrestati alcuni soggetti che ne favorivano la latitanza; tra questi il palermitano Giuseppe D’Agostino, del quale si accertava che si trovava a Milano perché nutriva aspettative in ordine all’ingaggio del figlio nelle squadre giovanili del Milan.
Calvaruso, dopo aver visto Bagarella adoperarsi nel 1993 per “Sicilia Libera”, si accorse che nel 1994 se ne disinteressò del tutto; egli dedusse che si era orientato a sostenere “Forza Italia”.

9.2 – Successivamente nell’interrogatorio del 28/5/1997, ma, in maniera ancora più approfondita, in quello del 17/7/1997 dinanzi ai P.M. di Palermo, Firenze e Caltanissetta, Cannella ha reso dichiarazioni più ampie in ordine alla strategia di ‘cosa nostra’ nella ricerca di nuovi interlocutori politici, sostenendo che già nel periodo in cui nasceva “Sicilia Libera” venivano battute altre strade.
“Bagarella – ha riferito Cannella – era già perfettamente a conoscenza che era in cantiere la discesa in campo di Silvio Berlusconi a capo di un nuovo movimento politico che ci avrebbe assicurato, in virtù di impegni preesistenti, di risolvere le questioni che più stavano a cuore a cosa nostra e cioè: pentiti, carcere duro e reato di associazione mafiosa. Chiarisco che queste erano, per così dire, le priorità che l’accordo con Berlusconi ci avrebbe consentito a breve termine di affrontare e risolvere. Questa strategia non escludeva, anzi camminava di pari passo con quella separatista di cui ho già parlato, che era caldeggiata principalmente da Bagarella e da Nitto Santapaola a Catania tramite Alfio Fichera, ma per
la quale si prevedeva una realizzazione solo in un futuro non immediato.” Cannella ha insistito sugli impegni preesistenti di Berlusconi con uomini di cosa nostra, sottolineando che l’accordo era stato coltivato dai fratelli Graviano per conto di tutta quanta l’organizzazione negli anni 1991-1992.
Di questo venne a conoscenza grazie alle confidenze di Bagarella. Fu sempre Bagarella a dirgli che “a Roma si era costituito un ottimo rapporto con il costruttore Franco Caltagirone, a sua volta in rapporto con Giulio Andreotti. Dico meglio, i Graviano avevano ripreso un vecchio rapporto che il Caltagirone aveva avuto con cosa nostra sin dai tempi di Stefano Bontade. A Milano i rapporti, sempre per quanto dettomi da Bagarella e confermatomi da Cesare Lupo (…), erano stati costituiti da Marcello Dell’Utri con cui i Graviano si incontravano personalmente (…).
La nascita ed il consolidarsi delle relazioni di cui ho appena detto concretizzò definitivamente un rapporto di amicizia e di collaborazione su tutti i fronti con Dell’Utri e conseguentemente con Berlusconi. Questa non è solo una mia deduzione ma fu oggetto di numerose conversazioni con Leoluca Bagarella, oltre che con altri uomini di cosa nostra”.
Cannella ha poi parlato di una serie di attività svolte da uomini di cosa nostra al fine di sostenere Berlusconi nella competizione elettorale del 1994 e ha detto che Calvaruso gli riferì che Giovanni Brusca si stava impegnando in questo senso.
In proposito Brusca ha negato un proprio diretto impegno in campagna elettorale finalizzato a coinvolgere e ad impegnare la cosca e Calvaruso, nel verbale sopra citato, ha affermato che la sua fu più una deduzione che non il risultato di una diretta esperienza.
Tuttavia la circostanza – riferita pure da Angelo Siino – ha trovato conferma nelle dichiarazioni di un collaborante molto vicino allo stesso Brusca, Giuseppe Monticciolo, che nell’interrogatorio del 6/6/1996 al P.M. di Palermo parlò del diretto impegno del boss di San Giuseppe Jato, il quale apprezzava alcuni esponenti di “Forza Italia”, impegnati anche in una battaglia contro il c.d. “41bis”. Monicciolo ha ricordato che Brusca sollecitava i suoi ad appoggiare questa nuova formazione politica, cercando voti “a panza ‘n terra”.
A seguito delle propalazioni di Monticciolo e di altri collaboranti, Brusca ha ammesso di essersi in qualche modo impegnato in questo senso: “ci sono molti collaboranti che dicono che io ho fatto votare Forza Italia, ed è vero, ma ho fatto votare Forza Italia solo ed esclusivamente per andare contro la sinistra, per un fatto ideologico mio…” (Verb. P.M. Caltanissetta 8/9/1998). Ha tuttavia negato di aver coinvolto l’intero suo mandamento e i suoi alleati come invece nello stesso periodo fece Mangano.
Le più incisive e convergenti affermazioni degli altri collaboratori si uniscono al fatto che non sembra pensabile che Mangano e Brusca così vicini nell’organizzazione avessero due linee di condotta diverse; e ciò fa ritenere che anche in questa occasione Brusca sia proteso a ridimensionare le sue iniziative in relazione alla coltivazione di rapporti politici.

9.3 – Cannella ha ricordato ancora un altro episodio significativo: “quando

Berlusconi tenne l’ultimo comizio della sua campagna elettorale a Palermo presso la Fiera del Mediterraneo, io ero presente su incarico di Bagarella. Riferii, poi, allo stesso Bagarella di una frase di Berlusconi in cui si manifestava un vago proposito di utilizzare i voti ‘contro la delinquenza’. Bagarella mi disse che era una frase ‘obbligata’ per l’opinione pubblica e per i giornalisti, dato che era stato contestato al Berlusconi che non parlava mai di mafia; ma in quella stessa occasione mi assicurò, ancora una volta, che lo stesso aveva preso ‘impegni seri’ con noi intendendo con tutta cosa nostra”.
Le vicende così sintetizzate da Cannella sono state approfondite in seguito alle specifiche domande rivoltegli dal P.M. nell’interrogatorio del 7/11/1997. Ha affermato Cannella a proposito delle informazioni da lui apprese circa gli accordi tra cosa nostra e Berlusconi, e poi circa i contatti curati dai Graviano:
“nel gennaio 1994, mentre ci trovavamo presso il mio studio ubicato a Palermo, via Nicolò Gallo n. 14, ove Leoluca Bagarella con frequenza quasi quotidiana soleva raggiungermi, avevo un colloquio con quest’ultimo (…). Nell’occasione chiedevo al mio interlocutore come mai ‘cosa nostra’ si era determinata a commettere le stragi in Sicilia nel 92 e quelle successive nel continente nel 1993 e quali garanzie avevano avuto loro dal mondo politico e istituzionale per evitare le prevedibili conseguenze negative ricollegabili a tali fatti eclatanti (…).
A fronte di tale mio articolato ragionamento, il Bagarella replicò, per tranquillizzarmi, dicendomi di non preoccuparmi perché avevano avuto ‘delle garanzie’ e che si trattava solo di vedere se gli impegni presi sarebbero stati mantenuti subito dopo le elezioni. Non mi precisò, in questa sede, da chi erano state date le garanzie, ma mi assicurò che, comunque, ‘l’operazione era stata studiata bene’ e che vi era la possibilità di accollare le stragi a organismi terroristici del tipo ‘Falange Armata’. Evidenzio che in quell’occasione non vi era nessuna altra persona presente”
Cannella null’altro di più specifico avrebbe saputo sugli accordi di cui gli parlò Bagarella.
Quest’ultimo gli disse pure genericamente che i Graviano avevano dei legami con Caltragirone e con Dell’Utri, ma che li avevano gestiti “sconfinando”, senza aggiungere nient’altro di più preciso.

9.4 – Una delle fonti del collaboratore è indicata in Cesare Lupo; il suo spessore criminale anche all’interno di “cosa nostra” e i rapporti di quest’ultimo con i Graviano, dei quali ha agevolato la latitanza tra la fine del 1992 e il 1993, sono stati oggetto di approfonditi accertamenti investigativi (cfr. la scheda dela DIA di Palermo in data 20/11/1998, nonché i numerosi provvedimenti giudiziari che lo riguardano, contenuti nel faldone 3/A, carpetta A).
Appare evidente che le dichiarazioni di Cannella segnano una progressione che può destare qualche sospetto alla luce del comportamento da lui tenuto in un altro procedimento, i cui atti sono stati scrupolosamente acquisiti dal P.M., e che riguarda delle accuse “de relato” da lui formulate a carico del dott. Croce dopo una serie di incontri con altri collaboratori e con la finalità di accreditarsi dinanzi alle Autorità inquirenti (cfr. decreto di archiviazione del GIP di Caltanissetta del 6/7/1999).
Va tuttavia rilevato che, sulla vicenda del sostegno di “cosa nostra” a “Sicilia Libera” e successivamente dell’opzione di sostenere invece il movimento “Forza Italia”, si sono raggiunti sufficienti elementi di conferma in forza delle dichiarazioni di numerosi altri collaboratori di giustizia, le cui assoluta convergenza sul punto è stata tra l’altro già evidenziata dalla Corte di Assise di Caltanissetta nella sentenza più volte citata relativa alla strage di Via D’Amelio.
Restano ancora vaghe le dichiarazioni, peraltro tardive, circa la sussistenza di accordi pregressi tra Bagarella e i promotori del movimento poi denominatosi “Forza Italia”, dichiarazioni queste che avrebbero ben maggiore rilievo per sostenere l’ipotesi accusatoria del presente procedimento.


10. Le dichiarazioni di Gioacchino Pennino

Pennino ha reso dichiarazioni con le quali ha riferito di notizie apprese all’interno di ‘cosa nostra’ e da soggetti qualificati in ordine ai rapporti intrattenuti da Mangano con Berlusconi e dai Graviano con Dell’Utri (verb. 3/3/1998).
Specificamente interrogato sulle stragi di Capaci e di Via D’Amelio in data 13/3/1998, Pennino ha escluso di essere a conoscenza di fatti specifici, mentre ha sottolineato di aver appreso da due fonti che Silvio Berlusconi era il mandante delle stragi del 1993: la prima fonte si identificava nel dottore Giuseppe Ciaccio, uomo d’onore di una ‘famiglia’ dell’agrigentino, di professione radiologo; la seconda era Pinuzzo Marsala, uomo d’onore della ‘famiglia’ di Santa Maria di Gesù.
Dalle indagini del gruppo “Falcone e Borsellino” (nota in data 17/6/1998), è emerso che Giuseppe Ciaccio era effettivamente un radiologo, già residente a Palermo, ma di origine agrigentina, fin dal 1974 sottoposto ad accertamenti anche in seguito alle dichiarazioni del collaboratore Leonardo Vitale che lo indicò come affiliato a “cosa nostra”. Egli era deceduto il 2/8/1995 (su Ciaccio cfr. pure nota DIA in data 11/11/1998).
Del pari deceduto l’altro soggetto che avrebbe fornito notizie a Pennino, Giuseppe Marsala. Già sottoposto a procedimento penale, ma poi prosciolto per favoreggiamento a beneficio di Bonura Luigi, all’epoca indagato per detenzione e spaccio di stupefacenti, Marsala risultava avere contatti frequenti con il Sen. Vincenzo Inzerillo e con il Sen. Cerami, personaggi indicati da vari collaboratori di giustizia come interlocutori di esponenti di “cosa nostra”; in data 5/4/1997, Marsala si suicidò lanciandosi dal balcone della propria abitazione. In data 15/12/1997, Marsala era stato sottoposto a custodia cautelare in forza di provvedimento del GIP di Palermo basato sulle dichiarazioni di Pennino e sui riscontri raccolti dagli investigatori; i familiari riferirono dopo il suicidio che, in seguito all’emissione di quel provvedimento, Giuseppe Marsala era caduto in depressione.
Le dichiarazioni di Pennino, oggetto dell’odierna valutazione, sono “de relato” e del tutto generiche; l’impossibilità di escutere le fonti di esse, l’insussistenza di elementi per giungere a ricavare quali fossero le circostanze per cui Ciaccio e Marsala potevano essere a conoscenza di tali fatti, la mancanza di elementi idonei a prefigurare in capo a costoro un ruolo criminale di tale levatura da accedere a queste informazioni rendono del tutto inutilizzabili le propalazioni in esame.


11. Le dichiarazioni di Maurizio Avola

11.1 – Maurizio Avola, collaboratore di giustizia già appartenente alla “famiglia” Santapaola di Catania (i suoi legami con Aldo Ercolano e Nitto Santapaola erano stati già ampiamente accertati dall’AG di Catania prima della sua collaborazione), sentito dalla Corte di Assise di Caltanissetta nel proc. c. Agate Mariano + 26 per la strage di via D’Amelio (ud. 9/4/1999), ha dichiarato di essere stato in contatto stabile con Marcello D’Agata e attraverso questi ed altri affiliati del gruppo catanese con “cosa nostra” palermitana. Ha detto di aver contribuito alla preparazione di attentati che si sarebbero dovuti eseguire a Firenze tra il 1992 e il 1993. Sul punto le sue dichiarazioni sono state confermate dagli accertamenti del P.M. che hanno riscontrato una presenza di Avola a Firenze nel maggio 1992 (nota DIA del 23/10/1999) e sono state valorizzate nella sentenza della Corte di Assise di Firenze, più volte citata.
Ha riferito che nel mese di settembre del 1992 si tenne una riunione a Catania, zona Zia Lisa, dove trascorreva la latitanza Nitto Santapaola; vi parteciparono Riina, Eugenio Gallea, Marcello D’Agata, Aldo Ercolano, Alfio Fichera e lo stesso Avola. Si discusse della nascita di un partito nuovo: in proposito Gallea che aveva partecipato poco tempo prima ad un’altra riunione tenutasi nell’ennese “portava come novità che erano nate delle alleanze, che doveva nascere questo partito nuovo e … si dovevano creare visi nuovi”. D’Agata era diffidente, ma Gallea dava assicurazioni del fatto che la cosa era gestita personalmente da Riina.
Lo scopo era quello di frenare le iniziative giudiziarie e legislative che avevano fortemente intaccato il potere di “cosa nostra” e che erano state scandite dall’esito del maxiprocesso, dalla disciplina a favore delle collaborazioni con la giustizia e poi dal regime penitenziario instaurato dal noto art.41bis O.P.
Avola ha affermato di aver appreso da D’Agata che per sostenere il nuovo partito era necessario portare avanti un attacco violento allo Stato e questo attacco era stato delegato a “cosa nostra” già all’inizio del 1992, prima delle stragi di Capaci e di Via D’Amelio. Nulla seppe su quale fosse tale partito nuovo; nel 1994, mentre era detenuto, apprese dalla moglie che gli esponenti di “cosa nostra” avevano ordinato agli affiliati di votare “Forza Italia”.
Ha anche parlato del fatto che vi fu tra la fine del 1992 e i primi del 1993 una riunione in un albergo romano (l’”Excelsior”), alla quale parteciparono D’Agata, Gallea e Pacini Battaglia e nella quale fu deciso che “cosa nostra” avrebbe provveduto all’eliminazione fisica di Antonio Di Pietro per fare un favore a Bettino Craxi. Avola ne venne a conoscenza perché fu designato quale componente del commando.
Il P.M. ha disposto accertamenti per verificare se le persone indicate da Avola avessero soggiornato contestualmente all’hotel “Excelsior” di Roma tra il 1992 e il 1993 e l’esito è stato negativo (nota DIA del 23/10/1999). Non si è acquisita pertanto alcuna conferma della circostanza, ma l’accertamento non vale come smentita in quanto l’incontro non era necessariamente ricollegato al pernottamento nell’albergo di tutti gli astanti.
Va tuttavia ricordato che anche Brusca ha riferito di un progetto dei catanesi di uccidere Di Pietro, illustratogli da Eugenio Gallea (ud. Corte di Assise di Appello di Caltanissetta 1/7/1999).


11.2 – Dopo la pubblica escussione dibattimentale nel processo c.d. “Via

D’Amelio ter”, Avola chiese di essere sentito dal P.M. di Messina e, nel corso dell’interrogatorio del 25/5/1999, affermò di voler rendere dichiarazioni circa la “strategia” che condusse alle stragi di Capaci e di Via D’Amelio, nonché a quelle successive commesse nel Nord-Italia, e sostenne che tale “strategia” aveva un punto di riferimento nella città dello Stretto.
“Tutto deriva dai contatti fra Alfano e Dell’Utri. – disse Avola riferendo fatti del tutto nuovi – A Messina alla fine del 1991, ci sono stati degli incontri cui hanno partecipato Alfano, Sparacio, Dell’Utri ed alcuni uomini d’onore della famiglia catanese di cosa nostra”.
Di Michelangelo Alfano, Avola dichiarò che, dopo gli attentati alla “Standa” di Catania (quelli di cui hanno parlato Brusca e Siino con differenti versioni in ordine al loro movente), egli fece da mediatore per conto della famiglia catanese con Marcello Dell’Utri e allacciò con lui un rapporto diretto Dopo quegli incontri, ed in particolare dopo una riunione avvenuta alla fine del 1991 a Messina tra Marcello D’Agata, Eugenio Gallea, Santo Battaglia, Alfano, Sparacio e Dell’Utri, il collaboratore sarebbe venuto a sapere da D’Agata che “cosa nostra” voleva consentire ad una forza politica nuova di assumere posizioni di potere, affinchè la rappresentasse in luogo dei precedenti referenti politici che l’avevano tradita; il progetto prevedeva l’eliminazione di personaggi pubblici particolarmente rappresentativi tra politici e magistrati.
Successivamente nel febbraio-marzo 1992 ebbe luogo la riunione di “Zia Lisa”, di cui Avola aveva prima parlato alla Corte di Assise nissena, collocandola invece nel settembre 1992, cioè in epoca successiva alle stragi di via D’Amelio e di Capaci.
Il collaboratore spiegò la sua nuova versione, dicendo che sino ad allora aveva taciuto alcune circostanze e aveva falsamente datato la riunione di “Zia Lisa” per il timore di essere coinvolto nella strage di Capaci.
Affermò che dopo l’incontro di Messina tra esponenti di “cosa nostra” e nuovi referenti della politica vi era stata una riunione ad Enna, alla quale avevano partecipato Gallea e tutti i rappresentanti provinciali di “cosa nostra” per discutere del progetto di sostegno alla nascente forza politica. Gallea a “Zia Lisa” portò poi il resoconto del “summit” ennese.
Avola aggiunse che già dai primi mesi del 1992 Falcone era stato individuato come obiettivo e D’Agata gli aveva detto che era in corso la fase preparatoria dell’attentato. Avola sostenne inoltre che in quel periodo curò il trasporto di un certo quantitativo di esplosivo insieme a D’Agata da Catania a Termini Imerese con la consapevolezza che sarebbe servito alla strage di Capaci. Disse di essere stato contattato per far parte del commando ma che poi non vi partecipò.
I rapporti tra Alfano e Dell’Utri, i contatti tra i due al fine di sostenere una nuova formazione politica e le riunioni avvenute a Messina, di cui ha parlato Avola, sono stati confermati dal collaborante Luigi Sparacio, ma in una complessiva ricostruzione per molti versi generica e non scevra di contraddizioni (cfr. verb. 1/4/1999 P.M. Messina).

11.3 – A seguito di queste nuove propalazioni di Avola sui temi del presente procedimento, il P.M. nisseno lo convocò in data 25/9/1999 per interrogarlo sulle stragi di Capaci e di Via D’Amelio, ma egli, dopo aver lamentato varie disfunzioni verificatesi nei rapporti tra i suoi familiari e il Servizio Centrale di Protezione, si avvalse della facoltà di non rispondere e dichiarò di non voler più collaborare con la giustizia.
Un rapporto della Direzione della Casa Circondariale di Pescara in data 21/10/1999 segnalò che egli si era rifiutato di farsi tradurre per un altro interrogatorio e aveva manifestato la volontà di interrompere la sua collaborazione sempre in relazione alle sue insoddisfazioni circa il tipo di trattamento che stavano subendo i suoi familiari; aveva pure affermato che non voleva più avvalersi dei benefici del programma di protezione e che alcune delle dichiarazioni da lui precedentemente rese erano totalmente false.
Presto Avola riprese la sua collaborazione e spiegò alla Corte di Assise di Catania (verb. ud. 18/11/1999, proc. c. Ercolano Aldo + 4) che il suo precedente atteggiamento era stato dovuto ad un momento di sconforto, ma che egli aveva poi deciso di fare uscire i suoi familiari dal programma di protezione e di continuare a collaborare con lo Stato senza chiedere alcunchè; in quella occasione affermò che tutto quanto aveva dichiarato in passato rispondeva a verità.
Il 22/7/2000 il P.M. interrogò nuovamente Avola, il quale stavolta si disse disponibile a rispondere. Il P.M. gli chiese spiegazioni su quanto aveva riferito al P.M. di Messina il 25/5/1999 e Avola confermò la versione resa in quell’occasione e puntualizzò:
“I primi progetti erano di colpire in alta Italia, non toccare la Sicilia con le stragi (…) Poi i palermitani hanno deciso così, di dare questo (…) colpo di mano”.
Spiegò così il fatto che egli era andato a Firenze a svolgere dei sopralluoghi in epoca antecedente alla strage di Capaci.
La strategia era motivata dal fatto che “stava nascendo questo… partito e si doveva appoggiare questa forza politica nuova che poi doveva aiutare un po’ tutta la situazione di cosa nostra”.
Avola identificò la nuova formazione politica nel movimento “Forza talia”.
“P.M.: Ma lei si riferisce a Forza Italia perché lo deduce da quello che è successo dopo o perché le venne detto ad un certo punto… (…)
AVOLA: … è mia moglie che me lo conferma al colloquio, perché il D’Agata mi manda a dire che se il partito, il partito era nato…io sto parlando già del 1993… il partito era nato e tutti sti pentiti ce li legavamo alle caviglie e non ti preoccupare che Maurizio… esce con i suoi piedi! (…) Era fine ’93.”
Il messaggio tranquillizzante gli era stato fatto arrivare per distoglierlo da un progetto di evasione che Avola stava mettendo a punto con altri codetenuti e che poteva risultare inutile alla luce delle ulteriori evoluzioni.


11.4 – Orbene le dichiarazioni di Avola, secondo quanto egli stesso afferma, si basano prevalentemente sulle confidenze di D’Agata, dal quale avrebbe attinto tutte le notizie in ordine al ruolo di Dell’Utri, ai contatti con la famiglia catanese, alla strategia “stragista” di cosa nostra e agli accordi sul punto tra famiglie catanesi e famiglie palermitane.
Trattasi pertanto di dichiarazioni “de relato”, che, per avere valenza probatoria, occorrono di elementi di riscontro particolarmente robusti.
Peraltro proprio i contenuti delle propalazioni di Avola che hanno maggiore rilievo per il presente procedimento non sono state affatto costanti e sono segnate dalla strana iniziativa di riferire i fatti che coinvolgono gli odierni indagati ai P.M. di Messina e non a quelli che lo avevano sino ad allora interrogato, nonché dalla successiva ritrattazione e quindi dalla finale conferma a seguito della decisione di riprendere a collaborare.

12. Le dichiarazioni di Francesco Geraci

Francesco Geraci, collaboratore di giustizia, che pur non dichiaratosi affiliato formalmente a “cosa nostra” ha ricostruito le sue numerose attività illecite di sostegno all’organizzazione, aventi come perno il suo rapporto fiduciario con Matteo Messina Denaro, del quale ha favorito a lungo la latitanza e la contemporanea operatività criminale, ha fornito un contributo utile per la ricostruzione degli attentati di Roma e di Firenze del 1993 (sul punto si confronti la sentenza della Corte di Assise di Firenze). In quel contesto al P.M. fiorentino (verb. 18/9/1994), aveva dichiarato che Messina Denaro, dopo l’omicidio Lima, aveva commentato, riferendosi a persone a lui ignote: “così vediamo con questa botta, cosa ne pensa”.
Ha pure affermato che prima degli attentati di Roma e Firenze lo stesso Messina Denaro gli aveva chiesto cosa ne pensasse se l’organizzazione avesse ucciso una serie di politici e giornalisti importanti (fece i nomi di Martelli, Costanzo, Baudo e Santoro) per spingere lo Stato a trattare; sull’argomento si ritornò nel corso di una riunione con Mariano Agate e, dopo l’arresto di Riina, Gioacchino La Barbera disse a Geraci: “facendo questi attentati e ‘ste cose tu non pensi che ci sarà qualcheduno che va ‘nni Riina e ci va dice mettemunni d’accordo ccà, finemula…”.
Il dato emergente dalle dichiarazioni di Geraci, che assume particolare rilevanza per questo processo, consiste nel fatto che il collaboratore riferisce circostanze idonee a dimostrare che i progetti “eversivi” gli vennero manifestati già prima delle strage di Capaci e che lo stesso Geraci soggiornò a Roma partecipando a vari tentativi di pedinamento sia dell’on. Martelli sia del dott. Falcone (sul punto cfr. pure verb. P.M. di Firenze in data 23/9/1996); giova pure evidenziare che tali dichiarazioni sono ampiamente riscontrate, come si ricava dalla sentenza della Corte di Assise di Firenze

13. Le dichiarazioni di Ezio Cartotto

13.1 – Un ulteriore profilo dell’indagine del P.M., volto a valutare la fondatezza dell’ipotesi accusatoria, ha avuto riguardo alla determinazione dell’epoca in cui Berlusconi e Dell’Utri intrapresero iniziative di carattere politico, che avrebbero potuto renderli interlocutori di “cosa nostra” alla ricerca di nuovi referenti. A questi fini è stata concentrata l’attenzione sul giornalista Ezio Cartotto.
Cartotto è un personaggio che ha operato per conto degli odierni indagati concorrendo alla formazione del movimento politico “Forza Italia”; tale suo ruolo è emerso già da taluni accertamenti della Guardia di Finanza di Torino, risalenti al 1996, e sui quali si ritornerà dopo aver esaminato le sue dichiarazioni che hanno assunto maggiore rilievo nel presente procedimento.
Occorre evidenziare che Cartotto al P.M. di Palermo (verb. 20/6/1997) ha riferito che tra maggio e giugno del 1992 era stato contattato da Marcello Dell’Utri, il quale lo mise a parte di un suo progetto politico; egli sosteneva che, di fronte al venir meno dei referenti politici del gruppo FININVEST, era necessario adoperarsi per evitare un’affermazione delle sinistre che avrebbero certamente creato gravi difficoltà per questo gruppo. Poiché tale sua idea non era condivisa all’interno della FINIVEST, Dell’Utri lo invitò ad “operare come sotto il servizio militare e cioè preparare i piani, chiuderli in un cassetto e tirarli fuori in caso di necessità”.

13.2 – Cartotto spiegherà poi al Tribunale di Palermo (verb. 4/5/1998, proc. a carico di Dell’Utri Marcello e di Cinà Gaetano) e al P.M. di Caltanissetta (verb. 16/7/1999) che aveva conosciuto Dell’Utri già negli anni “70; all’epoca lo incontrava tra l’altro ai congressi della Democrazia Cristiana.
Sulle attività e le posizioni politiche assunte in quel periodo da Dell’Utri, il teste ha fornito indicazioni diverse; ha detto all’Ufficio requirente nisseno che mentre egli faceva parte della c.d. “Base”, facente capo alla sinistra democristiana, Dell’Utri gli diceva di essere vicino al gruppo di Ciancimino in Sicilia. Al Tribunale di Palermo Cartotto ha dichiarato invece che Dell’Utri non svolgeva attività politica militante nel gruppo di Ciancimino, ma che semplicemente si informava con particolare interesse su questo personaggio politico e sul suo intendimento di fondare una corrente. La difformità tra le due versioni è stata da lui giustificata con un difetto di memoria.
Cartotto ha dichiarato di aver conosciuto anche Berlusconi sin dagli anni “70 e di avere seguito l’evoluzione dei rapporti tra lui e Dell’Utri. In una prima fase Dell’Utri aveva lavorato alle dipendenze di Berlusconi con ruoli di secondo piano, poi era uscito dal gruppo e si era messo a lavorare con Rapisarda; quindi nel 1978 Dell’Utri aveva cercato di tornare con Berlusconi riuscendovi di lì a poco e assumendo nel gruppo una posizione di maggiore rilievo, quale responsabile di PUBLITALIA.
Cartotto ha anche riferito che nel periodo in cui Dell’Utri non lavorava più con lui, Berlusconi aveva manifestato preoccupazioni per i pericoli di rapimenti di familiari; Cartotto allora si curò di mettere in contatto l’imprenditore con il dott. Allegra, allora capo dell’Ufficio politico della Questura di Milano, che gli suggerì di incaricare della sua protezione un certo Quartarone, il quale tuttora lavora per Berlusconi (sul punto cfr. pure il verb. P.M. Caltanissetta 16/7/1999).
Il giornalista sin dal 1981 più volte aveva curato incontri e predisposto conferenze per il personale delle imprese facenti capo alla FININVEST su richiesta di Dell’Utri in ordine a problematiche politiche; questa attività divenne più frenetica dal settembre del 1992.
Fu in quel periodo che Dell’Utri lo invitò a svolgere opera di vera e propria consulenza politica per lavorare ad un progetto di individuazione di nuovi referenti per il gruppo di Berlusconi. Cartotto ha dichiarato al P.M. di Palermo (verb. 20/6/1997 P.M. Palermo) di essere stato assunto da PUBLITALIA e di aver cominciato a lavorare in un ufficio all’ottavo piano nei pressi di quello di Dell’Utri insieme ad una serie di collaboratori messigli a disposizione da quest’ultimo.
Del suo ingresso nel gruppo, secondo Cartotto, Berlusconi ebbe sicuramente contezza con la sua ufficiale assunzione nel settembre 1992.

13.3 – Su questi primi contatti con Dell’Utri e sul suo ruolo nella realizzazione di un nuovo progetto politico Cartotto ha fornito indicazioni diverse al P.M. di Caltanissetta (verb. 16/7/1999 P.M. Caltanissetta), affermando che il progetto non gli fu proposto da Dell’Utri e che invece fu studiato insieme da loro due :
“il dott. Dell’Utri mi chiese con preoccupazione di aiutarlo a capire sulla base della mia esperienza i possibili scenari politici in movimento. Il dott. Dell’Utri aveva vissuto in modo molto sofferto tutte le vicende che avevano riguardato la regolamentazione della materia radio-televisiva in Italia, in quanto Publitalia con il suo grande fatturato viveva come fornitrice di servizi per le televisioni commerciali del gruppo Fininvest. Solo qualche anno prima cinque ministri della sinistra della D.C. (tra cui l’on.le Martinazzoli) si erano dimessi per protesta contro la regolamentazione radiotelevisiva decisa in sostanza dal c.d. CAF (Craxi- Andreotti-Forlani). In questa mutata situazione politica Dell’Utri vedeva gravi rischi in negativo per il gruppo Finivest e della Pubblitalia di questa regolamentazione(…).
Dell’Utri voleva perciò un’analisi fatta da me per parare con delle iniziative i pericoli di questa situazione (…).
Sollecitato dal P.M. a chiarire i motivi della differente ricostruzione sul punto, Cartotto ha sostenuto di non ravvisare contraddizioni con quanto riferito in precedenza, puntualizzando:
“in realtà, il dott. Dell’Utri mi prospettò la necessità di individuare nuovi referenti per il gruppo FINIVEST in quanto quelli tradizionali non rappresentavano una capacità adeguata alle esigenze”
Dopo aver ricevuto l’incarico di disegnare possibili scenari idonei a raggiungere l’obiettivo fissato da Dell’Utri, Cartotto si mise subito al lavoro.
“Ricordo – ha riferito ancora il teste – che gli prospettai la possibilità di trovare intese con i partiti di sinistra. Questa ipotesi la scartò in quanto tali forze politiche avevano un rapporto privilegiato con i gruppi imprenditoriali concorrenti riconducibili a “Repubblica” e a “L’Espresso” che non avrebbe mai consentito di raggiungere lo scopo. Gli sottoposi l’ulteriore possibilità di coinvolgere o comunque di dar vita ad un legame con la Lega Nord, partito emergente in continua crescita. Dell’Utri si manifestò più possibilista innanzi a questa via, anche se in definitiva ritenne di scartarla perché si trattava di uomini nuovi che non presentavano adeguata affidabilità. Mostrò, invece, maggiore interesse per la terza ipotesi che gli suggerii, vale a dire il cambiamento all’interno dei partiti tradizionali. Pensavo alla scissione della DC, come si era ventilato da alcuni settori del medesimo partito, con la creazione di una DC del nord da contrapporsi a quella del sud. Il dott. Dell’Utri nell’aderire a questa proposta disse che si rendeva necessario creare un aggregato di quel partito anche al sud. Tuttavia in concreto l’idea non sembrava percorribile perché il potere non poteva essere ceduto da coloro che lo detenevano. Conclusivamente mostrò di voler privilegiare la quarta via che gli avevo prospettato, vale a dire quella della creazione di un gruppo contenitore. Preciso che tutti questi discorsi che ho riassunto si sono sviluppati nell’arco di un paio di mesi, durante gli incontri che avevamo al Palace Hotel di Milano. Ricordo di aver predisposto degli appunti nei quali avevo esposto le linee delle proposte di cui ho detto.
Con certezza posso dire che Dell’Utri decise di dar corso all’iniziativa “contenitore” nel giugno 1992.”
Sul punto in realtà la contraddizione di Cartotto si rivela apparente, ove si tenga conto di quanto egli ha dichiarato al P.M. di Torino, quale indagato di reati tributari. Nel verbale dell’8/2/1996, egli aveva difatti affermato che, dopo una lunga serie di incontri con Dell’Utri per confrontarsi su tali argomenti, all’incirca a settembre del 1992, stipulò un contratto con PUBLITALIA “secondo il quale il dott. Dell’Utri mi chiese di fare un’operazione di ‘marketing sociale’, a seguito della quale potevano anche nascere possibilità di lavoro per PUBLITALIA, ma che consisteva soprattutto in una serie quanto più vasta possibile di contatti con gruppi o associazioni al fine di verificare l’opinione che costoro avevano della situazione sociale e politica, al fine di creare o migliorare i rapporti di queste associazioni, enti e gruppi con il gruppo FINIVEST attraverso la PUBLITALIA”.
Già allora Cartotto aveva dichiarato che in questo contesto egli aveva avviato incontri su tematiche politiche con i vertici della FINIVEST.
Al P.M. nisseno ha spiegato con maggiore dettaglio:
“Il dottor dell’Utri decise di affidarmi il compito di dar vita ad un “processo” accelerato di formazione e di trasformazione dei quadri dirigenti del gruppo Fininvest in dirigenti politici, a far data dalla ripresa del lavoro dopo la sospensione feriale estiva. Preciso di essere stato invitato a metà settembre nel 1992 a Montecarlo, assieme agli ospiti istituzionali del gruppo, alla tradizionale convention annuale. Fui invitato a partecipare, “per sentire il polso” ai vari dirigenti del gruppo.”
Di questa convention, Cartotto aveva pure parlato al P.M. di Palermo, dicendo che nel corso di essa Berlusconi invitò i suoi dipendenti a prepararsi a qualsiasi evenienza per combattere i “nemici” che oramai contavano molto di più degli “amici” che in passato li avevano aiutati.
Da quel momento Cartotto cominciò a partecipare ad incontri con Berlusconi e Dell’Utri per studiare un progetto politico alternativo alle sinistre.

13.4 – Secondo il teste, il gruppo di Berlusconi era profondamente diviso in “falchi”, tra i quali Dell’Utri, e “colombe”, tra i quali Fedele Confalonieri e Gianni Letta; i primi propugnavano un diretto coinvolgimento del gruppo in politica, i secondi ritenevano che tale scelta avrebbe avuto effetti disastrosi.
Ai “falchi”, nel 1993, si associarono anche Cesare Previti ed Ennio Doris (presidente di “Programma Italia”), man mano che vennero a conoscenza del progetto.
Alle “colombe” si aggregarono gli “opinionisti” del gruppo, come Indro Montanelli, Federico Orlando, Maurizio Costanzo e Giorgio Gori.
Cartotto ha riferito di aver curato dall’ottobre 1992 in poi una serie di contatti per la FINIVEST con la Confartigianato, la Coldiretti, i sindacati autonomi e una parte della CISL e di aver verificato l’esigenza di tutte queste forze di avere un referente politico nell’area del centro.
Ha poi sostenuto che nell’aprile del 1993 fu convocato da Berlusconi, il quale gli disse che aveva necessità di prendere una decisione definitiva, optando tra la proposta di Dell’Utri e quella di Confalonieri.
Alla riunione prese parte, oltre a Cartotto e a Berlusconi, anche Bettino Craxi, invitato per la sua particolare competenza politica e per la sua risalente amicizia con il presidente della FININVEST, mentre non furono invitati i sostenitori delle opposte posizioni tra le quali l’imprenditore lombardo avrebbe dovuto scegliere.
Si valutò in quell’occasione l’idea che il gruppo di Berlusconi appoggiasse direttamente alcune forze politiche, sostenendo una nuova aggregazione politica; una ragione di contrasto tra Craxi e Berlusconi fu la possibile alleanza in un nuovo contenitore politico con l’allora MSI, che a dire del primo avrebbe fatto perdere i voti di centro e avrebbe ricompattato la Lega Nord (anziché scardinarla, come secondo lui sarebbe stato auspicabile), ma ad avviso del secondo sarebbe stata utile nella prospettiva di raccogliere in un unico fronte tutte le forze non comuniste.
Craxi comunque diede il via libera al progetto di Berlusconi.
Successivamente Berlusconi comunicò a Previti e a Dell’Utri di aver deciso che il gruppo si sarebbe direttamente impegnato nella battaglia politica. Così continua la ricostruzione di Cartotto:
“Si decise in quell’occasione di fare (come venne detto) un “giro d’Italia” di tutte le aziende clienti del gruppo, per sensibilizzarle sulle iniziative politiche da assumere. Previti diede il pieno appoggio all’iniziativa manifestando però dei dubbi su eventuali ipotesi di leader di questo nuovo movimento. Sin da allora del resto Berlusconi aveva evitato accuratamente di fare il proprio nome come leader di questa nuova forza politica.
Si pensava infatti ad alcuni ex DC come Martinazzoli e Segni o ad un ex PSI come Amato.” (verb. P.M. Palermo in data 20/6/1997).
Frattanto venivano coltivati i rapporti del gruppo FINIVEST con la Lega Nord, particolarmente curati da Dell’Utri che – secondo Cartotto – aveva in mente un progetto simile a quello di Craxi, cioè portare dalla propria parte un settore della Lega Nord e quindi arrivare ad esautorare Bossi.
Cartotto continuò a sondare varie forze sociali per valutare la possibilità di un loro coinvolgimento nel nuovo progetto politico sino a quando tra il luglio e l’agosto 1993 vi fu “il salto definitivo”.
“Nel luglio ’93, presso lo studio del notaio Roveda di Milano, venne costituita l’associazione “Forza Italia! Associazione per il buon governo”.
In questo periodo vennero abbozzati i progetti politici della nuova forza e vennero coinvolte persone esterne al gruppo come Urbani, Ciaurro e Calligaris. Nell’agosto del 1993 quindi si arrivò ad una riunione dei principali dirigenti Fininvest e degli altri esterni aderenti al progetto nel corso del quale la decisione venne comunicata a Confalonieri e a Letta.” (verb. P.M. Palermo in data 20/6/1997).
Cartotto ha pure parlato di uno scontro tra Confalonieri e Berlusconi a seguito di quella riunione; Confalonieri aveva difatti ancora contestato l’utilità del coinvolgimento diretto del gruppo nella lotta politica, perché la sua forte presenza nel settore della comunicazione avrebbe potuto da una parte influenzare pesantemente la libera scelta dei cittadini e dall’altra parte porre i politici “amici” in una posizione assai scomoda dinanzi all’opinione pubblica e nell’impossibilità di favorire la FINIVEST.
Tuttavia il timore dell’ascesa al potere di forze non democratiche in conseguenza, oltre che del venir meno di tutto un ceto politico, anche delle stragi del 1992 e del 1993, che avevano compromesso l’ordine pubblico del paese, dette – secondo Cartotto – una forte accelerazione ai propositi di Berlusconi e contribuì all’adozione del c.d. “Progetto Botticelli”, fino ad allora rimasto segreto e quindi sconosciuto anche allo stesso Cartotto, che così lo ha illustrato al P.M. di Palermo:
“Il progetto Botticelli prevedeva di trasformare alcuni dirigenti d’azienda in dirigenti del nascente partito politico. Dietro questo progetto c’era sempre il Dell’Utri, come può evincersi dal fatto che tutti i dirigenti del nuovo movimento sono stati arruolati dalle strutture di PUBLITALIA. Questo progetto confliggeva con quello originale che, come ho detto, prevedeva il coinvolgimento di forze sociali esterne alla FININVEST, la creazione di un nuovo soggetto politico con il semplice sostegno aperto da parte della FININVEST. Questo progetto implicava chiaramente la costituzione di un soggetto politico certamente di centro, e prevedeva anche il tentativo di coinvolgere una parte della sinistra moderata (come per esempio Amato).
Il progetto Botticelli, invece, era decisamente sbilanciato a destra, e prevedeva il coinvolgimento sia della Lega che dei missini”. (verb. P.M. Palermo in data 20/6/1997).
Di quel progetto Cartotto aveva pure ampiamente riferito al P.M. di Torino (verb. 16/2/1996), precisando tra l’altro che esso prendeva il nome dall’edificio di Segrate dove, negli uffici della FINIVEST concessi in affitto da PUBLITALIA, si svolgevano le riunioni tra coloro che condividevano il progetto stesso. Cartotto ha raccontato prima al P.M. torinese poi al P.M. di Palermo di essere stato presto estromesso da questo progetto proprio perché egli e le persone a lui legate erano esterne all’azienda e non potevano essere ammesse perché mancava loro il requisito principale richiesto: cioè un legame di dipendenza con l’azienda. Cartotto chiese spiegazioni della sua estromissione a Berlusconi, il quale gli disse che Dell’Utri lo aveva messo dinanzi al fatto compiuto, ma poi lo invitò a tornare ad occuparsi del progetto come suo consigliere personale.
Si rese però conto che il suo posto era stato assegnato a Domenico
Mennitti del MSI, sicchè decise di allontanarsi definitivamente dal progetto, pur rimanendo sempre in contatto con Berlusconi.
Sul punto al P.M. di Caltanissetta ha fornito indicazioni omogenee; pur non parlando esplicitamente di “Progetto Botticelli”, Cartotto ha raccontato nel verbale del 16/7/1999 di avere direttamente partecipato ad attività finalizzate a trasformare i dirigenti di azienda in dirigenti politici e ha aggiunto che “una volta compiuta la trasformazione dei quadri dirigenziali del gruppo in esponenti politici titolari di incarichi e cariche istituzionali il mio apporto si sarebbe dovuto concretizzare con una collaborazione non più interna alla struttura imprenditoriale, bensì con un rapporto di consulenza con la presidenza del Consiglio dei Ministri. Io accettai l’incarico che non si concretizzò a causa della caduta del governo”.
Giova pure ricordare che al P.M. di Palermo Cartotto ha riferito che Berlusconi comunicò formalmente ai suoi collaboratori la decisione di diventare egli stesso il leader del nuovo movimento subito dopo il Natale 1993, durante una grande riunione che si tenne ad Arcore.


13.5 – Cartotto non ha fatto mistero delle sue ragioni di malumore nei confronti di Dell’Utri e di Berlusconi per la sua esclusione, nonostante le precedenti promesse, prima da alcuni delicati incarichi e poi dalle liste elettorali del nuovo movimento; ha tuttavia sostenuto di non essere stato condizionato da motivi di astio nel riferire quanto a sua conoscenza sulla genesi del movimento “Forza Italia”.
In ogni caso va rilevato che i contatti di Cartotto con la FINIVEST, con Berlusconi e con Dell’Utri per lo svolgimento di conferenze ed attività di consulenza politica sono stati ampiamente asseverati non solo dalle stesse dichiarazioni spontanee di Dell’Utri nell’ambito del processo a suo carico dinanzi al Tribunale di Palermo (cfr. verb. ud. 4/5/1998), ma anche da una serie di altre attività di indagine.
La figura di Cartotto è difatti emersa nell’ambito delle investigazioni svolte dalla Procura della Repubblica di Torino – Gruppo reati tributari (proc. n.4488/95), i cui atti sono stati acquisiti in questo procedimento. Cartotto era coinvolto in una serie di false fatturazioni finalizzate alla corresponsione di compensi in suo favore per attività di consulenza risalenti alla seconda metà del 1993 e consistita nella tessitura di una rete di contatti con varie associazioni che avrebbero dovuto sostenere l’associazione “Forza Italia”.
Tra i documenti sequestrati dagli investigatori vi sono alcune lettere estremamente significative del tipo di attività in corso. Ad esempio in quella del 25/1/1994, indirizzata a Silvio Berlusconi e a firma di Giuseppe Resinelli (già Sindaco di Lecco, rappresentante del Circolo Milano 2000 e del consorzio Gestione parco Adda), nonché di Giuseppe Pizzetti, dipendente della Confederazione Nazionale Coltivatori Diretti, si leggono frasi estremamente indicative dell’attendibilità del Cartotto sul suo diretto rapporto con Berlusconi e sui suoi compiti in ordine alla creazione di un movimento politico che avesse come punto di riferimento l’imprenditore milanese, nonché infine sul suo progressivo allontanamento dal progetto da parte dei vertici della FINIVEST, a beneficio di altri soggetti. Può citarsi a titolo esemplificativo il seguente passaggio: “dopo l’incontro ad Arcore del 14 dicembre u.s. con Lei e con il dottor Cartotto, nel corso del quale eravamo stati esortati a proseguire il lavoro intrapreso con le associazioni, le categorie, le persone che fin dal giugno scorso avevamo avvicinato, nella prospettiva che Ella assumesse la guida di un movimento, ovvero di un partito politico, prospettiva poi concretizzatasi con la creazione di ‘Forza Italia’…”.
Resinelli e Pizzetti lamentavano poi nel corpo della missiva che la loro azione, pure insistentemente richiesta, non era stata coordinata con quella di “coloro che già operano nei diversi ambiti territoriali e della società civile”, e che in loro favore non erano stati poi onorati gli impegni economici né erano state liquidate le spese sostenute.
Sempre in questo contesto, la Procura di Torino aveva accertato elementi idonei a confermare l’attendibilità di Cartotto circa i suoi rapporti con Dell’Utri, sulla base di documentazione sequestrata presso la segreteria dello stesso Dell’Utri (nota della Guardia di Finanza in data 22/1/1996). Diversi altri testi, tra i quali il sopra citato Resinelli (verb. 2/2/1996), professionisti come Giovanni Mucci (verb. 22/2/1996) e Rodolfo Garofalo (verb. 2/2/1996), hanno confermato sia i forti contatti di Cartotto con gli ambienti politici e delle associazioni, sia i suoi privilegiati rapporti e le sue collaborazioni con Dell’Utri e Berlusconi.
Cartotto ha infine messo a disposizione diversi documenti del suo archivio che attestano lo svolgimento di questa attività di consulenza politica e di cura delle relazioni esterne a fini di ‘marketing sociale’, già sin dagli inizi dell’estate 1993 (cfr. atti acquisiti dal P.M. di Torino ed inseriti ai ff. 159 e ss. del faldone 4/a).
Particolarmente interessanti sono le note da lui stesso redatte e indirizzate a Berlusconi, contenenti le analisi politiche di cui ha parlato nei verbali sopra esaminate.


14. Le dichiarazioni del Sen. Francesco Cossiga

14.1 – L’Ufficio requirente ha sentito a sommarie informazioni il Sen. Francesco Cossiga (verb. 23/3/2000), in ordine alle vicende istituzionali italiane degli anni tra il 1992 e il 1994. La sua innegabile esperienza politica ai massimi livelli lo rende fonte di particolare interesse, come pure rilevato dal P.M. che ha fondato taluni passaggi argomentativi della sua richiesta di archiviazione sulle dichiarazioni dell’ex Presidente della Repubblica.
Cossiga ha ricordato che, poco prima della strage di Capaci, il 23/4/1992, si era dimesso dalla carica di Presidente della Repubblica perché era entrato nel c.d. “semestre bianco”, stava subendo un procedimento di “impeachment” per iniziativa dei partiti di sinistra e non avrebbe avuto i necessari poteri per gestire la crisi di governo in corso. Le indagini della Procura di Milano nel frattempo avevano già intaccato un sistema partitico, ad avviso di Cossiga già indebolito, dopo la caduta del muro di Berlino, dal venir meno della tradizionale contrapposizione ideologica tra schieramenti. Ha affermato il Senatore a vita:
“La disgregazione dei singoli partiti nelle loro strutture personali, organizzative ed elettorali cominciano a manifestarsi con Tangentopoli. La persona beneficiata da questo mutamento va identificata nell’on.le Berlusconi, il quale ebbe la capacità di creare un contenitore in cui quadri intermedi ed elettori dei vecchi partiti trovassero identità e sicurezza. Quella di Berlusconi è stata un’iniziativa quasi estemporanea che consentì di neutralizzare i partiti della sinistra che erano rimasti sostanzialmente intatti e dalla caduta del muro di Berlino e dal primo avvento di Tangentopoli. La decisione di scendere in politica di Berlusconi, per quanto mi consta, va collocata in un periodo di tempo di circa due-tre mesi prima delle elezioni del 1994. Ciò posso dire con assoluta certezza perché ebbi parte nello sviluppo dei rapporti tra l’on.le Berlusconi e il leader del P.P.I. In particolare, l’on.le Berlusconi aveva pensato che la funzione di antagonista della sinistra potesse essere svolta dall’area del P.P.I. riconducibile a Martinazzoli. Si rese, però, conto che ciò non poteva realizzarsi, in quanto diversa era la visione della funzione che tale leader politico aveva del P.P.I. rispetto a quella dell’on.le Berlusconi. Solo nel momento in cui constatò tale iato si determinò a scendere direttamente in politica. Mi risulta che egli era disposto anche a devolvere a favore del partito popolare di Martinazzoli la struttura riconducibile a Forza Italia che aveva iniziato a creare a far data dall’estate del 1993. I collaboratori aziendali di Berlusconi erano scettici dinanzi alla sua iniziativa di assumersi una responsabilità politica diretta. Mi viene richiesto di indicare chi siano stati i collaboratori che mostravano di non credere alla sua intuizione. Ed io dico praticamente tutti”.

14.2 – L’occasione che ha consentito al sen. Cossiga di apprendere tali notizie non è stata adeguatamente esplicitata; egli non ha riferito – in quanto il P.M. non gli ha posto domande in tal senso – in quale periodo egli curò i contatti tra Berlusconi e Martinazzoli, per quali ragioni Berlusconi lo scelse come suo emissario nella trattativa, con quali modalità tale trattativa si articolò, quale era il concreto progetto politico del quale l’ex Presidente della Repubblica sarebbe stato auspice (circostanza quest’ultima di un certo rilievo anche in considerazione del fatto che nel recente passato – come ricordato da Cartotto ed emergente dalla nota della DIA del 5/2/1998 – Martinazzoli era stato uno dei ministri della DC che, in polemica con un provvedimento del Governo favorevole al gruppo di Berlusconi, si era dimesso dalla sua carica).
Ciò posto va tuttavia segnalato che dall’ampia raccolta dei dispacci dell’agenzia ANSA degli anni 1992-1994, acquisita agli atti (fald. 4 carpetta A), si ricava che effettivamente il dibattito politico della fine del 1993 aveva ad oggetto una serie di consultazioni di Berlusconi con vari esponenti politici, tra i quali con maggiore evidenza si segnalavano l’on. Segni e l’on. Martinazzoli. Inoltre l’indiscutibile esperienza e la particolare autorevolezza politica del Sen. Cossiga spiegano la circostanza che egli sarebbe stato interessato da Berlusconi o da persone a lui vicine affinchè venissero stipulati accordi politici con personaggi già da tempo impegnati nella vita pubblica del Paese.
Questo Ufficio ritiene tuttavia che tra le dichiarazioni di Cartotto e quelle del sen. Cossiga non vi possa essere il contrasto ventilato dal P.M. nella richiesta di archiviazione.
E difatti, se non vi è alcun dubbio che, come riferito dall’ex Presidente della Repubblica, la formalizzazione del diretto impegno politico di Berlusconi avvenne agli inizi del 1994 (l’ANSA ne dette notizia il 26 gennaio di quell’anno), d’altro canto le dichiarazioni di Cartotto, ampiamente compatibili tutta la documentazione acquisita dal P.M. di Torino, dimostrano che all’interno delle aziende di Berlusconi sin dal 1992 venivano studiate iniziative finalizzate ad incidere sugli scenari politici in fase di progressiva e non prevedibile trasformazione, al fine di evitare l’affermazione di gruppi politici o finanziari, oramai dichiaratamente interessati a colpire la loro realtà economica.
E sulle attività interne al gruppo FININVEST, così come sugli orientamenti vari dei suoi esponenti ovviamente poteva essere meglio informato chi in quel periodo vi aveva operato dall’interno quale consulente politico da epoca ben più risalente a quella in cui il Sen. Cossiga – da esterno – fu coinvolto nella gestione dei rapporti tra Berlusconi e Martinazzoli.
Peraltro, come già ricordato da Cartotto, l’associazione denominata “Forza Italia! Associazione per il buon governo” fu costituita il 29/6/1993 a Milano (atto notar Roveda, acquisito al fascicolo) da alcuni noti professionisti, alcuni inseriti nelle aziende controllate da FINIVEST, altri comunque vicini a Berlusconi; e dall’esame della ricerca sui dispacci ANSA, svolta dagli investigatori, si ricava che fin dai primi mesi del 1993 il dibattito politico era animato dalle ventilate ipotesi circa la creazione di un non meglio definito “partito di Berlusconi”.


15. Le indagini su Marcello Dell’Utri e Silvio Berlusconi

15.1 – Snodo rilevante dell’indagine, anche sulla base delle dichiarazioni dei collaboratori, è stato l’accertamento di elementi obiettivi in ordine a rapporti o connessioni di Silvio Berlusconi, Marcello Dell’Utri e persone ad essi collegate con la criminalità organizzata di tipo mafioso.
Sul punto già una nota dello SCO della Polizia di Stato in data 18/2/1994, su delega del Procuratore di Firenze, evidenziava che agli atti del suo ufficio nulla emergeva in relazione a Berlusconi, a proposito del quale veniva solo segnalato che egli era stato in passato oggetto di investigazione per la sua appartenenza alla loggia massonica P2 e per i suoi accertati collegamenti con il faccendiere Flavio Carboni; tali vicende venivano ricostruite dagli investigatori in base a diversi atti (allegati alla nota), perlopiù formati da organismi parlamentari di inchiesta.
Venivano viceversa evidenziati i rapporti dei fratelli Marcello e Alberto Dell’Utri con esponenti di “cosa nostra” siciliana, emersi nell’ambito di precedenti indagini per traffico di stupefacenti.
Successive investigazioni hanno accertato che Dell’Utri intratteneva rapporti non solo con esponenti del mondo finanziario e con figure di primo piano del mondo politico (ad esempio Aristide Gunnella e Bettino Craxi), ma anche con personaggi palermitani poi fatti oggetto di indagine per reati connessi con le attività dell’organizzazione mafiosa “cosa nostra”; tra i nomi apparentemente riconducibili a soggetti vicini alla predetta organizzazione quello di Mandalari, identificabile secondo gli investigatori nel commercialista Giuseppe Mandalari, quello di Gaetano Cinà, divenuto poi coimputato del Dell’Utri in un procedimento pendente dinanzi all’A.G. di Palermo, e quello di Mangano Vittorio, identificabile secondo gli investigatori nel pregiudicato al quale i collaboratori hanno fatto riferimento; relativamente al Mandalari risultano annotazioni nel periodo di luglio 1992; relativamente al Mangano risulta un’annotazione del 2/11/1993 – probabilmente fatta da personale di Dell’Utri – con dicitura: “Mangano Vittorio sarà a Mi X parlarle problema personale” (nota della DIA in data 4/4/1995).
Sulla figura criminale di Vittorio Mangano, il fascicolo offre numerosi elementi, contenendo le informative che lo riguardano e che sono state nel tempo elaborate dagli inquirenti; basterà per tutti richiamare il rapporto giudiziario in data 7/2/1983, congiuntamente redatto dalla Criminalpol della Lombardia, del Lazio e della Sicilia, nonché dalla Questura di Roma a carico di Bono Giuseppe + 159 per associazione mafiosa e associazione finalizzata al traffico di stupefacenti. In tale documento Mangano veniva individuato, sulla base di copioso materiale probatorio, come capo di un gruppo dedito al traffico di stupefacenti su scala nazionale, saldamente collegato alla mafia palermitana.
Lo stesso Dell’Utri in altri procedimenti (verb. P.M. Palermo 26/6/1996) ha ammesso di aver conosciuto Mangano, di avere avuto con lui rapporti ottimi, di averlo segnalato a Berlusconi perché fosse assunto alle sue dipendenze; ha aggiunto di sapere che anche dopo la cessazione di questo rapporto di lavoro Mangano continuò a frequentare la scuderia di Arcore dove teneva a pensione un suo cavallo di nome “Epoca”. Ha infine riferito di averlo incontrato ancora altre volte tra la fine degli anni “80 e gli inizi degli anni ”90, perché dopo la sua scarcerazione Mangano di tanto in tanto andava a trovarlo a Milano.
Mangano, sentito dal P.M. di Palermo il 29/6/1996, ha confermato le circostanze, affermando che nel 1973 Marcello Dell’Utri e Gaetano Cinà gli proposero il lavoro ad Arcore presso Berlusconi, indicatogli come un amico di Dell’Utri che aveva da poco acquistato una proprietà con annessa villa e che aveva bisogno di un fattore. Ha tenuto a precisare di non avervi svolto attività come stalliere, bensì appunto come fattore.
Quando si trasferì a villa San Martino ad Arcore, essa era ancora in ristrutturazione e per un certo periodo vi abitò soltanto lui con la sua famiglia; dopo qualche tempo venne ad abitarvi anche la famiglia di Berlusconi.
Ha dichiarato inoltre che durante la sua permanenza ad Arcore fu arrestato in esecuzione di un ordine di carcerazione e, dopo essere stato scarcerato, vi fece rientro. Passò poco tempo e sulla stampa vennero pubblicati articoli che lo descrivevano come un pericoloso soggetto collegato con ambienti mafiosi. “Mi preoccupai molto” – ha dichiarato Mangano – “soprattutto per la situazione in cui mi sarei trovato con il dott. Berlusconi la cui immagine sarebbe stata offuscata da quell’articolo. Ne parlai quindi con il dott. Dell’Utri che mi fissò un appuntamento con il dott. Confalonieri. Nel colloquio con quest’ultimo, io espressi la mia intenzione di lasciare villa San Martino per lo stato di disagio che si era creato. Il Confalonieri, appresa la mia intenzione, mi lasciò libero di decidere e non mi chiese di andarmene”.
Mangano ha pure riferito della telefonata intercettata tra lui e Dell’Utri nella quale si parlava dell’acquisto di un cavallo e ha escluso che il riferimento fosse criptico, in quanto a suo dire egli doveva vendere alcuni animali troppo costosi da mantenere; ha aggiunto che in realtà egli intendeva scherzare con Dell’Utri poiché era ben a conoscenza del fatto che il suo interlocutore non era interessato all’acquisto.
Ha poi tentato di smentire Dell’Utri affermando: “non ho mai incontrato né telefonato né cercato il Dell’Utri dopo il 1990. Non avrei mai cercato di incontrarmi con lui dopo essere stato condannato per gravi reati. Cercandolo, avrei potuto soltanto portargli guai dopo tutto quello che è successo”.
Le dichiarazioni di Mangano su quest’ultimo punto appaiono inattendibili, proprio perché dalle stesse risultanze dell’agenda di Dell’Utri emergono appunti relativi alla fissazione di incontri tra loro; lo stesso Dell’Utri ha ammessi tali incontri, pur riconducendoli a rapporti di mera cortesia.
Questi dati confermano le dichiarazioni dei collaboratori di giustizia i quali riferiscono circostanze specifiche in ordine al mantenimento di contatti con Dell’Utri da parte di Mangano. Non forniscono utili ed esplicite conferme in ordine alle ragioni per le quali tali rapporti venivano mantenuti dopo il 1990 dal Mangano.
Rimane in ogni caso oscuro il motivo per il quale il Mangano, già a conoscenza della versione fornita da Dell’Utri in ordine ai loro incontri, abbia voluto egualmente negarli.


15.2 – Per quanto attiene agli altri eventuali contatti con personaggi siciliani, sempre da un block notes di Dell’Utri, tra il foglio datato 21/12/1993 e il foglio datato 3/2/1994, risultano diverse annotazioni relative a contatti intrapresi dall’avvocato catanese Nino Papalia, sottoposto ad indagine dalla DDA di Catania per traffico d’armi. In una di queste (foglio 3/2/1994) leggesi: “Avv. Papalia per candidature su Catania”.
La DIA ha pure segnalato, nella nota del 4/4/1996, che sull’”elenco agenda 12/5/1993”, sequestrata presso l’abitazione di Dell’Utri (Villa La Comacina), è stato rinvenuta l’annotazione di due numeri telefonici di Perrin Patrick, persona che sulla base di investigazioni eseguite in altri procedimenti, risulta essere stato in contatto con Licio Gelli, essere stato poi implicato in una vicenda di esportazione clandestina di pesetas ed in epoca risalente al 1982 essere stato oggetto di ricerche internazionali per la rapina di un portavalori insieme a Francesco Mangion e Giuseppe Strano, entrambi esponenti del clan Santapaola di Catania.
E’ inoltre emerso che Dell’Utri ha fatto brevi soggiorni presso l’Hotel Villa Igea di Palermo nel novembre 1991, nel marzo 1992, nel giugno 1992 e nell’ottobre 1992. Non sono invece emersi dati utili in ordine a manifestazioni di propaganda elettorale che abbiano avuto luogo in territorio siciliano nel 1992 con la partecipazione di Dell’Utri e di Berlusconi.
Su delega del P.M., inoltre la DIA ha elaborato i traffici telefonici di Marcello Dell’Utri e di altri personaggi, considerati vicini a “cosa nostra” (come ad esempio Salvatore Scardina e Rosario Cattafi), individuando diversi punti di contatto anche nel periodo di interesse della presente indagine; non sono stati ricavati specifici elementi meritevoli di ulteriore approfondimento (cfr. fald. 3, carpetta B; fald. 3/B, carpetta D)

15.3 – Le indagini si sono rivolte poi verso le attività economiche e le imprese riconducibili al c.d. Gruppo Finivest; in particolare, il P.M. ha dapprima richiesto al ROS di predisporre un elenco di tutte le imprese che erano state già oggetto di attenzione investigativa in relazione ai fenomeni di condizionamento mafioso della libera concorrenza e degli appalti; l’elenco è stato predisposto e trasmesso con nota dei ROS di Caltanissetta in data 3/2/1999.
E’ stata quindi richiesta un’accurata indagine sul gruppo societario facente capo alla Finivest: in evasione della delega la DIA ha trasmesso con nota del 26/2/1999 due volumi contenenti le schede delle 401 società che tra l’1/9/1991 e il 31/12/1993 operavano nel gruppo FINIVEST.
Il P.M. ha delegato quindi la DIA in data 10/3/1999, affinchè procedesse a verificare la sussistenza, tra le imprese indicate dai ROS e le imprese facenti capo al gruppo FINIVEST, di “dati di similitudine per quanto attiene ai soci di maggioranza, agli amministratori, ai componenti del collegio sindacale, ovvero se siano riscontrabili fenomeni di associazioni d’imprese, fusioni, trasformazioni o inglobamenti di sorta tra le imprese indicate nei rispettivi elenchi, e ciò a far data dal 1987 e sino al 1994”.
Nella nota del 30/7/1999 (fald. 3/A), la DIA ha evidenziato la sussistenza di specifici elementi di correlazione tra alcune delle società di interesse degli odierni indagati ed altre società facenti capo a soggetti con ruoli di primo piano nei settori più fortemente condizionati dagli interessi e dalle direttive di “cosa nostra”; in particolare Filippo Salamone e Giovanni Miccichè, ambedue indagati in procedimenti penali relativi a fatti di condizionamento mafioso della libera concorrenza e della regolarità degli appalti pubblici, risultavano titolari di quote nella Tecnofin Group s.p.a. che aveva costituito con la CO.GE S.p.A. (controllata dalla Paolo Berlusconi finanziaria s.p.a.) la Tunnedil s.c.a.r.l. per la realizzazione di una galleria naturale e relativi raccordi sulla strada provinciale di Favignana (appalto questo sul quale la Procura di Firenze, nell’ambito del procedimento relativo alle stragi del 1993, ha svolto ampia attività di indagine per cercare riscontri a propalazioni di collaboratori senza conseguire risultati specifici; fald. 3/B carpetta A).
La suddetta CO.GE s.p.a. risultava aver avuto tra i suoi azionisti nel periodo 1990-1993, oltre alla “Paolo Berlusconi Finanziaria s.r.l., anche una serie di persone fisiche tra le quali tale Salvatore Simonetti, nato a San Giuseppe Jato il 4/7/1952, ma residente a Roma sul quale il P.M. appuntava la sua attenzione, disponendo ulteriori approfondimenti con delega del 30/7/1999.
La DIA accertava che Salvatore Simonetti non era imparentato con i Simonetti di San Giuseppe Jato (Giovanni e Domenico), già noti alle autorità giudiziarie palermitane perché vicini a “cosa nostra” e prestanomi di Riina e dei Brusca; tuttavia egli risultava essere stato cointeressato in diverse società insieme a soggetti già sottoposti ad indagine per reati connessi all’organizzazione “cosa nostra”, come i già menzionati Salamone e Miccichè e come Giovanni Gentile, legato al noto capomafia di Trapani, Vincenzo Virga (cfr. nota DIA del 20/3/2000).
In proposito va rilevato che Gentile era uno dei soci della IM.PRE.GET. s.r.l., altra società che confluì nella Tunnedil s.c.a.r.l. per il lavoro sulla galleria di Favignana.
Giova altresì ricordare che, secondo le dichiarazioni di Angelo Siino e di Giovanni Brusca, già positivamente vagliate da altre autorità competenti a conoscere dei relativi fatti-reato, Salamone aveva partecipato con ruolo di organizzatore alla formulazione e alla rigorosa applicazione del c.d. “patto del tavolino”, in base al quale gli appalti in territorio siciliano venivano gestiti dallo stesso Salamone, da Antonino Buscemi (imprenditore vicino a Riina e titolare al 50% della “Reale Costruzioni” facente capo al gruppo Ferruzzi) e da Giovanni Bini (uomo di fiducia di Buscemi, che svolse il ruolo di rappresentante delle società facenti capo al gruppo Ferruzzi in Sicilia); il “patto” garantiva i legami con la grande imprenditoria per la realizzazione dei lavori di maggiore valore, il controllo su di essi di “cosa nostra”, il recupero delle somme da corrispondere all’organizzazione e ai politici che assicuravano gli appalti.
Sempre tra i soci della CO.GE., emergeva anche tale Giorgio Mori; il P.M. nella sua richiesta di archiviazione segnala un legame parentale di costui con il Gen. Mori, uno dei protagonisti della trattativa con Ciancimino all’epoca delle stragi, ma conclude, condivisibilmente, che il collegamento non è sufficiente a prefigurare che l’alto ufficiale dell’Arma potesse aver avuto contatti con Berlusconi e dell’Utri e quindi potesse essere stato “ambasciatore” di costoro nel rapportarsi con gli uomini di “cosa nostra”.
La nota della DIA del 30/7/1999 evidenziava altresì che la famiglia Rappa, alcuni componenti della quale sono stati indagati per reati di associazione mafiosa, di estorsione e di riciclaggio (sul punto vi è copiosa documentazione giudiziaria trasmessa dalla DIA con nota del 20/3/2000), erano titolari della CIPEDIL s.p.a. (già oggetto di indagine dei ROS) ed erano stati cointeressati nella “Sicilia televisiva s.p.a.”, nella quale erano poi subentrati amministratori facenti capo alla “Fininvest” e che è stata ancora in seguito incorporata in “Rete quattro s.p.a.”.

15.4 – Il P.M. ha evidenziato nella sua richiesta di archiviazione che su questi rapporti di affari e su queste cointeressenze si è spostata l’attenzione del suo Ufficio al fine di individuare i mandanti c.d. “esterni” delle stragi del 1992.
Lasciando al P.M. le valutazioni di sua competenza in ordine all’utilità di tali dati per individuare eventuali ulteriori piste investigative diverse da quelle sinora perseguite, rileva l’Ufficio che tali accertati rapporti di società facenti capo al gruppo Fininvest con personaggi in varia posizione collegati all’organizzazione “cosa nostra” costituiscono dati oggettivi che – in uno agli altri elementi relativi ai contatti e alle frequentazioni di Dell’Utri con esponenti della stessa cosca – rendono quantomeno non del tutto implausibili nè peregrine le ricostruzioni offerte dai diversi collaboratori di giustizia, esaminate nel presente procedimento, in base alle dichiarazioni dei quali si è ricavato che gli odierni indagati erano considerati facilmente contattabili dal gruppo criminale; vi è insomma da ritenere che tali rapporti di affari con soggetti legati all’organizzazione abbiano quantomeno legittimato agli occhi degli “uomini d’onore” l’idea che Berlusconi e Dell’Utri potessero divenire interlocutori privilegiati di “cosa nostra”.
A ciò si aggiunga che altri soggetti comunque legati al gruppo Fininvest avevano intrattenuto rapporti di affari con personaggi di “cosa nostra” (sul punto si fa richiamo ai numerosi atti contenuti nei faldoni 4/A1, 4/A5, 4/A6, relativi a Massimo Maria Berruti, la persona che secondo Siino avrebbe fatto da intermediario con Berlusconi per una delle trattative finalizzate a propugnare una legislazione più favorevole a “cosa nostra”). Infine il gruppo Fininvest, nella sua progressiva espansione nel settore televisivo, incorporò tra l’aprile e il novembre del 1991 ben cinque società che avevano sede a Palermo (“Rete Sicilia s.r.l.”, la già citata “Sicilia Televisiva s.p.a”, “Sicil Tele s.r.l.”, “Trinacria TV s.r.l.”, “CRT Sicilia Color s.r.l.”; cfr. nota della DIA in data 15/3/2000); la circostanza rende pure plausibile che “cosa nostra”, in quel periodo fortemente radicata sul territorio e certamente capace di condizionare le attività economiche in esso operanti, non rimanesse inerte dinanzi all’avanzare di una realtà imprenditoriale di quelle proporzioni, perlopiù facente capo ad un gruppo nel quale si muovevano soggetti già considerati facilmente avvicinabili in forza di pregressi rapporti.
Vi è poi la vicenda relativa agli attentati alla “Standa”, in relazione ai quali discordanti sono state le notizie fornite dai collaboratori; tutti d’accordo nell’indicare come essi perseguissero finalità estorsive, secondo alcuni di costoro ulteriore scopo era quello di promuovere un contatto con Berlusconi o con Dell’Utri da utilizzare anche per ottenere sostegno agli interessi dell’associazione. Brusca ha escluso invece tale ulteriore finalità e, sebbene sui tentativi di “cosa nostra” di avviare relazioni con gli odierni indagati egli sia apparso a questo Ufficio reticente, non si può escludere che sul punto le sue affermazioni siano veritiere.
Difatti, delle due l’una: o Berlusconi e Dell’Utri versavano già da tempo a “cosa nostra” dei contributi, come molti collaboratori hanno riferito, e allora il rapporto già sussisteva e non era necessario propiziarlo con altre iniziative, oppure non vi era alcun rapporto pregresso (pertanto le convergenti dichiarazioni dei collaboratori non sarebbero credibili) e allora gli attentati di Catania potevano essere utili.
Si propone una terza alternativa, che nella contraddittorietà delle indicazioni dei collaboratori rimane solo un’ipotesi; e cioè che gli attentati dovessero servire a fare maggiore pressione su Berlusconi e dell’Utri, ad alzare insomma la “posta” e a coinvolgere con un ruolo di rilievo anche le cosche catanesi.
Va comunque segnalato che, come riferito dalla DIA nella nota del 6/12/1999, non è stato possibile acquisire “elementi utili aventi carattere esaustivo” in ordine ai viaggi aerei effettuati da Marcello Dell’Utri tra Milano e Catania nel periodo in cui si sarebbe dovuto incontrare (a Catania o, secondo Avola, a Messina) per discutere delle richieste degli uomini di “cosa nostra”.


16. Conclusioni

La ricognizione degli atti di indagine contenuti nel fascicolo fa emergere, ad avviso di questo Ufficio, che gli spunti indiziari a sostegno dell’ipotesi accusatoria, per quanto numerosi, risultano incerti e frammentari, pertanto inidonei a legittimare l’esercizio dell’azione penale e insuscettibili di ulteriore approfondimento.
Gli esiti dei processi già celebrati e gli elementi agli atti convergono nel dimostrare che le stragi di Capaci e di Via D’Amelio maturarono in “cosa nostra”, dopo che i vertici dell’organizzazione ritennero di aver subito gravi affronti in ragione di nuove iniziative governative di contrasto della criminalità e dell’esito del maxiprocesso in Cassazione.
Ai loro occhi si era determinata un’inedita ed inammissibile saldatura tra i suoi tradizionali nemici (Falcone e Borsellino) ed i suoi ex amici (tali consideravano Andreotti e la sua corrente, Martelli e altri esponenti del PSI), da contrastare con ogni mezzo.
La strategia era quella di eliminare fisicamente e politicamente tutti costoro; già questo basta a prefigurare nella logica di “cosa nostra” l’esigenza di avere nuovi interlocutori. Le trattative difatti sarebbero dovute avvenire con lo Stato, ma non s’intendeva certamente accettare nuove alleanze a nuove condizioni con coloro i quali avevano “tradito”.
Si è visto che la finalità di cercare nuovi contatti e nuovi equilibri fu perseguita a tutto campo e diverse iniziative furono coltivate: quella che coinvolgeva Bellini, quella che vide protagonisti gli ufficiali dei ROS, uella a cui alludeva Riina quando disse a Brusca “si sono fatti sotto”.
Uno dei pensieri costanti di “cosa nostra” era anche nel 1992 e nel 1993 creare i “contatti politici”. In questa prospettiva appare compatibile l’interesse e il diretto coinvolgimento nella creazione di movimenti separatisti, come “Sicilia Libera”, da utilizzare quale extrema ratio al fallimento di altro tipo di soluzioni di collateralismo politico, da sempre preferiti da “cosa nostra”.
Dopo la strage di Capaci, vi erano in cantiere altre attività rientranti nella strategia di attacco ad esponenti delle forze politiche tradizionali, ma nessuna particolarmente eclatante. Vi fu poi qualcosa che fece mutare i programmi e il progetto di uccidere il dott. Borsellino fu eseguito nelle forme ben note dell’esplosione dell’autobomba in via D’Amelio.
Questo secondo grave attentato ebbe la prevedibile conseguenza di dare legittimazione ad iniziative ancora più incisive contro “cosa nostra”, che mai fino ad allora lo Stato aveva avuto la risolutezza di attuare.
In argomento sono sempre state avanzate due ipotesi: o l’organizzazione commise il più grave errore tattico della sua storia in ragione della non più gestibile tracotanza dei suoi aderenti oppure essa agì convinta che la reazione dello Stato non vi sarebbe stata.
La prima ipotesi appare improbabile anche perché contrastante con gli stili tradizionali di “cosa nostra”, emergenti dagli esiti di innumerevoli processi oramai appartenenti al notorio, e perché certamente ci fu una circostanza nuova e non preventivata – la cui natura nessun collaboratore ha saputo svelare – che portò a far considerare prioritario un’eclatante attentato a Borsellino. L’unico fatto noto alla cronaca di quei giorni e che potrebbe spiegare l’accelerazione è la candidatura di Borsellino alla Direzione Nazionale Antimafia; ma residua comunque una rilevante sproporzione tra il vantaggio che “cosa nostra” avrebbe conseguito uccidendo un inquirente di quella autorevolezza e di quelle capacità e il danno derivante dalla prevedibile reazione dello Stato e dell’opinione pubblica, dopo che il grave attentato, già di per sé idoneo ad elevare il livello di allarme per la pericolosità delle organizzazioni criminali, fosse chiaramente apparso come mirato ad impedire ad un magistrato all’epoca popolarissimo di svolgere le più alte funzioni investigative nel settore dell’antimafia.
Residua pertanto la seconda ipotesi che cerca al di là della tracotanza della linea di Riina i motivi dell’accelerazione e del conseguente abbandono della tradizionale prudenza tattica di “cosa nostra”. In questo ambito trova cittadinanza l’ulteriore florilegio di ipotesi secondo le quali l’organizzazione avrebbe agito dopo la consultazione di soggetti in grado di garantire appoggio per scongiurare una reazione repressiva; soggetti che avrebbero richiesto, concordato, acconsentito o consentito i delitti per cui si procede.
E’ del pari credibile che, se anche i vertici di “cosa nostra” avessero coltivato una strategia di attacco senza curarsi delle tradizionali regole di prudenza dell’organizzazione, al fine di sedare le perplessità degli altri affiliati abbiano potuto ingigantire o solo millantare la sussistenza di appoggi che garantissero l’immunità.
Così può essere ancora credibile che dai comportamenti di alcuni soggetti esterni all’organizzazione, protagonisti delle trattative, gli uomini di “cosa nostra” abbiano tratto l’erroneo convincimento della necessità di realizzare attentati ancor più eclatanti.
Ma questa ulteriore ipotesi potrebbe essere avvalorata, se fosse possibile identificare con certezza le trattative del Gen. Mori e del magg. De Donno con quelle cui alludeva Riina, quando disse a Brusca che qualcuno “si era fatto sotto”. In mancanza di elementi sicuri in questo senso rimane ancora oscuro il motivo della più volte evidenziata accelerazione.
Gli atti al fascicolo hanno ampiamente dimostrato la sussistenza di varie possibilità di contatto tra uomini appartenenti a “cosa nostra” ed esponenti e gruppi societari controllati in vario modo dagli odierni indagati. Ciò di per sé legittima l’ipotesi che, in considerazione del prestigio di Berlusconi e Dell’Utri, essi possano essere stati individuati dagli uomini dell’organizzazione quali eventuali nuovi interlocutori.
Dalle dichiarazioni di Cartotto e da altre risultanze è emerso che già nel 1992 Dell’Utri aveva avviato delle iniziative finalizzate ad incidere sugli scenari politici in progressiva trasformazione in modo da raccogliere consensi attorno a formazioni non avverse alla FININVEST. Anche questo attivismo, se ovviamente fosse stato noto a “cosa nostra”, avrebbe potuto suscitare l’interesse di tale organizzazione.
Occorre tuttavia verificare se effettivamente tali contatti vi siano stati e che esito abbiano avuto.
Orbene le dichiarazioni dei collaboratori di giustizia che dovrebbero riscontrare tale ipotesi sono tutte “de relato” e, come si è visto, il più delle volte generiche ed incerte nei contenuti.
I collaboratori maggiormente in grado di fornire informazioni precise sulle trattative devono ritenersi comunque quelli che all’epoca componevano la Commissione, e cioè Cancemi, reggente di Porta Nuova, e Giovanni Brusca, reggente di San Giuseppe Jato.
Le progressive e anguillose propalazioni di Cancemi sono viziate dalla sua costante propensione a ridimensionare il proprio ruolo nei reati contestatigli; dopo aver fatto riferimento alle notizie apprese da Ganci su “persone importanti” contattate da Riina, egli ha poi finalmente ammesso di aver partecipato a riunioni deliberative e in questo contesto ha detto che sentì parlare Riina di Berlusconi e Dell’Utri. Non ha spiegato nulla del tipo di accordo che con loro sarebbe intervenuto e di quale poteva essere l’interesse di costoro alle stragi per cui si procede.
Brusca dal canto suo ha dichiarato di non sapere nulla di questi contatti, ma si è anche visto che le sue propalazioni in ordine al suo coinvolgimento e alle sue conoscenze circa i contatti politici intrattenuti dall’organizzazione negli anni 1991- 1994 sono apparse particolarmente reticenti. E tuttavia, se quanto da lui riferito non vale a dare netta smentita alle dichiarazioni di Cancemi, per altro verso non consente di dare ad esse alcun riscontro né di superare la loro genericità.

Un movente a carico degli odierni indagati potrebbe essere prefigurato dalle dichiarazioni di Siino, anch’esse “de relato”, in ordine al tentativo di avvicinare Craxi attraverso Berlusconi, tentativo sul quale altri collaboratori hanno deposto. Esse delineano uno scenario parzialmente diverso: Berruti avrebbe consigliato a Gioè di mettere in atto azioni eclatanti, idonee a consentire a Craxi, uomo politico particolarmente vicino a Berlusconi, di assumere posizioni di vertice e bloccare le azioni di contrasto a “cosa nostra”. Ma questo tipo di ricostruzione, assai difficile da riscontrare con dati estrinseci, fa riferimento ad un progetto velleitario e di ben scarsa praticabilità nel periodo delle stragi, quando comunque il ruolo politico di Craxi era irrimediabilmente compromesso dagli esiti delle indagini della Procura di Milano e dai contrasti interni al suo partito (sul punto le risultanze di cui alla nota della DIA del 5/2/1998); sicchè non offre elementi di specifica coerenza al quadro indiziario in esame.
La valutazione – svolta nei paragrafi precedenti – delle dichiarazioni degli altri collaboratori di giustizia palermitani e catanesi, come Cannella, Pennino e Avola, che hanno avuto ruoli di diverso spessore criminale, ha mostrato poi che esse non presentano in tutta la loro pienezza i requisiti di attendibilità e tale carenza non è supplita da sufficienti elementi di riscontro estrinseco.
Le indicazioni di altri collaboratori di giustizia (Pietro Romeo e Giovanni Ciaramitaro; cfr. i verbali di interrogatorio resi al P.M. di Firenze in fald.2 carpette U e V) in ordine a notizie da loro apprese circa il ruolo di istigatori assunto dagli odierni indagati nelle stragi del 1993 sono state già oggetto di procedimento dinanzi all’A.G. di Firenze che, come ricordato nel par.1, è stato archiviato per l’insufficienza degli elementi a sostenere l’accusa in giudizio.
Pertanto, a prescindere dal loro valore probatorio, come già fondatamente sottolineato dal P.M. nella richiesta di archiviazione, non potrebbero essere utili a sostenere la diversa ipotesi accusatoria di un concorso di Berlusconi e Dell’Utri nelle stragi di Capaci e di via D’Amelio.
La friabilità del quadro indiziario impone pertanto l’archiviazione del procedimento.

P.Q.M.
Visti gli artt. 408 e 411 c.p.p., 125 disp. Att. c.p.p.,
DISPONE l’archiviazione del procedimento e la trasmissione degli atti al P.M.

Caltanissetta, 3/5/2002


IL GIUDICE

- dott. Giovanbattista Tona -

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